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Contro il declino del paese: le risorse di una comunità solidale (10 marzo 2004)


1. Un problema ormai evidente

Il caso Parmalat è solo l'ultima enorme conferma in ordine di tempo che qualcosa di profondo si è rotto nel "modello italiano". Il dibattito sul declino del paese si allarga a macchia d'olio in tutti gli ambienti intellettuali e arriva anche sui media. Il Censis ha parlato di un paese con le "pile scariche"; i sindacati hanno promosso un inedito sciopero contro il declino industriale; la relazione annuale della Banca d'Italia ha puntato il dito su tale problema; i sociologi parlano di una società demograficamente invecchiata, conservatrice, obesa, impaurita; l'Ocse sforna classifiche impietose; addirittura la Corte dei conti insiste sul punto, mentre Beppe Grillo sbeffeggia da par suo chi si è cullato per anni nelle parole d'ordine superficiali dell'innovazione e del made in Italy. Al di là dei singoli dati, c'è quindi una convergente sensazione, che occorre cogliere precisamente e valutare attentamente, per evitare di incorrere negli opposti errori del pessimismo fatalistico o dell'acritico ottimismo.


2. Invecchiati e stanchi

Un primo aspetto del problema è quello demografico. L'Italia naviga attualmente ai livelli minimi rispetto ai tassi di fecondità dei paesi sviluppati, che hanno completato la transizione demografica (cioè il processo che ha visto prima la riduzione della mortalità e l'aumento della popolazione, e poi il parallelo calo della natalità per trovare un nuovo equilibrio). Crescono quindi nel nostro paese gli anziani e diminuiscono i bambini e i giovani. Se non ci fosse il saldo positivo dell'immigrazione, la popolazione italiana sarebbe in declino numerico da anni. Al di là di ogni mitologia vitalista, basta poco per accorgersi che alla lunga non è una situazione sostenibile per l'equilibrio vitale di un popolo. Ci si può chiedere il motivo di questo particolare forma di primato rovesciato. Forse conta la reazione a una memoria diffusa del passato, abituata a pensare l'Italia come un paese colpito da forte sovrappopolazione? Forse la memoria dolente dell'emigrazione che ha segnato le generazioni pesa ancora nei recessi dell'animo italiano? Il punto essenziale, comunque, pare essere che oggi la scelta della procreazione troppo spesso appare motivo di ansietà e preoccupazione, se non di impoverimento reale della famiglia. La denatalità è sinonimo di sfiducia nel futuro. Si tratta di un segnale preoccupante e radicale, che non si risolve con ridotti incentivi finanziari per le donne che mettono al mondo un terzo figlio.


3. Dipendenti dall'estero e troppo diseguali

C'è poi l'aspetto economico. Anche sotto questo profilo, i dati non sono difficili da elencare. Ricordiamo anzitutto l'uscita sostanziale dell'economia produttiva italiana da moltissimi settori strategici e innovativi dell'industria (informatica, chimica, microelettronica, farmaceutica, aeronautica, ormai forse anche  l'automobile). La struttura produttiva del paese soffre di un sottodimensionamento storico delle imprese, con larghissima prevalenza delle piccole e medie sulle grandi. L'importanza dei cosiddetti "distretti industriali" e la vitalità della Terza Italia, sviluppatasi al di fuori dello storico triangolo industriale, hanno fatto parlare di una forza del paese nascosta proprio in questi elementi e fatta di flessibilità, adattabilità, inventiva, mobilità. Ma alla lunga, come si sta verificando, l'assenza o la debolezza delle macro-strutture imprenditoriali (e bancarie) impedisce quell'accumulazione di risorse nel tempo che da sola costituisce la base per investimenti sostanziali in ricerca e in innovazione di prodotto (e non solo di processo, per risparmiare sui costi).  A valle di questa dinamica c'è stata una insensata concentrazione su settori effimeri e di per sé sottoposti alla concorrenza dei paesi emergenti, da cui ci distingue solo l'esile diaframma del buon gusto, del design, della moda. Non a caso la Cina comincia a far paura a chi non ha risorse qualitative da opporre alla prorompente vitalità di quel sistema. Ancora troppo flebile appare poi la valorizzazione dei veri dati di solidità accumulati nei secoli dall'Italia delle cento città (pensiamo al turismo d'arte, oppure all'enogastronomia di qualità, che appena ha alzato la testa sta per essere soffocata anch'essa da una ventata speculativa gigantesca). A rendere esile la struttura produttiva italiana c'è poi l'altro fenomeno che può essere definito con lo slogan "aziende povere e padroni ricchi", cioè un sottodimensionamento sostanziale dei capitali reinvestiti nelle aziende. Che fine hanno fatto i profitti enormi del sistema delle imprese nell'ultimo decennio, testimoniati da tutte le indagini Mediobanca? Qualche dubbio esiste sul loro tasso di reinvestimento. Anzi, da molti indicatori (come nel caso Parmalat), constatiamo che la moda di perseguire facili guadagni attraverso le ingegnerie del mondo finanziario si sia affermata estesamente, a scapito del duro percorso della costruzione della solidità dell'impresa come soggetto sociale abbarbicato a una ragione produttiva. Del resto, non ci è stato ripetutamente detto che il modello manageriale vincente era la massimizzazione dell'utile di breve periodo per creare profitti borsistici? Aggiungiamo il fatto che da molti indicatori sembra che l'Italia stia vivendo in un modo molto accentuato un fenomeno comune a tutto l'Occidente: la crescita delle disuguaglianze, dopo decenni di contenimento o addirittura di riduzione. La polarizzazione dei redditi tra i pochi privilegiati e la massa dei ceti medi in via di impoverimento non favorisce certo la stabilità sociale, ma nemmeno la crescita regolare dei consumi su cui si basa lo sviluppo produttivo. Risultato di tutto ciò: la struttura economica italiana è molto dipendente dalle esportazioni (e in questo condividiamo una tendenza tutta europea), ma perde costantemente quota sul mercato mondiale. Negli ultimi dieci anni siamo scesi dal 5 al 3,6% nella quota delle esportazioni mondiali.


