Da Dossetti a Prodi
Sono passati dieci anni da quando don Giuseppe Dossetti scese in campo nella primavera del 1994 con la lettera al sindaco di Bologna Vitali perché si formassero comitati a difesa della Costituzione, già allora minacciata. In un anno (gli ultimi discorsi sono del maggio ’95) Dossetti ci diede una grande e indimenticabile lezione di politica costituzionale: una lezione che purtroppo, in alcune fasi della XIII legislatura, abbiamo obliata o quantomeno non praticata.
Le due linee di fondo del suo insegnamento, profondamente diverse da quelle che aveva adottato nei decenni precedenti, riguardavano il senso della Costituzione del ’47: non più un programma di governo per una o due legislature (le riforme di struttura) ma un patto di convivenza aperto a garantire a tutti, senza distinzione di provenienza, i diritti fondamentali e ad assicurare l’osservanza di doveri non derogabili; perciò, seconda direttiva, l’accento non poteva cadere solo sul rafforzamento del potere esecutivo, perché governo, parlamento, capo dello stato, corte costituzionale e ordine giudiziario, dovevano comporsi in un equilibrio (giusta diffusione del potere) che, insieme al pluralismo degli enti territoriali, promuovesse un autentico sviluppo di democrazia sostanziale. Insomma, Dossetti non dimenticava la necessità dell’efficienza (era di nuovo contro il bicameralismo paritario e contro il secessionismo leghista), ma aveva fatto i conti con il costituzionalismo moderno e non aveva paura di apparire conservatore di quei principi supremi che, sottolineava, non si trovano soltanto nella prima parte della Costituzione.
Era nobilmente arretrato o invece sono rimasti indietro, al Duverger degli anni sessanta, coloro che non hanno messo alla prova del costituzionalismo la sovranità popolare? Così Dossetti polemizzò nel ’94-‘95 contro gli “avventati presidenzialismi” che si rifacevano al semipresidenzialismo francese, da importare in Italia senza troppe preoccupazioni come proponevano troppi costituzionalisti e politologi illustri. Oggi qualcuno, anche nella opposizione, pensa ancora al modello del “sindaco d’Italia” e mostra una fuorviante disponibilità ad accettare il premierato del progetto governativo di riforma costituzionale, niente affatto mitigato, a mio avviso, nemmeno dagli emendamenti Calderoli. Il premierato assoluto era e assoluto rimane, ispirato da quell’umore populista (come ha detto Amato nell’intervista a Zavoli) “pronto a tradurre il potere sovrano degli elettori in una delega del medesimo al primo ministro eletto”.
Semmai è consolante che negli emendamenti e sub emendamenti dell’Ulivo, presentati nei giorni scorsi alla camera dai capigruppo nella commissione Affari costituzionali, si siano superati concordemente i due automatismi su cui si regge il premierato onnipotente: il simul-simul (inaccettabile per il parlamento nazionale, o per la camera dei deputati, non ricattabili con lo scioglimento in caso di dissenso dal governo su leggi relative ai diritti, al sistema radiotelevisivo, alle leggi elettorali e ad altre questioni fondamentali); e, secondo pilastro, la “sfiducia costruttiva sfigurata”, perché in caso di sfiducia vi sarebbe lo scioglimento a mano che una mozione con l’indicazione del nuovo premier non fosse votata dalla maggioranza iniziale, comunque autosufficiente. Gli emendamenti firmati dai capigruppo dell’Ulivo, invece, si ispirano all’autentico costituzionalismo: se la mozione di sfiducia costruttiva è presentata da un quarto dei componenti della camera ed è poi approvata, il presidente della repubblica non emana il decreto di scioglimento qualora verifichi che la nomina del primo ministro e il voto della camera sono coerenti con il risultato delle elezioni della camera dei deputati e con il programma di legislatura. Lasciare il testo governativo significherebbe scrivere in Costituzione il principio che un premier può sopravvivere anche col solo consenso di una piccola parte minoritaria della sua maggioranza. Una eresia di questo genere non l’avrebbero scritta né Georges Vedel né Maurice Duverger! Insomma, Tony Blair se non ha più dalla sua la maggioranza del gruppo parlamentare laburista si deve dimettere e la regina gli nega lo scioglimento dei Comuni anche se il premier sconfitto glielo chiedesse. Perché non si può vivere di rendita sull’electoral day per una legislatura: questo non è il modello Westminster ma una sua contraffazione ad usum delphini. Semmai sarà necessario che il leader di ciascuna delle due coalizioni, in regime di bipolarismo non bipartitico, possa mantenere la fiducia non di quattro o cinque capipartito, ma dell’assemblea di tutti i parlamentari eletti con la coalizione o più precisamente, della maggioranza della maggioranza.
Questi emendamenti hanno fatto cadere l’assurda e incostituzionale discriminazione tra deputati di serie a e quelli di serie b; e hanno riaperto spazio al potere bilanciante del presidente della repubblica.
Il triplice no di Prodi allo strazio della Costituzione conferma questo ritorno al sano costituzionalismo insegnato da Dossetti: il quale, ricordiamo anche questo, aveva scoperto con dieci anni di anticipo la necessità che in un serio federalismo lo stato federale potesse legiferare in proprio per la salvaguardia dell’unità giuridica ed economica della repubblica (Art. 72 della legge fondamentale tedesca).
