La lunga stagione di Ruini

Il card. Camillo Ruini è presidente della Conferenza episcopale italiana da quasi quindici anni, ed è vicino al compimento del suo settantacinquesimo anno, quindi anche alla conclusione del suo mandato episcopale attivo. Essendo stato e continuando ad essere una figura eminente per leadership e capacità di guida, è stata anche una figura spesso controversa e poco compresa, sia nella Chiesa che all’esterno. Non è semplice infatti, soprattutto per un osservatore esterno, leggere le tendenze e le dinamiche ecclesiali: c’è uno schermo legato a forme di comunicazione che sono spesso tanto abili e dirette quando parlano della società, quanto codificate e in qualche modo paludate quando parlano di sé stessa. In questo senso i lunghi e a volte ripetitivi documenti ufficiali non sono gli specchi migliori in cui vedere riflessa un’autocoscienza e una prospettiva strategica. Proprio per questo uno scorcio inedito è costituito da una serie di interventi convergenti che negli ultimi mesi il card. Camillo Ruini ha scelto di tenere in pubblico, con un taglio di riflessioni insistenti e convergenti, tale da far scorgere qualcosa delle convinzioni profonde che muovono anche le scelte più contingenti e occasionali della Cei. Quasi appunto a sintesi di una intera stagione ecclesiale.


Il «risveglio identitario» delle civiltà europee

C’è un punto di forza cruciale in questi interventi, ed è l’auspicio che si realizzi, nel cuore della modernità occidentale, una società stabile e solida in quanto animata da una struttura antropologica e culturale che configuri una vera «civiltà». L’attuale mondo occidentale è in crisi esattamente su questo punto: da una parte è sfidato dal risveglio di altre civiltà; dall’altro manca al suo interno un principio solido di identità, in quanto la «razionalità scientifico-tecnica» che ha portato alla indubbia e positiva unificazione del mondo, «non appare in grado, proprio per le sue caratteristiche intrinseche, di dar luogo a una vera e compiuta forma di civiltà» e anzi rischia di creare una condizione in cui «l’uomo stesso si trova radicalmente messo in questione». E’ su tale sfondo che appare «un risveglio religioso identitario», cioè «assistiamo alla ripresa del ruolo storico delle grandi tradizioni religiose e culturali» . Non a caso, il cardinale cita spesso i due eventi più evocativi di questa duplice condizione: il 1989 con la dissoluzione dell’alternativa comunista e l’11 settembre del 2001, evidenza di un nuovo terreno di sfida tra civiltà (sfida che peraltro non è mai presentata secondo canoni anti-islamici o nello stile dello «scontro di civiltà», ma con attenzione a tutte le realtà religiose che pongono il problema di un confronto con i valori cristiani). Ecco allora che si presenta una opportunità notevole per il futuro del cristianesimo: «La fede cristiana stessa, fin dalle sue origini, si rivolge certamente anzitutto al cuore e alla coscienza dell’uomo, ma ha anche una ineliminabile dimensione pubblica», per cui può «alimentare, in un’ottica non confessionale, ossia pienamente rispettosa della libertà religiosa e della distinzione tra Chiesa e Stato, una visione della vita e alcuni fondamentali valori etici che forniscano la base dell’identità delle nostre nazioni: si ha così, tendenzialmente, il superamento della fase storica del laicismo e del secolarismo» . La società ha bisogno insomma di un’unità di fondo, di un principio unificatore, che la fede cristiana può garantire meglio di altri: si potrebbe dire che qui siamo su una linea molto tradizionale nel pensiero cattolico degli ultimi due secoli.