4. Un patrimonio civile arretrato e residuale

Il contesto civile soffre di analoghe difficoltà. Si possono anche a questo proposito citare questioni specifiche. Appare sconsolante il panorama della lotta per la legalità a dieci anni da "Mani pulite". L'ondata della reazione nei confronti delle inchieste e della magistratura prosegue sicura e non si è colto il momento giusto per operare una revisione radicale delle regole e delle procedure che avevano permesso la corruzione ambientale endemica. Anzi, si sono approvate negli ultimi anni leggi che contribuiscono al degrado della coscienza di legalità (depenalizzazione del falso in bilancio, condoni dei reati valutari e fiscali, fino all'attuale scandalo di quello edilizio). L'arte dell'arrangiarsi si è incarnata in una nuova stagione di economia sommersa e di tolleranza della concezione proprietaria del sistema pubblico. La giustizia fa notizia solo per la volontà politica di ridimensionarne l'autonomia, non per un impegno a risolverne i cronici problemi di lentezze e ritardi, non certo degni di una paese civile. E' ovvio che in questo quadro si collochi la mancata soluzione del problema fiscale con un patto più equo tra Stato e cittadino: anzi, si ripresentano incentivi all'evasione e all'insensibilità fiscale. Il risanamento finanziario dello Stato è quindi sempre a rischio (sia per lo stock di debito pregresso che soprattutto per l'allegra politica finanziaria degli ultimi anni, coperta a malapena dalla cosmesi sui conti operata dal ministro Tremonti). La mafia appare nascosta, infrattata nei suoi saldi riferimenti sociali ma tutt'altro che sconfitta.  Continua l'erosione del sistema dell'istruzione (che era uno dei punti di forza del paese anche in chiave comparativa), divenuto oggetto di una battaglia propagandistica a colpi di interventi cosmetici che ad ogni cambio di maggioranza devono mostrare ideologicamente qualche baluginio di novità, senza affrontare i veri nodi aperti. La scarsa quota di ricchezza privata destinata alla ricerca non è compensata dagli stanziamenti pubblici che restano del tutto irrisori, anzi si riducono. Manca l'attenzione (per non parlare degli investimenti) sui gangli decisivi di un sistema di infrastrutture moderno e capillare (pensiamo alla distribuzione dell'acqua, ai controlli sulla rete elettrica, al sistema stradale in alcune zone ecc.), e queste carenze sono compensate solo da una politica di annunci e di mega-opere isolate, la cui utilità è tutta da verificare.


5. Responsabilità ramificate e debolezze della classe dirigente

Le responsabilità di questa situazione sono varie e complesse. E' parte del problema stesso lo spettacolo cui assistiamo sbigottiti: un palleggiamento continuo delle colpe tra i governi e le coalizioni, in maniera del tutto superficiale, in cui ciascuno si esercita nello sport di manovrare le statistiche a proprio uso e consumo. L'alternanza ha portato con sé questo sottoprodotto sgradevole, per cui si può sempre affermare che non si è in grado di governare per le colpe del governo precedente, o sollecitare sdegnati dall'opposizione quello che non si è stati capaci di fare quando si era al governo. D'altronde, invece, molte responsabilità affondano nel lungo giro di anni, se non di decenni: si pensi alle ambiguità o alle assenze di una vera e propria politica industriale dei governi della repubblica, oppure alle conseguenze di lungo periodo della stagione di finanza allegra degli anni '80. Peraltro, è anche vero che c'è un peso specifico non indifferente dell'ultima fase di governo. Non a caso, la credibilità internazionale del paese è oggetto di continui contraccolpi al ribasso: basta dare un'occhiata alla grande stampa estera – non sospetta di schieramenti politici preconcetti – per  accorgersene. Ci sono quindi responsabilità specifiche dell'attuale governo e del suo capo (che del resto rappresenta al meglio un certo falso ottimismo, tipico dell'Italia dell'apparire rispetto a quella dell'essere). Ma il problema non è nemmeno solo politico: è molto più serio e più grave dei comportamenti ondeggianti di una maggioranza di governo. Occorre chiamare in causa l'imprenditoria, la burocrazia, l'intellettualità, il mondo delle professioni e dei servizi. Si tratta di una classe dirigente che nel suo insieme mostra di privilegiare ancora il proprio "particolare" e ha scarsissimo senso della comunità civile. Con queste premesse, anche i ceti medi e quelli dipendenti, divisi nelle mille corporazioni che gestiscono piccoli o grandi spazi di potere,  trovano alibi alle loro meschinità di gruppo. Si pensi alla diffusione tra i giovani dell'opulento Settentrione del rifiuto dell'istruzione superiore, in nome della rapidità di accesso al guadagno e alla spesa. Come convincerli che si tratta di scelte miopi e perdenti, se non hanno esempi migliori in cui specchiarsi?


