Le lezioni di questa guerra (28 giugno 1999)
La guerra per il Kosovo ha finalmente trovato una sua tregua. Anche se è azzardato parlare di pace, nella situazione tutta precaria di queste settimane, è senz’altro da condividere il senso di sollievo generalizzato per la fine della fase acuta del conflitto. Ma la riflessione deve riprendere proprio ora con maggior profondità, se non si vuole semplicemente acquietare le coscienze e tornare alle normali occupazioni. Occorre valutare a fondo le lezioni di questa guerra, che ha costituito un punto di rilievo assolutamente critico della storia attuale del mondo. La guerra in Europa non è purtroppo una novità cominciata il 23 marzo del 1999, dopo decenni in cui ci si era illusi che fosse una pratica definitivamente superata. Sofferenze e tragedie avevano già insanguinato i Balcani, dal 1991 in poi. A poche centinaia di chilometri dalle nostre coste avevamo già conosciuto spargimenti di sangue, pulizie etniche, bombardamenti di città, stragi ed esodi di massa. Abbiamo dovuto cercare Pristina sulla carta geografica dopo aver imparato a trovare Sarajevo, Mostar, Srebrenica, Vukovar. La guerra attuale ha però avuto caratteri inediti: per la prima volta nella sua storia, la struttura militare della Nato è stata usata contro un paese sovrano. L’Italia è stata coinvolta direttamente nelle operazioni: ciò giustifica la risonanza più acuta nelle coscienze e nella vita politica del nostro paese. Avremo tempo per valutare con maggiori distacco e conoscenza di causa come il paese abbia complessivamente gestito tale sfida, ma fin da ora sappiamo che non è possibile accettare acriticamente ciò che è successo e i fatti che la guerra ha creato. Occorre un nuovo investimento intellettuale e morale, se vogliamo davvero impegnarci a “pensare politicamente la pace” e non solo a predicare astrattamente buoni sentimenti.
1. La pace si conferma un obiettivo politico da costruire prima che una crisi precipiti in un esito sanguinoso
La crisi kosovara aveva una storia lunga e travagliata, vissuta per lo più nell’indifferenza internazionale. E’ esplosa nella guerra per motivi complessi, in parte anche contingenti. La guerra però non può essere considerata la continuazione della politica con altri mezzi: si rivela piuttosto sempre più chiaramente come il suo opposto. Comunque essa scoppi, preclude la strada alla ricerca di soluzioni operative dei conflitti, conducendo a tagliare con la forza nodi delicati. Reprimere l’aggressore può talvolta essere addirittura necessario, ma non risolve in modo duraturo i conflitti. E’ sempre più chiaro come occorra invece prevenire le situazioni critiche, dispiegando una forma apposita di intervento umanitario internazionale che favorisca la composizione dei conflitti prima che esplodano in una fase cruenta. La cosiddetta “comunità internazionale” deve sentirsi responsabilizzata nella normalità, per poter poi essere coinvolta nell’eventuale e sempre tragicamente possibile emergenza con qualche misura di legittimità e di efficacia. L’attuale impotenza di cultura, metodologie e prassi operative di questo tipo riflette proprio le difficoltà del superamento di un mondo “anarchico”, costituito da Stati dotati di una sovranità assoluta.
2. Il dominio del principio nazionale, soprattutto quando declinato in chiave etnica, si rivela sempre più problematico
Al fondo dell’idea di “nazione”, intesa come corpo unitario costituito esclusivamente da un popolo omogeneo, per ciò stesso “indipendente” e sovrano, si annida ancora tragicamente l’idea dell’allontanamento o della persecuzione del diverso. Naturalmente, la presenza di istituzioni autoritarie esalta queste dinamiche ed aggrava per ciò stesso il problema. Questo discorso vale per l’idea di una Grande Serbia – ora definitivamente affossata – ma anche per il futuro: bisognerebbe diffidare di ogni illusoria replica dell’immagine di purezza comunitaria di qualsiasi piccola nazione che rivendichi una propria totale omogeneità ed autonomia. L’Europa del Duemila dovrebbe aver imparato a ragionare di convivenza delle diversità su un terreno nazionale, come ha imparato lentamente – almeno in Occidente – a vivere in termini pluralistici la stessa idea di una comunità europea. L’unica salvezza della stessa idea di nazione deve essere trovata su un terreno democratico di mediazione delle diverse culture e mentalità di un popolo che condivide il bene primario della vita su una stessa terra: il rispetto del diritto di tutti e di ciascuno, a prescindere dalla nascita o dalla lingua, ne è il presupposto inalienabile.
