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Areopago-Economia

Economia

di Rosario Iaccarino

L’economia tra ricchezza e potere

L’economia, secondo l’efficace definizione dell’economista americano Paul Samuelson, è la scienza che studia come i singoli e la società scelgono di impiegare le risorse scarse allo scopo di produrre vari tipi di beni e di distribuirli, nel presente o nel futuro, tra gli individui e i gruppi della società. La parola deriva dal greco, e ha a che fare con le leggi per la gestione della casa (oikos). Tale definizione può essere considerata l’approdo di un percorso intellettuale in campo economico sviluppatosi negli ultimi due secoli.

La nascita recente della scienza economica

Solo nel 1776 con l’opera di Adamo Smith dal titolo Ricchezza delle Nazioni il pensiero economico assume una sua autonomia e un suo statuto elevandosi alla dignità di una vera e propria scienza. Si parla, in particolare, di economia politica perchè le decisioni degli attori economici (Stato, famiglie, imprese) influenzano l’amministrazione della polis: in questo senso ogni società è chiamata a trovare delle soluzioni per rispondere ai bisogni (potenzialmente illimitati) delle persone dovendo fare i conti con le risorse disponibili (tendenzialmente scarse).
Prima della nascita dell’economia come scienza, dall’Antica Grecia fino al Medioevo, la realtà economica prendeva significato prevalentemente nell’ambito della morale, quindi della teologia e della filosofia: più che sulle leggi che regolano e influenzano il processo economico all’interno della società, a quei tempi si ragionava sulle finalità dell’agire economico. Inoltre, i ruoli sociali erano fissi e gerarchici. Il contesto politico e giuridico quindi condizionava i rapporti economici tra gli uomini che allora erano divisi in padroni e schiavi, per cui i frutti del lavoro della terra non erano destinati al mercato ma all’autoconsumo e al proprietario terriero. Per la gran parte dell’umanità, questa condizione rappresentava una lotta continua per la sussistenza, drammaticamente destinata a incontrare periodi di sconfitta: la malattia, la carestia, la vecchiaia. Solo a fronte della prima crescita di una produzione che eccedeva la domanda di consumo, cominciò ad evolversi una pratica di scambio mercantile dei beni. Si trattava sempre di pratiche elitarie, diffuse peraltro fin dall’antichità.

Gli albori del capitalismo

Le prime modalità di economia che sulla base della proprietà privata di denaro e di mezzi di produzione si ponesse l’obiettivo di produrre nuovo reddito si realizzarono nell’Europa tardo-medievale: si trattava degli albori del capitalismo. Il denaro non era solo fonte di lusso per le classi agiate, ma diveniva strumento per creare altra ricchezza. L’economia capitalistica si intrecciò quindi con il sorgere degli Stati moderni, di cui aveva bisogno per creare un contesto ordinato e regolato giuridicamente. Il mercantilismo divenne un canale di espansione del potere di questi Stati (fondato sull’accumulazione dell’oro). L’intensificarsi degli scambi commerciali, prima in natura e poi attraverso la moneta, creano le premesse per la costruzione di varie forme di mercato. Nell’economia di mercato, la terra e il capitale diventano fattori della produzione: grazie al lavoro dell’uomo (anch’esso fattore della produzione), essi creano un valore superiore alla somma delle risorse impiegate nell’attività produttiva: le merci prodotte in sovrabbondanza vengono vendute sul mercato e danno luogo al profitto, che reinvestito diventa il motore del ciclo economico.

Il grande balzo in avanti di questo circuito tra nuova scienza e nuova economia fu dato dalla rivoluzione industriale, che tra ‘700 e ‘800 prese il via in Gran Bretagna per poi estendersi in Europa e negli Stati Uniti. Si trattò di una svolta epocale dell’economia capitalistica, in quanto l’applicazione di nuove conoscenze tecniche e di nuovi meccanismi sociali (sistemi di fabbrica), permise di innalzare verticalmente la produttività del lavoro e degli altri fattori della produzione e far entrare il sistema economico in una fase di crescita senza precedenti e senza apparenti limiti. A queste nuove condizioni si collegò un nuovo dibattito interpretativo.

Le principali scuole del pensiero economico: Smith, Marx e Keynes

Adamo Smith (capofila dell’economia classica), osservando gli albori di questa grande trasformazione, sostenne che il libero mercato e la concorrenza garantiscono la ricchezza e il benessere di tutte le nazioni e all’interno di esse delle diverse classi sociali, in quanto esiste una mano invisibile in grado di mantenere in equilibrio il sistema economico: se crescono i profitti crescono anche gli investimenti, l’occupazione e i consumi: dunque, la domanda e l’offerta di beni e di lavoro coincidono.