Si badi però che tale linea di lettura è più sottile rispetto alla negazione cattolica intransigente del mondo moderno, con il rimpianto per la condizione storica della cristianità, in cui ci fosse una coincidenza stretta tra religione e società. Non si intende tornare indietro rispetto alla «simpatia e all’apprezzamento» espresso dalla costituzione conciliare «Gaudium et spes» per il mutamento del mondo contemporaneo, non senza però precisare che non si trattava di un «giudizio unilaterale e acritico». Alla base stava infatti un approccio positivo rispetto all’«antropocentrismo» contemporaneo, che il cardinale ritiene non vada negato, ma precisato alla luce dell’«esplicitazione e approfondimento» di Giovanni Paolo II, il quale ha portato a riflettere su come «antropocentrismo e teocentrismo non possono affatto considerarsi alternativi, ma vanno al contrario realizzati congiuntamente nella storia della Chiesa e dell’umanità» . Nel cuore di ogni civiltà, intesa appunto in senso forte, esiste infatti, secondo il cardinale, un nesso articolato tra libertà e verità. Il riferimento alla fondazione conciliare della libertà religiosa è esplicito e forte: «Il Vaticano II precisa […] che soggetto dei diritti non sono le idee o i valori, ma soltanto le persone, fisiche o morali (dunque sia i singoli sia le comunità), e ciò in base al concetto stesso di diritto. La libertà religiosa così concepita si accorda dunque con l’affermazione della verità del cristianesimo». E la libertà è da considerare principio insuperabile delle nostre società. Ma, d’altro canto, «la soluzione che il Concilio ha proposto riguardo alla libertà religiosa non può essere trasferita automaticamente alla libertà in materia etica, per il motivo che la società stessa e l’organizzazione sociale non possono prescindere dalla concezione dell’uomo, e quindi alla fine dalla verità antropologica ed etica, che ha con esse un rapporto più immediato di quello della verità religiosa (salvo il fatto che la verità religiosa stessa è decisiva fonte di ispirazione dell’antropologia e dell’etica). Perciò la Chiesa insiste sul legame intrinseco tra libertà e verità, nelle questioni di etica non solo personale ma anche pubblica» . Si potrebbe sostenere quindi che, in quest’ottica, qualsiasi società, anche se pluralistica sul terreno religioso, dovrebbe raggiungere una solida capacità di convergenza su un terreno morale e antropologico, pena la sua dissoluzione e decadenza. Non sono approfondite con questa evocazione le forme precise in cui si dovrebbe costruire tale consenso nella libertà, all’interno delle dinamiche laiche della convivenza democratica, ma si tratta della posizione di un problema radicale.
 Sotto questo profilo, Ruini è giunto a tracciare una distinzione tra modello europeo e modello americano, nel quadro dell’Occidente alla ricerca della sua identità. Il modello americano sarebbe considerato più positivo, perché  più vivace nella consapevolezza identitaria, sulla base di una religione civile. «Negli Stati Uniti la situazione è diversa: alla loro origine vi sono infatti le “Chiese libere”, con una rigida separazione istituzionale rispetto allo Stato, ma con una notevole vitalità religiosa capace di esercitare un forte influsso pubblico. È questa la cosiddetta “religione civile” americana, di carattere non confessionale, anche se con una chiara impronta cristiana-protestante: con l’incremento della percentuale della popolazione cattolica, in questa “religione civile” stanno crescendo però il contributo e l’influenza cattolica. Un tale modello sembra meglio in grado di garantire, nell’attuale società libera e democratica, i fondamenti morali della convivenza e in ultima analisi una comune visione del mondo, cosicché la promozione della democrazia (in concreto della libertà e della socialità) appaia un imperativo morale in sintonia con la fede religiosa» . In realtà questo passaggio non è organicamente sviluppato. Non si vede tra l’altro come potrebbe essere salvaguardato in un orizzonte di rigida aconfessionalità dello Stato (a norma di primo emendamento della Costituzione americana) il modello di intesa concordataria, sui cui così tanto ci si appoggia in Italia. Al di là di queste possibili contraddizioni, il punto è ancora una volta la capacità della fede religiosa di costruire una identità civile, nel quadro della libertà della persona.
