La sfida politica dell’immigrazione (24 giugno 2000)

La recente campagna elettorale per le regionali ha visto esplodere la «bomba immigrati» nel cuore delle contrapposizioni politiche italiane. Ci hanno pensato dapprima le tragedie: i cinque morti del rogo della fabbrica dismessa a Legnano, il romeno ucciso dal suo datore di lavoro nel Varesotto, lo stillicidio quotidiano di sbarchi sulle coste pugliesi, le fughe delle giovani schiave del sesso, le imprese di bande criminali straniere, le risse nei centri d’accoglienza… La questione immigrati è stata posta all’ordine del giorno della cronaca dalla sua pesantezza reale, in tutti i suoi risvolti duri e ansiogeni. Su queste incertezze, si è innestata la politica. E l’impatto è stato rivelatore, finalmente evocativo di una funzione catartica della realtà. I fatti hanno costretto la politica a rivelare il suo vero volto, provocando divisioni accese come raramente si vedono ormai su altri problemi, nel panorama un po’ spento del dibattito politico quotidiano.


1. La politica si è divisa nettamente sulla questione dell’immigrazione.

La destra di governo (locale) – vedi il caso di Milano e provincia – si è distinta in questi mesi per chiudere centri di prima accoglienza: non solo quelli ormai degradati e inaccettabili, ma anche quelli appena avviati grazie alla cooperazione con il volontariato. Salvo poi balbettare di fronte alle tragedie e addebitarle soltanto al lassismo della politica immigratoria del governo. Poi la destra di opposizione (nazionale) ha giocato il suo asso: la proposta di legge di iniziativa popolare Bossi-Berlusconi, che rafforza di molto la logica del referendum abrogativo già proposto dalla Lega contro la legge Turco. La logica è fortemente poliziesca, unilateralmente diretta a soddisfare l’ansia di sicurezza di molta parte del dilatato ceto medio italiano. Ventilando l’uso della forza militare contro la tratta delle persone, pene severe per gli scafisti, carcere per chi ritenti l’immigrazione clandestina dopo l’espulsione, le proposte danno l’idea di una logica esclusivamente contenitiva del problema. Da notare che la relazione allegata alla proposta teorizza esplicitamente una necessità di difesa della purezza dell’identità nazionale, intesa anche in senso culturale-cattolico. Sembra di udire l’eco di un vecchio guelfismo che ammicca al cattolicesimo più tradizionalista. Prospettive che appaiono ben poco «liberali», quelle dei nostrani abitanti della cosiddetta «casa delle libertà». L’unica libertà non contemplata, anzi, rigorosamente bandita, nell’orgia degli istinti capitalistici e nel gran sabba degli «spiriti di intrapresa» evocati dal popolo delle partite Iva è quella di spostamento degli esseri umani, di emigrare alla ricerca delle fonti di sostentamento e di emancipazione dalla miseria e dal degrado.

A confronto dell’approccio sopra descritto, emerge certamente come più sensata e realistica l’intenzione della pur problematica e ondeggiante legislazione e amministrazione dei governi di centro-sinistra. Il vero problema di questa politica appare però la capacità di costruire  prospettive reali sul «secondo passo» della politica dell’immigrazione, ponendo le premesse della cittadinanza piena degli stranieri che man mano vengono integrati nel nostro paese. Tali linee politiche sono però da valutare sullo sfondo di uno sguardo più completo al problema.


2. L’inquietudine e le paure sono comprensibili, ma vanno gestite.
 

Le tragedie e le novità suscitano reazioni incerte e un misto di rabbia, sgomento, angoscia. In  molti di noi generano inquietudine e paura, come di fronte alle grandi questioni della storia, che non sono facilmente dominabili attraverso i nostri rassicuranti schemi mentali. E’ un fenomeno assolutamente comprensibile, sia per una certa emergenza del problema della sicurezza, che per più complesse dimensioni culturali dell’ incontro con il diverso.
Il problema della criminalità attribuibile alla responsabilità degli immigrati è molto serio, ma ha almeno due facce: quello delle grandi organizzazioni mafiose con intrecci internazionali e legami politici evidenti, e quello delle microcriminalità di sbandati (che a volte diventano massa di manovra delle prime oscure forze). Occorre separare i due aspetti, perché il secondo si combatte solo prosciugando l’acqua in cui la criminalità nuota e cioè impostando una strategia globale per costruire nuova cittadinanza delle persone ultime arrivate. Il primo aspetto è invece molto più complesso – come sappiamo dopo anni di difficile lotta alla mafia italiana – ma certamente comporta strategie coerenti almeno a livello sovranazionale europeo e un attento controllo del mercato finanziario.