3. La volontà, sinora inedita, di difendere internazionalmente i diritti umani deve trovare una sua forma istituzionale più organica
La nuova tutela internazionale dei diritti umani invocata nel caso del Kosovo è stata presentata come il primo episodio di un superamento di vincoli storici, come quelli imposti dai confini delle sovranità statuali. L’intervento non ha però nascosto una sua forte dose di arbitrarietà, sorpassando le procedure dell’Onu e piegando la stessa ragion d’essere della Nato a finalità esterne rispetto alla lettera del suo trattato costitutivo. Per legittimarsi in modo definitivo, il principio dell’“ingerenza umanitaria” deve assumere una forma molto più stabile, generalizzata e verificabile. Un ordine giuridico democratico su scala mondiale deve poter chiedere soddisfazione positiva e generale per i diritti umani. Il principio non può infatti essere applicato in modo erratico e diverso a seconda della condizione geopolitica o delle alleanze internazionali dei governi refrattari. I kosovari non sono diversi dai curdi o dai sudanesi, dai ruandesi o dai timoresi, dai palestinesi o dagli indios guatemaltechi e del Chiapas.
4. Occorre affermare più rigorosamente il principio di responsabilità rispetto alle azioni internazionali
Ogni uso della forza ha i suoi effetti, che non possono essere trascurati quasi si vivesse in un illusorio regno di buone intenzioni. La tesi corrente, per cui non si poteva stare a guardare passivamente i massacri, si è rivelata debole proprio in quanto scarsamente accompagnata dalla misurazione attenta delle conseguenze prevedibili dell’intervento. Nel caso del Kosovo, le sofferenze della popolazione di origine albanese sono state senz’altro inizialmente aumentate dall’intervento militare della Nato. I bombardamenti hanno completato agli occhi dei serbi la trasformazione di una minoranza conculcata e vessata in una popolazione apertamente nemica, producendo una guerriglia dai caratteri totali. I profughi e i perseguitati sono stati moltiplicati, i contrapposti nazionalismi esasperati. Oggi, pur avendo radicalmente indebolito l’esercito serbo e prostrata l’economia di tutto quel paese, è ancora fortemente dubbia la possibilità di una ricostruzione minimale della regione e della ripresa di una qualche normalità civile. Appare irrealistica anche l’idea del ritorno completo dei profughi nelle proprie case, come la triste lezione bosniaca purtroppo insegna.
5. La posizione morale e politica dell’alleanza occidentale è stata indebolita proprio dai caratteri della guerra che ha scelto di condurre
Evocando dibattiti di altri tempi, pochissimi in Occidente – tranne alcuni dei vituperati “pacifisti” – si sono esplicitamente detti disposti a “morire per Pristina”. La guerra condotta soltanto con le bombe “intelligenti” (che qualche volta intelligenti non sono state), da posizioni di invulnerabilità praticamente assoluta, ha dimostrato i suoi limiti di efficacia. Il dittatore non è stato piegato in pochi giorni ed è ancora al suo posto. Al di sotto del dominio tecnologico dei cieli da parte europea, la “sporca” guerra di tipo balcanico è continuata e l’interposizione finale delle truppe legittimate dal consiglio di sicurezza dell’Onu rischia di arrivare in tragico ritardo. Al contempo, e la cosa ci pare ancor più rilevante, tale impostazione ha rivelato i suoi forti condizionamenti culturali, mettendo in luce i limiti della mentalità dominante nelle nostre sazie società del benessere. Il vincolo per cui nessuna perdita umana nel nostro campo appare politicamente tollerabile, limita fortemente il senso storico ed etico della stessa logica di “ingerenza umanitaria”. Esprime infatti un distacco asettico e scostante che è esattamente il contrario della compassione e del coinvolgimento.
6. La prospettiva del “governo mondiale”, riemersa nuovamente nella trama di questa crisi, richiede una forte cautela
Esiste infatti una contrapposizione nei fatti tra il ruolo della Nato e quello dell’Onu, che rende critica la ricerca di procedure condivise per gestire le crisi. La Nato, in quanto alleanza di paesi occidentali e ricchi, oppure gli Stati Uniti nella loro nuova miscela di generosità umanitaria e politica imperiale di potenza, non possono ambire a essere legittimati come “gendarmi del mondo” senza rischiare pericolosi contraccolpi. Analoghi limiti avrebbero anche le strutture dell’Unione europea (al di là del fatto che un loro ruolo unitario più efficace sarebbe comunque auspicabile). D’altro canto le strutture dell’Onu sono ancora ben lungi dall’aver raggiunto la vitalità e l’operatività necessaria, e sembrano limitarsi ormai a una sorta di ruolo di “ultima istanza” nella gestione delle crisi internazionali, senza farsi coinvolgere finché non esista una prima prospettiva di uscita dai momenti critici. Ma al di sotto di questa reale tensione tra soggetti istituzionali diversi, bisogna considerare attentamente che è impossibile pensare di affidare a un qualsiasi potere universale un compito generalizzato di sorveglianza delle tensioni mondiali. Se all’interno di ogni popolo, di ogni regione e di ogni angolo del mondo non si affineranno le capacità di autogoverno e di correzione delle tendenze distruttive, nessun passo di civilizzazione potrà essere imposto dall’esterno. In questo senso, la giustamente auspicata futura Conferenza internazionale sui Balcani dovrà essere capace di valorizzare soprattutto le risorse democratiche, cooperative e moderne interne all’area, se vorrà costruire qualche prospettiva di duratura uscita dalla spirale della guerra.