A scanso di equivoci, il cardinale insiste anche che questa identità è più forte se la fede religiosa è «autenticamente vissuta oggi, e non semplicemente in virtù dell’eredità culturale del nostro passato cristiano che, se non alimentata dalla fede vissuta, tende fatalmente ad affievolirsi». E inoltre, precisa che « il contributo della fede alla nostra cultura e società non può non andare in senso autenticamente cristiano: non conduce dunque ad una rivendicazione chiusa e conflittuale della propria identità, ma piuttosto alla ricerca della pace, della riconciliazione e della solidarietà anche con popoli, culture e religioni diversi» . Ambedue corollari non indifferenti del suo discorso, che ridurrebbero la possibilità di utilizzare in chiave secolare l’eredità cristiana quale mero principio di una identità battagliera, cinicamente e strumentalmente assunto da forze intellettuali e politiche che si rendono conto delle difficoltà di un tempo di crisi e guardano alla forza integrativa del cristianesimo in questa direzione . Al contempo, queste due precisazioni tendono però di nuovo a spostare il discorso dal piano della cultura a quello della fede, secondo i ritmi di una oscillazione non infrequente.


La Chiesa cattolica nel paese, fra tradizione e impegno missionario

Su questo sfondo, si comprende anche meglio il progetto sul ruolo della Chiesa cattolica nel nostro paese. Essa deve saper rappresentare e sviluppare questo principio di unificazione sociale e popolare. Ruini appare consapevole delle difficoltà, ma relativamente ottimista su questo compito. Il cristianesimo in Italia a suo parere non è stato affatto confinato a una realtà di minoranza (seppur egli ammetta che una minoranza è rappresentata dai credenti convinti e impegnati), ma mantiene un ruolo popolare e sociale forte: «oggi infatti, almeno in Italia, l’eredità cristiana rimane un dato di fondo della cultura, che in qualche modo continua ad essere significativo per tutti» . Si tratterebbe di un dato popolare e capillare ancora vivo, nonostante tutti i processi di laicizzazione e secolarizzazione, che non avrebbero intaccato più di tanto l’apertura o il consenso verso la religione: spie di questa situazione sarebbero alcune vicende come la scelta ancora alta per l’ora di religione (dopo la riforma che l’ha resa opzionale), oppure i risultati della raccolta del sostegno finanziario alla chiesa tramite l’8 per mille dell’Irpef, oppure l’immagine mediatica positiva della Chiesa e della sua opera caritativa . Poi c’è anche l’arresto della parabola discendente della pratica religiosa in termini quantitativi . Insomma, si può leggere nelle parole del presidente della Cei la convinzione che questa condizione della religione in Italia permetta alla Chiesa istituzionale di rimanere una forza sociale consistente e centrale nella società. 
Certo, non basta affidarsi solo alla spontaneità della tradizione, ma occorre compiere uno sforzo di «missionarietà» impegnativo. Il tema della missione configura la nuova parola d’ordine degli ultimi documenti ecclesiali, che ha preso il posto della «evangelizzazione» degli anni ’70 e della «comunione» degli anni ’80 e della «testimonianza della carità» del decennio successivo . Missionarietà non è però solo uno sforzo di comunicazione personale ed intima della fede, ma torna ad essere una questione dotata di un forte risvolto sociale. La situazione è infatti problematica, sotto questo profilo. Ruini ha precocemente parlato di «sproporzione tra il radicamento sociale e la vitalità di iniziative che il cattolicesimo ha in questo paese e le sue capacità di influsso culturale, prima che politico» , con una ricorrente preoccupazione per la «scarsa incisività» dei cattolici nella dinamica civile. Sostiene quindi il presidente della Cei: «il problema della trasmissione della fede non è risolvibile soltanto all’interno della comunità cristiana, senza porsi il problema del divenire della società e della sua cultura – in particolare della cosiddetta “cultura pubblica” – e delle nostre capacità di orientare questo divenire, nelle sue manifestazioni ma anzitutto nei suoi presupposti e fattori dinamici» . Più specificamente, si tratta di raggiungere il mondo della grande comunicazione di massa, «agorà» decisiva della moderna società: « per essere in grado di orientare, almeno in certa misura, tutto il divenire socio-culturale, è molto importante oggi la presenza nel mondo della comunicazione e della “rappresentazione”: su questo versante abbiamo impegnato molte energie, ma la strada da percorrere è ancora assai lunga. In concreto la sfida si gioca sul tentativo di far emergere quegli interrogativi radicali circa il senso della vita, della nascita e della morte, della famiglia, del lavoro, dell’educazione, che la condizione umana propone a tutti e che spesso rimangono occultati nel dibattito pubblico» . E quindi «la voce della Chiesa dovrà essere sempre più percepibile, a mano a mano che vengono in questione i fondamentali della nostra cultura, dell’antropologia e dell’etica […] Bisogna abituarsi a una Chiesa, italiana e non, che parla a voce alta perché la situazione lo impone» . Che ci sia stata una dedicazione di molte energie  lo dimostra l’attenzione per i media cattolici (su cui c’è stato anche un notevole investimento finanziario) e lo dimostra il lancio, a partire dal 1995, di un «Progetto culturale cristianamente ispirato» della Cei. Si tratta di una sorta di modello organizzativo teso a far convergere sistematicamente una serie di riflessioni e momenti di approfondimento e ricerca, con l’ambizioso obiettivo di «evangelizzare la cultura e inculturare la fede».