Ma oltre questo pesante livello del problema, esiste la dimensione più propriamente culturale, che non è trascurabile. Ogni movimento migratorio pone in gioco un incontro-scontro di culture e mentalità che non è mai semplice. Esiste un problema di rispetto delle diversità, ma anche la parallela esigenza di ogni società e gruppo umano di avere un plafond minimo di valori riconosciuti su cui costruire la propria convivenza. Ecco perché l’incontro con il diverso crea incertezza, soprattutto quando si avverte che quelle coordinate essenziali di valori sono messe in crisi. C’è quindi un’esigenza di apertura ed elasticità delle culture che accolgono immigrati, ma anche una dimensione dell’«integrabilità» da parte di chi arriva da straniero in una società diversa, e deve ineluttabilmente dar prova di saper accettare alcuni elementi del suo nuovo orizzonte  vitale. Non è una miscela facile, perché il risultato rischia a ogni momento di tracimare in intolleranze o chiusure.

Inquietudini e preoccupazioni vanno però attentamente controllate attraverso una responsabilità collettiva di chi genera l’opinione pubblica – a tutti i livelli – e di chi gestisce le istituzioni. Tutte le realtà che creano cultura sono chiamate in causa. Si pensi allo stesso ruolo cruciale della Chiesa, che a fronte di un indubbio primato di attenzione e impegno rispetto alle situazioni difficili di emarginazione, e nonostante i ripetuti pronunciamenti lungimiranti dei suoi vertici, non sempre appare in grado in tutta la sua struttura pastorale di contribuire efficacemente a smascherare il pregiudizio e a creare una cultura diffusa più equilibrata e seria. Tra gli stessi praticanti, non si è molto abituati a gestire e controllare le ansie tipiche del confronto con lo straniero. Ma il discorso deve estendersi in molte altre direzioni.

I mezzi di informazione, in generale, non hanno sempre svolto un ruolo responsabile, alimentando percezioni fuorvianti come quella sulle reali dimensioni quantitative del fenomeno. L’italiano medio è infatti portato a pensare alla presenza di una vera e propria invasione di popoli, quando invece le percentuali di immigrati nel nostro paese sono ancora ben lontane – anche nelle stime più larghe – da quelle degli altri paesi occidentali avanzati (2,5% della popolazione stimato, contro il 10% circa di Germania o Francia). L’unica attenuante per questo approccio è la relativa concentrazione territoriale in alcune zone del paese (grandi città, specifiche aree provinciali, addirittura singoli quartieri), che rende il fenomeno più evidente e dirompente. Spesso poi, in occasione della descrizione di casi di cronaca o delitti, giornali e televisione fanno a gara per proporre un’immagine ansiogena dell’immigrato.


3. Il peso ineluttabile delle dinamiche demografiche.

I problemi quindi esistono, ma un approccio politicamente avvertito alla questione non può che partire dal considerare la dinamica dell’immigrazione nei suoi termini reali, di fenomeno ancora circoscritto, ma che tutti gli studi previsionali indicano in espansione progressiva nel futuro prossimo. La dinamica demografica della denatalità e dell’invecchiamento nella popolazione dei paesi più sviluppati è evidente. L’Onu ha recentemente pubblicato un rapporto che stima un fabbisogno di 160 milioni di persone in Europa nei prossimi cinquanta anni. Tra i 9 e i 15 milioni nella sola Italia: altro che il milione o milione e mezzo di immigrati di cui oggi si parla. Parlare di «fabbisogno» vuol dire necessità di colmare i vuoti derivanti dalla carenza di nascite e dall’invecchiamento della popolazione, per mantenere l’equilibrio sociale ed economico. Certo si può discutere il modello, che dipende da molte altre variabili economiche non facilmente controllabili (variazioni del tasso di attività della popolazione, diminuzione o  aumento della produttività…). Ma non si può negare fondatezza a questo trend. E i livelli del divario di benessere tra il Sud e il Nord del mondo sono lì come macigni di fronte a noi: il miliardo scarso di privilegiati tra cui noi viviamo è contornato di cinque miliardi di persone alle prese con i problemi e i bisogni primari dell’esistenza. E’ quindi soltanto ovvio prevedere che il futuro vedrà un travaso di popolazioni dalle dimensioni colossali. I flussi migratori costituiscono in fondo per il «Terzo Mondo» una specie di rivincita sottile ed occulta – ancorché costosissima in termini umani e sociali – dopo che sono finiti i sogni dell’emancipazione e dello «sviluppo» promessi e intravisti tra gli anni ‘60 e ‘70 dopo la decolonizzazione.

