Politica
di Guido Formigoni
No more politics?
Serve ancora la politica nei tempi post-moderni?
Mai questione è stata più controversa di quella politica nella storia umana. In nome della politica si è ucciso e rubato, si sono costruiti grandi regni e imperi che hanno espresso volontà di dominio inaudite, si sono accumulate passioni, odi e rancori. Ma in nome della politica si sono infiammati i cuori e le menti di generazioni di persone. Si sono anche create fortissime solidarietà collettive, si sono sperimentati grandissimi esempi di dedizione a progetti comuni, si sono viste uomini e donne dimenticarsi della propria realizzazione e del proprio benessere e spendersi per il prossimo, si è dato vita a complesse costruzioni istituzionali e giuridiche che hanno retto alla sfida dei secoli.
La politica è per essenza la ricerca, la conquista, la gestione del potere, ma non di ogni forma di potere: il potere come dimensione riconosciuta e ufficiale, cioè ‘legittima’ all’interno di una società. Ma basta l’ansia del potere per definire la politica? Sembra di no: nessun grande disegno politico, che ambisse a durata e incisività, si è basato solo sulla miope volontà di potenza. Ha sempre avuto bisogno di una giustificazione ideale, di una capacità di creare persuasione e consenso. Potremmo dire, di una ideologia: questo discorso è particolarmente vero in epoca moderna. Non si tratta solo di un inganno, ma di una necessità strutturale, che ha risvolti molto forti. Dal punto di vista morale, per esempio, il problema politico in generale si può quindi definire chiedendosi come far coincidere il potere con la “giustizia”. Come asservire ogni piccola dimensione del potere “legittimo”, nella sua indubbia forza materiale e simbolica, ad una visione di un mondo più giusto ‚ qualche tempo fa si sarebbe usata l’espressione “bene comune” – e non gestirlo invece in nome dell’interesse personale della classe politica o delle ragioni di pochi privilegiati.
Il problema è che la tendenza irriducibile della politica a unificare il mondo si è dovuta scontrare nella modernità con il proliferare del pluralismo sociale, con la compresenza di molte idee e molti modi di intendere la “giustizia”. Il percorso del liberalismo moderno ha condotto proprio a questa separazione progressiva tra il mondo “privato” delle molteplici idee e delle visioni del mondo religiose od ideologiche, e il mondo istituzionale dove si dà “rappresentanza” a un’unità sociale che riconosce le proprie diversità interne (organizzate più o meno in “tendenze”), ma al contempo lascia fuori dalla porta la decisione sul senso ultimo delle cose, per convenire attorno a un limitato programma di gestione degli affari comuni della società.
Sul tronco di questa evoluzione storica, la democrazia è apparsa come lo strumento meno inadatto per selezionare i governanti: la parola greca che significa “governo del popolo” è stata ripresa nell’età contemporanea in modo abbastanza diverso da quello classico. Non si trattava più di far convenire i cittadini liberi nell’agorà per prendere le decisioni comuni, ma di strutturare un sistema di deleghe elettorali per costituire corpi rappresentativi, di fronte ai quali i governi fossero responsabili (come accade appunto nei sistemi parlamentari moderni). Ma ‘democrazia’ nel Novecento ha significato anche qualcosa di più di queste regole: un battaglia per l’allargamento degli angusti confini del liberalismo, coinvolgendo nella vita politica le masse che tradizionalmente erano escluse dalla vita pubblica perché nullatenenti o ignoranti (e quindi irresponsabili, nella visione liberale). L’allargamento del diritto di voto fino al suffragio universale ha espresso questa tensione, di cui si sono fatti portatori proprio i moderni partiti a base di massa. La democrazia ha poi vinto la battaglia inserendosi sul tronco della tradizione delle costituzioni di matrice liberale. Oggi appare una specie di risultato scontato dell’evoluzione storica, anche se le sue radici sono segnate dal sudore e dal sangue di molte generazioni.