Questa tesi a sostegno del sistema capitalistico fu invece contrastata (cento anni dopo) da Carlo Marx nell’opera Il Capitale. Egli sosteneva per un verso che la borghesia moderna aveva compiuto un grandissimo lavoro storico, emancipando dai vincoli feudali ed aristocratici le forze della produzione. Ma riteneva che il processo di crescita economica e di accumulazione capitalistica non fosse automatico né immune da crisi. Per Marx, il profitto si basava strutturalmente sullo sfruttamento del lavoro salariato, mentre il sistema nelle fasi di crisi produceva una riserva di disoccupati, che permetteva ai capitalisti di mantenere bassi i salari. Una dinamica che, secondo le previsioni poi rivelatesi infondate del filosofo ed economista tedesco, avrebbe portato il capitalismo ad un inesorabile declino. Il proletariato, una volta crollato il sistema, rimasto unica classe generale perché veramente universale, avrebbe condotto alla spontanea socializzazione del lavoro, nella proprietà comune dei mezzi di produzione e a una ridistribuzione equa dei suoi frutti (socialismo). Tuttavia il sistema economico socialista ebbe possibilità di organizzarsi solo nel mondo sovietico dopo la rivoluzione del 1917, costituendo una sorta di centralizzazione statale delle decisioni economiche nella forma della pianificazione centralizzata. Tale sistema ebbe dei successi, perché condusse all’industrializzazione aree arretrate del mondo, soprattutto in un’epoca in cui il mondo capitalistico era scosso da una grave crisi, che sembrava avvicinare le previsioni di Marx. Ma fallì in seguito nella gestione dell’allargamento del benessere, crollando definitivamente in Europa orientale nel 1989. Resta viva la sua versione cinese, che ora però peculiarmente sta tentando di ibridare struttura politica comunista e struttura economica di mercato.

Sulla scia della Grande Depressione del 1929, nata proprio al centro del sistema economico avanzato, che portò miseria e disoccupazione nel mondo, anche il pensiero economico liberale si sviluppò. Un grande economista inglese, John Maynard Keynes, rifiutò l’idea dell’autoregolamentazione del mercato e della “mano invisibile” che tutto riporta in equilibrio. Nel libro sulla Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Keynes sostenne che le decisioni di investimento degli imprenditori e quelle di spesa dei consumatori non rispondono ad automatismi interni al mercato ma a interessi diversificati; e non è abbassando i salari che si può tendere alla piena occupazione, ciò anzi comporta una diminuzione dei consumi e quindi degli investimenti e conduce ad un’ulteriore diminuzione dell’occupazione. Vi è perciò la necessità che lo Stato, anche indebitandosi temporaneamente, adotti una politica economica a sostegno della domanda di beni e servizi, giocando un ruolo decisivo nel processo di accumulazione. Il mercato senza l’intervento regolatore della politica non può garantire la piena occupazione, la quale nel pensiero keynesiano rappresenta anche il cardine dello Stato sociale affermatosi negli anni ’50 in tutta Europa e che altro non è che un programma di redistribuzione e di sostegno al reddito (e quindi ai consumi e agli investimenti) conseguito attraverso l’ampliamento dei posti di lavoro.

L’avvento del pensiero unico neoliberista

Questo pensiero sta alle origini di una fase nuova di rapporti tra politica ed economia, che permise al capitalismo occidentale di generalizzare gli effetti della innovazione tecnologica, in un mercato di massa e nella società dei consumi. Del resto è la fase della crescita industriale (si è definita anche “seconda rivoluzione industriale”), che si basa sulla grande industria di beni di consumo standardizzati, organizzata secondo modalità scientifiche e rigida disciplina (fordismo), a cui si accompagna però l’idea di un allargamento del benessere anche ai lavoratori, che sono la base necessaria dello sviluppo. L’epoca successiva alla seconda guerra mondiale portò così a un ottimismo radicale e a fortissimi successi dell’economia capitalistica. L’unico serio problema che si incontrò, fu la difficoltà a generalizzare questi successi, fuori dall’area avanzata europea e nordamericana. La promessa di generalizzare lo sviluppo economico anche ai paesi che uscivano dal sistema coloniale e dall’imperialismo, non si realizzò, nonostante grandi speranze in quelli che si cominciarono a chiamare i paesi del Terzo Mondo.

Nel tempo, però, anche il cuore del sistema mostrò difficoltà. Una serie di eventi come gli shock petroliferi degli anni ’70 che fecero aumentare contestualmente inflazione e disoccupazione, la massiccia innovazione tecnologica di processo risparmiatrice di lavoro (qualcuno ha parlato di una “terza rivoluzione industriale”, basata sulla qualità e l’individualizzazione dei beni, con molto maggior peso della informazione e dei servizi), e la nuova fase di globalizzazione con l’apertura dei mercati e la riduzione della sovranità degli stati nazionali, hanno mutato quelle condizioni politiche ed economiche nelle quali il keynesismo ha ottenuto significativi risultati. La crisi del keynesismo ha aperto la strada al monetarismo e a quel filone del pensiero economico fondato sulla supply side economics, ossia l’economia dal lato dell’offerta, che recuperando l’elaborazione degli economisti neoclassici mira a liberare il mercato dai vincoli politici, riducendo i costi del Welfare state, detassando le imprese e liberalizzando il mercato del lavoro: una deregulation che negli anni ’80 è stata il pilastro dei programmi politici della signora Thatcher in Inghilterra e di Reagan negli Stati Uniti e che imprime all’attuale processo di integrazione economica globale un segno marcatamente neoliberista.