La cultura non è intesa prevalentemente come terreno di ricerca e di dialogo, quanto soprattutto come orizzonte in cui dispiegare «un grande sforzo di pensiero e di creatività» , per arrivare ad allargare l’influsso di una sintesi culturale ritenuta certa e in qualche modo presupposta. La cultura cattolica infatti esiste, non è nemmeno utile discutere questa affermazione o andare a verificare il suo stato di salute. Il problema fondamentale è organizzare le conseguenze culturali della fede cristiana, per sviluppare ancora una volta una capacità di influenza sociale. E’ chiaro come la moderna «agorà» sia concepita come uno spazio di confronto se non di lotta aperta tra le identità, con una certa tendenza all’identificazione di un soggetto unitario nel «laicismo», insofferente della cultura e della realtà del cattolicesimo. E questo approccio pone un altro problema rispetto all’intenzione affermata di costruire consenso nella libertà, nonostante il compiacimento per la presenza di alcune voci «laiche» simpatetiche con questi richiami. E’ anche vero che Ruini si è dimostrato più prudente di molti altri apologeti e «guerrieri» della risorta identità cattolica nel denunziare l’attacco alla Chiesa e la presunta persecuzione del nome cattolico, che chiama in causa l’Europa, le istituzioni internazionali, la grande stampa (dalla polemica sulle «radici cristiane dell’Europa» in giù) . Ma, al di là dei toni, la sostanza del confronto pare rimanere forte.


Una Chiesa rafforzata nei suoi pilastri istituzionali

Tutto ciò ha rilevanti conseguenze e implicazioni sullo sguardo del cardinale alla Chiesa nelle sue dinamiche e espressioni interne. Ancora un volta non manca nei suoi interventi il riferimento all’equilibrio che sarebbe stato tipico del Vaticano II, nella sua visione ecclesiologica, e in particolare un «nuovo e migliore equilibrio tra primato e collegialità» tra «i compiti di magistero e di governo della gerarchia e la dignità e la libertà di tutti i figli di Dio», con una critica netta alla «forte istanza antiistituzionale e anche antidogmatica» che sarebbe emersa nel post-concilio . Qui sta un punto decisivo: si tratta di riaffermare la solidità istituzionale della Chiesa, intesa in senso tradizionale e con qualche indubbia punta verticistica. Un nuovo «senso comunitario» viene citato positivamente dal cardinale come frutto della nuova coscienza missionaria, come  «un processo di avvicinamento reciproco, di maggiore disponibilità alla collaborazione», che porta a convergere le parrocchie e le diocesi, il clero e i laici, i nuovi movimenti ecclesiali e le istituzioni più tradizionali. Una «pastorale integrata» , insomma, collegata a una stagione in cui le istituzioni centrali della Chiesa italiana sono tornate a rappresentare un punto di riferimento decisivio e a tirare le fila della capillare presenza del cattolicesimo nel paese. Questo insieme di orientamenti sembra mostrare una diminuzione dell’enfasi post-conciliare sulle chiese locali (Ruini non ne parla nella riflessione sul quarantesimo anniversario del Concilio), che hanno poca visibilità e scarsa influenza sulle decisioni (anche perché le fonti di finanziamento sono state sempre più accentrate a seguito del Concordato, come il cardinale stesso riconosce)  .