Questa stagione ha creato una politica “forte”, che ha contrassegnato un ciclo storico di almeno cinquant’anni (grosso modo, potremmo dire, il percorso che andava dagli anni ’30 agli anni ’70 del Novecento). La politica che si esercitava secondo ideologie e passioni assolute, in forme organizzative tipiche come i grandi partiti di massa. La politica che intendeva ordinare il mondo, costruire le forme della vita sociale, addirittura costruire ‘l’uomo nuovo’ secondo le diverse ideologie che incarnavano visioni della storia e dell’umanità radicalmente diverse. Quindi la politica della stagione totalitaria (di segno fascista oppure comunista), ma anche la politica forte di quegli Stati liberaldemocratici occidentali che hanno intrapreso una via di stabilizzazione dell’economia per via governativa, connessa alla forte utilizzazione di strumenti istituzionali per redistribuire il reddito (fiscalità progressiva, Stato sociale) e correggere una divaricazione classicamente ritenuta spontanea tra ricchezza e povertà. Oggi possiamo leggere queste evoluzioni attraverso una chiave di lettura che è quella dell’evoluzione complessiva e della vittoria di una o dell’altra prospettiva; oppure possiamo considerare gli influssi reciproci, che non sono mancati, tra le diverse ideologie. Ma non possiamo sottovalutare lo scontro molto forte tra visioni diverse, che politicamente si è per esempio espresso in una decisa contrapposizione tra destra e sinistra nelle aule parlamentari e nelle piazze.
Dagli anni ’80 questo ciclo è entrato in crisi, per molte ragioni. Alcune sono state ragioni interne, dato che la conquista di una serie di obiettivi politici ha tolto le basi stesse alla spinta di massa per il cambiamento della società (lottare per ottenere il diritto di voto, le assicurazioni sociali e la sanità gratuita era stato un grande veicolo di crescita della spinta politica: ormai si trattava invece di questioni scontate e anche un po’ burocratizzate). Altre ragioni sono da ricondurre a un vero e proprio passaggio di sistema economico e quindi sociale: dai tempi della prima industrializzazione basata sulla produzione di massa standardizzata (fordismo), si è entrati in una fase di crescita economica maggiormente flessibile, integrata a livello internazionale, basata sulla qualità e la soddisfazione individuale. La stessa massificazione ha assunto forme più articolate e meno grezze, attraverso un grande ulteriore slancio dei mass media. Tutti tratti che hanno stimolato la liberalizzazione dei mercati, la fine dello Stato-imprenditore e la deregolamentazione di molti aspetti della vita sociale. La politica in questa logica si è adattata rapidamente a un nuovo ciclo in cui essa doveva ricoprire il ruolo di mera amministrazione dell’esistente.
Oggi quindi la politica e la democrazia non godono di uno spontaneo e ampio consenso sociale. Potremmo dire che non sono “di moda”. Almeno, la sensazione è che stiamo vivendo un ciclo di politica “debole”, che per non essere del tutto emarginata ha accettato la situazione creata dai grandi cambiamenti storici degli ultimi due decenni.
Molte delle recenti tendenze politiche vanno in questa direzione: si pensi alla prevalenza di una visione “maggioritaria” della democrazia governante in cui compito dei cittadini-elettori non è identificarsi con una forza politica alla cui vita partecipare, ma eleggere un governo una volta ogni quattro-cinque anni, giudicandone quindi l’operato alla scadenza della legislatura; alla prevalenza degli esecutivi sugli organi rappresentativi a tutti i livelli (nonostante la retorica sul ruolo importante delle opposizioni); oppure alla personalizzazione, per cui la politica non si identifica con programmi, partiti, utopie, ma con “leaders” riconoscibili e identificabili; o ancora alla riduzione tendenzialmente “amministrativa” delle scelte, per cui nessun governo può avere compiti di modificazione profonda della realtà, ma solo gestione di indirizzi leggermente diversi dai competitori (si parla infatti in tutto il mondo sviluppato – di un bipolarismo caratterizzato da posizioni di “centro-destra” contro “centro-sinistra”) all’interno di binari rigidamente prefissati dall’assetto socio-economico dato per indiscusso.
Ma le domande riemergono: non esiste forse un problema politico immediato che nasce dalla coscienza del rapporto genetico e originario tra la persona e la comunità? ma tutti i rapporti tra le persone sono politici, oppure bisogna distinguere tra relazioni di prossimità e relazioni di tipo sociale? cosa può fare la politica di fronte alle ingiustizie di un mondo diviso tra una piccola fascia di popolazioni straricche e una moltitudine misera? come governare le tendenze economiche alla globalizzazione dei mercati? è possibile stabilire dei “fini” sociali condivisi che non siano solo imposti dalle necessità economiche? esiste ancora una differenza tra destra e sinistra come modi diversi di affrontare i problemi politici? come controllare l’incontro, il confronto e a volte lo scontro tra le diverse fedi, religioni, visioni forti del mondo, favorito dalle grandi dinamiche demografiche e dagli spostamenti delle popolazioni, che hanno avviato grandi flussi di immigrazione ? che senso ha la mia vita di cittadino se non trovo il modo di contare niente nella determinazione del governo della società? Non è che la politica possa tornare a dire qualcosa in tutto ciò?