6. Per uscire dalla spirale: retorica patriottica o comunità solidale?

Non è difficile individuare i veri valori e le risorse diffuse nel paese, che potrebbero mettere sulla strada di un riscatto. Non ci pare abbia senso insistere volontaristicamente sulla necessaria competitività del paese o su confronti velatamente nazionalistici. In questo senso, una retorica del "consumare italiano" o delle preferenze industriali, fino quasi al ritorno al protezionismo commerciale contro i prodotti orientali, appare problematica, sterile e di corta visione. L'appello alla patria funziona solo con la nazionale di calcio. Men che mai si può confidare in una visione ristretta del problema economico, concentrato sul versante dei costi da ridurre, di fronte all'icona della flessibilità che un certo neoliberismo spande a piene mani. Il problema vero appare invece la qualità della vita di una società e la credibilità della sua élite sociale. Solo questo intreccio tra una nuova classe dirigente e una nuova coscienza diffusa di "comunità" ci salverà dal declino. Il senso vissuto di una comunità concreta comporta l'uscita da una insensata contrapposizione tra pubblico e privato, tra Stato e società oppure tra Stato e mercato: per certi versi occorrono contemporaneamente più società e più mercato nei settori dove ancora manca concorrenza e ci sono monopoli più o meno velati, e più Stato in termini di investimenti pubblici, di regolazione forte, di controlli efficaci sulla dinamica sociale.  Naturalmente, questo implica che solo se, con un impegno evidente e tangibile dei vertici politici e burocratici, si riuscirà a creare un apparato pubblico efficiente e solidale, sarà possibile far appello alle risorse di creatività, onestà, laboriosità, diffuse nel paese, per avviare un percorso di crescita che non sia predatorio e privatistico. E se la classe dirigente tutta intera assumerà con evidenza le proprie responsabilità, senza rincorrere soltanto prebende e ricompense e mostrando qualche volta di essere la prima nei sacrifici, sarà più facile incentivare la resistenza e la dedizione nell'impegno comune di uomini e donne normali, per creare una società più vivibile.


7. Un nuovo approccio ai problemi

La conseguenza di questo nuovo sguardo può essere rivoluzionaria in molti settori. Ad esempio, non si uscirà dalle difficoltà senza la coscienza che un equilibrio sostenibile (non ragionieristicamente inteso) dal punto di vista ambientale, sociale, economico, è un obiettivo desiderabile anche in chiave di crescita e benessere. Ricreare legami sociali, coltivare e promuovere risorse sociali diffuse, individuare e sviluppare i beni collettivi che devono restare fuori dal mercato, lavorare alla costruzione di una società di e con attori responsabili (compresa l'impresa, che dovrebbe avere una chiara responsabilità sociale nei propri obiettivi…), sono tutte dimensioni decisive per il rilancio di uno sviluppo non effimero. Sulla questione demografica, se ciascuno non guarderà solo al proprio interesse immediato, si potrà ragionare di servizi, di organizzazione dei tempi e dei modi del lavoro e della vita, di condizioni sociali della maternità-paternità. Reti sociali più solide aiuterebbero a guardare al futuro con maggiore ottimismo. Inoltre, la coscienza di una comunità reale da vivere basterebbe da sola a cambiare la considerazione problema immigrazione (ad esempio, nel caso americano la maggior vitalità demografica rispetto all'Europa è in gran parte dovuta a maggiori flussi immigratori). Forse un positivo meticciato ci salverà dalla scomparsa? Ancora, riportare al centro del dibattito il problema della "giustizia sociale" dovrebbe condurci a correggere i meccanismi che generano disegualianze insostenibili, in modo da ricostituire le premesse di una crescita stabile con una diffusione del benessere, che riporti quindi anche fiducia e stabilità. C'è anche una ripartenza possibile del pensiero che si basa sull'approccio comunitario, a dare nuovo senso al ruolo degli intellettuali, che non si adagino nella conservazione dei piccoli privilegi di casta. Parallelamente, solo una società più stabile ed equilibrata potrà arricchirsi con il frutto del proprio crescente ruolo internazionale: la capacità di cooperare a risolvere i problemi posti dall'ambiente esterno dipende in buona parte dagli elementi di certezza e valore che si riescono a creare nel paese, e aiuta al tempo stesso in un circolo virtuoso la stessa crescita interna.

10 marzo 2004