Dalla stessa impostazione, deriva invece l’apertura verso i nuovi movimenti ecclesiali, accettati e valorizzati, a patto peraltro del loro inserimento nella strategia istituzionale e quindi con un netto taglio delle punte polemiche e delle tendenze verso una chiesa alternativa o delle pretese di una sostanziale egemonia culturale, che in alcuni movimenti come Comunione e liberazione sotterraneamente correvano (si ricordi il convegno dei movimenti ecclesiali del 1981) . Si tratta di un grande compromesso, degno di altri tempi, tra movimento e istituzione, con uno scambio dispiegato tra riconoscimento e fedeltà, avvenuto in quest’ultimo decennio. Non a caso ci sono state nomine episcopali e cardinalizie di esponenti importanti di movimenti, che segnano questo intreccio reciproco ormai stretto: valorizzazione e controllo. Ulteriore aspetto del quadro è lo scarso investimento sull’autonomia del laicato credente, organizzato o meno. Anche del laicato non si parla nel ricordo che Ruini ci ha offerto del Concilio, che pure dedicò a tale parte del popolo di Dio un’attenzione non secondaria (seppur teologicamente controversa). L’importante è insomma sempre la mediazione istituzionale ecclesiastica: non a caso molti dei (non tutti i) riferimenti di vertice dei movimenti sono ecclesiastici. Come anche ecclesiastici sono tutti i personaggi accreditati come volto del cristianesimo italiano nella comunicazione pubblica. In questo orizzonte, l’Azione cattolica stessa si trova valorizzata nel suo decantato «rinnovamento», ma anche ridimensionata a una forma aggregativa tra le tante, venendo richiamata a non esprimere autonomia sul terreno culturale e politico . La ricostruita e ostentata unità pubblica tra i movimenti cattolici, superando le divisioni del passato (come se fosse solo un problema di «buona volontà» e non ci si fosse divisi negli anni ’80 su questioni serie, legate alla forma teologica della lettura del rapporto tra Chiesa e storia) appare come un’altra manifestazione decisiva della forza visibile e organizzata della Chiesa nella società. Al Meeting di Rimini l’estate scorsa il segretario della Cei ha officiato la pubblica riconciliazione Ac-Cl e ha chiamato l’intesa un «segnale nuovo e consolante» . Ecco quindi l’approvazione a tutte le iniziative di convergenza sociale delle aggregazioni cattoliche, che sono state lanciate (con alterna fortuna, in quanto alcune erano troppo politicizzate) negli ultimi anni: l’ultima di queste è l’associazione Retinopera. Anche se impegno ancor maggior è stato dedicato a tutte quelle forme di coordinamento, come i «Forum tematici» (sulla scuola, la famiglia, le organizzazioni di volontariato sociale…), che esprimono in termini istituzionali, dipendendo dalla Conferenza episcopale, la concorde azione delle organizzazioni del sociale cattolico: sono quindi ritenuti i modelli più plausibili per rendere visibile una presenza forte dell’istituzione nelle dinamiche pubbliche del paese.