7. Occorre uno specifico impegno per rilanciare nelle nuove situazioni internazionali gli imperativi per la pace della costituzione italiana
Come è già avvenuto nel 1991, le forme della cosiddetta “neo-guerra” sembrano uscire dai confini del rigido divieto dell’art. 11: non si tratta di una soluzione delle controversie internazionali in chiave di affermazione unilaterale dei propri interessi, ma chiaramente nemmeno più solo di autodifesa. Non si può però aggirare la contraddizione semplicemente moderando il lessico e parlando di “operazioni di polizia internazionale” o usando altri analoghi eufemismi. Occorre prendere sul serio il tema dell’uso della forza a servizio del diritto, in un mondo sempre più interdipendente e globale, prevedendone però chiaramente e rigidamente i limiti e le modalità. Occorre quindi un nuovo grande dibattito dai caratteri propriamente “costituenti” anche all’interno del nostro paese, per adeguare alla nuova realtà mondiale, confermandone l’intenzione profonda, il fondamentale intento pacifico della Carta costituzionale del 1948.
8. Gli aspetti economici della guerra non possono essere dimenticati, come invece la retorica umanitaria ha indotto a fare. Il circolo di svariati interessi economici occidentali, che si è creato nel tempo attraverso i Balcani, ha avuto qualche peso – difficilmente misurabile quanto abbastanza certo – sulle decisioni e sulle linee diplomatiche dei diversi governi coinvolti. E’ difficile poi non considerare gli effetti sulla crisi di un’economia locale in cui le componenti criminali sono notorie e purtroppo spesso determinanti. Anche la valutazione complessiva del nuovo “sistema economico europeo”, avviato con l’unione monetaria, è stata una variabile ben presente ai governi europei e a quello statunitense. Non è poi banale ricordare quanto l’industria militare stessa dipenda dal fatto che le armi sofisticate siano almeno occasionalmente usate. Ora, anche la ricostruzione materiale di tutte le zone interessate sarà un campo di sperimentazione per molteplici operatori stranieri, anche se l’instabilità politico-militare è di per sé una condizione inadatta a investimenti a lungo termine. Tutto ciò non significa accusare ingenuamente oscuri interessi di aver generato la crisi, ma considerare come queste situazioni esplosive non siano mai asettiche in ordine all’attività dei soggetti economici forti.
9. Abbiamo avuto la conferma che il ruolo delle religioni rischia di non essere naturalmente fautore di pace, nonostante la buona volontà di molti protagonisti. La storia ha portato in molti casi il cristianesimo balcanico, nella forma occidentale cattolica come in quella orientale ortodossa, a essere utilizzato da quella vera e propria idolatria che è il nazionalismo. Analogo discorso vale spesso – in modi senz’altro diversi – per l’Islam. D’altronde, si tratta quasi sempre di religioni secolarizzate, che diventano rapidamente forma ideologica delle contrapposizioni etnico-nazionali. Il cammino per la costruzione di un ruolo veramente pacificatore della religione passa ovunque per la riscoperta dei nuclei più profondi delle diverse fedi in Dio. Senza appiattire le loro originalità e rispettando i percorsi diversi di ogni confessione, in quelle profondità si possono recuperare le risorse di un autentico senso dell’umanità. Nel caso del cristianesimo, sale anche da questa crisi la richiesta di attingere una fedeltà evangelica che è sempre minacciata e sempre da ricostruire.
Queste ci sembrano alcune tra le maggiori lezioni di questa guerra. Esse aprono tutte altrettanti capitoli di un ripensamento culturale profondo delle ragioni della pace alla fine del millennio. Far tacere le armi è solo il primo passo: armare la ragione e attivare la politica è l’unico modo per cominciare finalmente a camminare sulle strade della pace.
28 giugno 1999