La nuova globalizzazione dell’economia

La globalizzazione dell’economia è un fenomeno antico: l’economia capitalistica ha sempre sfruttato la forza degli Stati moderni, ma ha sempre ambito a non farsi racchiudere al loro interno. Già a fine ‘800 un mercato internazionale di merci e capitali avvolgeva il globo, dominato politicamente ed economicamente dall’Europa avanzata. Tuttavia la rivoluzione informatica degli ultimi decenni combinata con l’efficienza dei nuovi mezzi di trasporto ha consentito di ridurre lo spazio, i tempi e i costi degli scambi commerciali e, soprattutto, grazie all’abbattimento delle barriere daziarie, ha favorito l’ampliamento dei mercati finanziari e la libera circolazione dei capitali. Le decisioni dei creditori condizionano i governi che non hanno strumenti politici efficaci per incidere a livello sovranazionale dove invece le imprese hanno libertà d’azione: aumenta quindi il tasso di instabilità delle economie nazionali, soggette anche a manovre finanziarie speculative che accrescono la volatilità dei capitali; a farne maggiormente le spese sono quei paesi cosiddetti emergenti che per attirare capitali dall’estero attuano politiche di liberalizzazione economica già penalizzanti per i redditi e la stabilità dei lavoratori e che si ritrovano a vivere fasi drammatiche di recessione, per di più curate dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale con ricette di aggiustamento strutturale finanziario a garanzia dei creditori che le mettono definitivamente al tappeto. La recente vicenda argentina è al riguardo un caso di scuola.

L’Europa dal canto suo ha cercato di far fronte ai nuovi assetti del potere economico prodotti dalla globalizzazione per ridurne l’impatto critico del movimento di capitali attraverso l’unificazione monetaria e politica, adottando tuttavia una serie di politiche economiche restrittive che se avvantaggiano il capitale non hanno effetti significativi sull’occupazione e allargano la forbice tra i soggetti garantiti e quelli precari. Tra questi ultimi vanno annoverati gli immigrati che in fuga dai loro paesi a causa della fame rimangono fermi nella parte più bassa della scala sociale, lavorando e vivendo spesso in condizioni penose.

Cresce la ricchezza, aumentano le disuguaglianze

La nuova globalizzazione avrebbe in sé tutte le condizioni per migliorare la qualità della vita delle persone su tutto il pianeta, ma fino ad oggi, fortemente segnata dal pensiero unico neoliberista, ha mostrato il volto peggiore di sé. Infatti, malgrado la crescita della ricchezza sul pianeta, sono aumentati i divari di benessere tra Nord e Sud del mondo – il 20% dei paesi ricchi consuma l’86% delle risorse disponibili, mentre la metà della popolazione mondiale vive con meno di due dollari al giorno – ma anche all’interno degli stessi paesi ricchi. In Italia, ad esempio, secondo le stime della Banca d’Italia, il 10% delle famiglie possiede la metà della ricchezza prodotta (immobili, aziende, oggetti di valore, depositi, titoli di stato, azioni), per non dire del persistente divario territoriale che vede nel Nord la piena occupazione e nel Mezzogiorno una elevata disoccupazione strutturale che genera anche una situazione di grave povertà materiale di singoli e famiglie.

Più in generale gli effetti della ristrutturazione dell’economia in senso neoliberista ricadono sul lavoro, che anche per ragioni strettamente organizzative dell’impresa post-fordista è oggi soggetto ad una sempre maggiore flessibilità. Una prospettiva questa di per sé non necessariamente negativa se fosse coadiuvata da politiche sociali in grado di evitare alle persone la spirale della precarietà; politiche che tuttavia sono inibite dai vincoli di bilancio posti ai governi. In questo orizzonte la flessibilità del lavoro e del salario, salvo per le figure professionali forti sul mercato del lavoro, rappresentano invece la modalità per trasferire sul lavoro buona parte del rischio delle imprese impegnate a ridurre i costi di produzione per rimanere competitive sul mercato. D’altra parte i dati degli ultimi dieci anni parlano di uno spostamento consistente di una quota del reddito nazionale prodotto dal lavoro al capitale.

A oltre duecento anni dalla nascita della scienza economica la cittadinanza sociale si è certamente allargata, ma altre questioni antiche e inedite relative al benessere delle persone di ogni parte del mondo attendono una risposta: è compito della economia politica continuare ad evidenziarle, ma della politica affrontarle e risolverle.