La marginalità della politica

La politica si ha l’impressione che abbia un certo ruolo a servizio di questo modello, ma sostanzialmente marginale. Non c’è un’enfasi politicista, anzi, si avverte una sorta di sottile sfiducia nelle potenzialità della politica, salvo casi circoscritti. Qualche anno fa, il cardinale affermava: «L’esperienza di cinquant’anni mi ha insegnato a stare attento a una tentazione: il moralismo che usa temi etici come strumenti di lotta politica. Dico cinquant’anni perché già Alcide De Gasperi veniva osteggiato così. E sommessamente inviterei a una maggiore prudenza, perché se carichiamo le singole scelte della dialettica politica di una valenza etica, allora finisce che la lotta politica stessa peggiora, diventa disprezzo, odio verso le persone» . Queste osservazioni suonano anche come una risposta previa a sollecitazioni precise sul «silenzio» dei vescovi rispetto alla qualità della vita democratica del paese, di fronte ai problemi suscitati dall’azione spregiudicata del governo Berlusconi : non si deve alzare la critica per non rischiare di cadere nel vortice della battaglia partigiana. Del resto, anche rispetto a quello che si chiamava, nel gergo ecclesiastico degli anni ’70, l’impegno di «promozione umana», il cardinale è abbastanza freddo: «E’ certamente indispensabile l’impegno più sincero e concreto perché l’attuale situazione storica vada il più possibile nel senso della pace e della solidarietà, specialmente nei confronti di quelle nazioni che rimangono in condizioni di miseria estrema. Ma questo approccio, dominante negli anni dal Concilio ad oggi, non è più sufficiente», se non viene caratterizzato con una forte riaffermazione della «nostra identità spirituale e culturale» . Infine, rispetto alla condizione della dialettica democratica in Italia, la contrapposizione di progetti forti ed esclusivi – che è spesso tipica del confronto bipolare – appare molto negativa agli occhi del cardinale, che ha ripetutamente identificato una «eccessiva tensione», una impropria «conflittualità e delegittimazione reciproca» come tratti più negativi del confronto politico . Certamente, traspare quindi una simpatia per le posizioni più moderate dello scenario politico, ma soprattutto un certo distacco relativizzante dalla politica. La prudenza nel caricarla di un orizzonte morale sfocia quasi nel derubricare la politica a mera tecnica amministrativa e legislativa. Completa il quadro una forte  reticenza a concedere deleghe e approvazioni palesi, per non «tenere libere le mani» senza confondere il piano strategico con quello contingente .
Quello che pare chiaro è anche ancora una volta, anche sul piano politico, la mediazione è una prerogativa privilegiata del vertice ecclesiastico, che rappresentando l’unità e le esigenze della presenza sociale della Chiesa, può tranquillamente trattare con le istituzioni e le forze politiche, sia quando siano in gioco interessi ecclesiastici, sia quando si tratti di questa o quella conseguenza del discorso antropologico-culturale condotto dalla Chiesa. Del resto, il cardinale sembra credere che non si possa molto confidare nemmeno nei credenti impegnati in politica. Fin quando teneva la mediazione unitaria democristiana, il suo giudizio su questa esperienza era molto positivo. Anzi, l’investimento sull’unità politica dei cattolici era tornato ad essere condotto con toni molto forti, dopo il convegno ecclesiale di Loreto del 1985 (in cui il discorso di Giovanni Paolo II l’aveva elevato in qualche modo a criterio decisivo di lettura storica di lungo periodo) . L’unità era motivata con un immediato appello ai «grandi valori umani e cristiani, che sono propri e caratteristici della dottrina sociale della Chiesa». La formulazione classica e più volte ripetuta di questa «tavola di valori» che chiedevano una tutela e un impegno unitari suonava così: «Il primato e la centralità della persona umana, il carattere sacro e inviolabile della vita umana in ogni istanze della sua esistenza, la figura e il contributo della donna nello sviluppo sociale, il ruolo e la stabilità della famiglia fondata sul matrimonio, il pluralismo sociale e la libertà di educazione, l’attenzione privilegiata alle fasce più deboli della popolazione, la libertà e la giustizia sociale a livello mondiale» .  Ma dal 1995 c’è stata una brusca svolta, motivata di fatto dalla scissione definitiva dell’ultimo baluardo post-democristiano, il Ppi di Buttiglione: senza grandi ripensamenti teorici, lo schema è cambiato profondamente. Il discorso del Papa al convegno ecclesiale di Palermo del 1995 ha anche in questo caso aperto autorevolmente la strada. Si ricordi il passaggio centrale: «La chiesa non deve e non intende coinvolgersi con alcuna scelta di schieramento politico o di partito, come del resto non esprime preferenze per l’una o l’altra soluzione istituzionale o costituzionale» .
Su questa linea si sono gestiti i successivi interventi più direttamente politici della Cei, con l’avvertenza però che la fine dell’unità politica non dovesse rappresentare una diaspora dei cattolici, quanto la riscoperta di una previa unità «sui valori», esattamente nella formulazione canonica sopra ricordata (con qualche aggiunta via via legata al mutare dell’agenda globale: costruzione dell’unità europea con alla base i valori cristiani, pace nella sicurezza, salvaguardia dell’ambiente) , senza «operare indebite selezioni tra tali contenuti» , ma rispettando una certa opinabilità delle loro ricadute storiche. Naturalmente su questi punti è via via emersa una prassi che implicitamente ritiene alcuni argomenti suscettibili di traduzioni operative e legislative molto chiare e precise, in qualche modo cogenti per la coscienza credente, mentre altri sono affidati a una più complessa operazione di mediazione istituzionale e politica. Se aggiungiamo il fatto che la stessa prospettiva della laicità dell’azione politica è ritenuta «del tutto inadeguata nella nuova congiuntura storica» , comprendiamo come questa azione di paziente mediazione civile sia ritenuta molto lontana dal nocciolo del problema sopra delineato, e cioè la ricostituzione del fondamento unitario di una civiltà. Il che ha portato alla recente risottolineatura della centralità dei temi bioetici, come quelli più espressivi di una identità cattolica, e al contempo più decisivi per il confronto antropologico in atto. Così si comprende anche l’enfasi e l’impegno diretto nel recente confronto referendario sulla fecondazione assistita, dove si è assistito a un investimento fortissimo, quasi da scelta identitaria, sulla difesa di una legge che era apparsa comunque una legge di mediazione rispetto ai severi contenuti della prevalente etica cattolica in materia.
 Questo discorso non approda quindi tanto a mettere in luce una criteriologia per vivere comunitariamente in modo maturo il pluralismo tra cattolici. Anzi, il «discernimento comunitario» di cui si era parlato ampiamente al convegno di Palermo finisce soffocato dalla preoccupazione «di riprodurre all’interno della Chiesa le divisioni e le contrapposizioni politiche, a volte in forma particolarmente ingenua e ideologizzata, proprio perché in sedi non partitiche sono meno facili quelle flessibilità e mediazioni che fanno parte dell’arte politica» . In sostanza, sulle diverse opzioni è meglio evitare di confrontarsi, mentre i richiami sui punti di convergenza decisi dai vertici sono molto forti e autorevoli. Il pluralismo politico rischia di essere lacerante sulla ritrovata convergenza ordinata attorno all’istituzione, per cui va esorcizzato al massimo.


Una svolta della Chiesa italiana?

In sintesi, si può parlare di una nuova stagione della progettualità della Chiesa italiana? Mi pare che i capisaldi fondamentali del discorso del card. Ruini – così come recentemente riaffermati e motivati – strutturino una visione forte, anche se non del tutto articolata nelle sue conseguenze operative. Letti però in parallelo alle scelte qualificanti dell’ultimo quindicennio, appaiono abbastanza organici e chiari nella loro logica, fino a costruire un insieme coerente. Una prospettiva che non si è contrapposta in modo frontale al recente passato, ma che ha molti evidenti punti di discontinuità con l’ispirazione essenziale del percorso post-conciliare della cosiddetta «scelta religiosa» della Chiesa italiana. Sia che questo fosse inteso nella originaria versione del «progetto montiniano», di prudente recezione della novità conciliare, sia nella più dispiegata linea dei progetti pastorali «Evangelizzazione e sacramenti», ispirati da mons. Bartoletti e dal binomio inscindibile Chiesa locale – centralità della parola di Dio . Per analogia con quella definizione sintetica, potremmo azzardare per la prospettiva ruiniana l’etichetta di «scelta istituzionale-sociale», centrata sull’ambizione della Chiesa istituzione, grazie alla sua presenza sociale e alla sua creatività cuturale, di riplasmare una identità credibile nella civiltà italiana (e occidentale in generale). Al di là delle visioni polemiche, spesso presenti nel tessuto ecclesiale al di sotto dell’unanimità di facciata, identificare qualche traccia di continuità e discontinuità mi pare una operazione utile, sia nella costruzione di una più matura «opinione pubblica» nella Chiesa, sia per una comprensione più adeguata della novità ecclesiale ad extra.

«Il Mulino», 54 (2005), 5, pp. 834-843