In una prospettiva di realismo, oltre che nella fiducia sostanziale verso la libertà degli uomini e delle donne, si tratta quindi di un fenomeno da prevedere e da gestire. Non è assolutamente possibile negarlo o occultarlo. Nessuna cortina di ferro stesa a metà del Mediterraneo o dell’Adriatico riuscirà ad arrestarlo. Certo, è anche un fenomeno da accompagnare perché non sia traumatico, per far sì che non si risolva in nuova emarginazione e schiavitù dei nuovi arrivati e in traumi per gli italiani di antica generazione.


4. Una politica complessiva per favorire l’integrazione.

Prevedere e gestire il fenomeno, governandolo, vuol dire andare al di là della semplice politica delle «quote» e della regolamentazione degli accessi, superando il livello del controllo delle frontiere, per saper impostare programmi pubblici veri e propri, che contemplino investimenti finanziari e organizzativi in vista dell’inserimento sociale dei nuovi cittadini immigrati. Già solo in termini di sicurezza, il rapporto tra politiche integrative e prevenzione della devianza è ovvio: è paradossale che si contrappongano a queste politiche coloro che nello stesso tempo indicano la propensione a delinquere degli immigrati sbandati come un dramma sociale. Ma un approccio emergenziale non basta. Occorre soprattutto andare al di là dell’immediato, senza adottare l’ottica di una permanente tutela paternalistica o assistenziale. E’ piuttosto necessario impostare il problema di come costruire la cittadinanza di uomini e donne che diventeranno parte integrante della società e della repubblica italiana. Persone che arriveranno a sostenere con le loro braccia e la loro intelligenza i nostri stessi livelli di benessere. Al di là del «problema immigrazione», emergerà infatti presto la «risorsa immigrazione».

Ci pare allora che capitoli essenziali di questo investimento collettivo debbano essere  l’istruzione linguistica, la mediazione culturale, l’orientamento e l’inserimento lavorativo, la consulenza giuridica, la costruzione di strutture di accoglienza, l’impostazione di un programma per fornire abitazioni degne a prezzi equi per le famiglie che costituiscono il secondo livello di immigrazione. Percorsi interessanti in questa direzione esistono già: pensiamo soprattutto al notevole lavoro compiuto a livello di sistema scolastico, soprattutto nei livelli primari, per costruire le premesse dell’integrazione. Naturalmente questo è un orizzonte su cui pubblico e privato-sociale potranno agevolmente incontrarsi, ma che è ineludibile. Una particolare centralità assumeranno sempre più (anche dopo le previsioni della legge 40/1998) le attività degli enti locali, che dovranno misurarsi direttamente con le questioni dell’innovazione progettuale e con quelle del consenso delle diverse comunità.


5. La centralità della questione «lavoro».

Il lavoro rappresenta senza dubbio la questione più importante ai fini della piena integrazione sociale degli immigrati. Il nostro paese su questo versante vive una sorta di paradosso in quanto proprio nelle aree geografiche dove maggiormente in questi anni si è diffusa una certa ostilità verso lo straniero si concentra oggi la domanda di lavoratori immigrati. Infatti, nelle ricche zone del  Nord-Est e della fascia pedemontana della Lombardia, dove i tassi di disoccupazione sono tra i più bassi in Europa e il saldo demografico è negativo, il lavoro degli immigrati è diventato un fattore importante per l’equilibrio del sistema economico (ad esempio, al fine della sostenibilità delle pensioni pubbliche) e una panacea per alcuni settori produttivi come quello edile e metalmeccanico che grazie agli immigrati riescono a coprire una carenza di manodopera nelle qualifiche più basse, rifiutate dai giovani locali. Tutto ciò peraltro sfata il luogo comune sulla presunta competizione nel mercato del lavoro tra nuovi immigrati e giovani disoccupati italiani,

In un contesto sociale che tende a rivalutarli come risorsa (sia pure per motivi di mercato), non mancano tuttavia alcuni profili critici che rendono per ora la stragrande maggioranza di immigrati extracomunitari ancora cittadini di «serie B». Innanzitutto, l’esistenza di larghe fasce di lavoro nero o irregolare (anche in aree ad elevato benessere) in particolare nel settore dei servizi domestici, nell’agricoltura e nel commercio che rappresentano un approdo assai probabile per chi ha l’aspettativa di un reddito da sopravvivenza e una scarsa cultura dei diritti, compreso quello alla pensione. Tale lavoro è frutto di una specifica domanda: è funzionale al sistema economico italiano con le sue storture, non è certo un casuale prodotto della presenza degli immigrati. L’emersione di queste attività è auspicabile non solo per ragioni di giustizia sociale, ma anche perché un maggiore gettito fiscale e contributivo frutto di tali attività potrebbe generare risorse a favore di progetti di integrazione sociale e di politiche di Welfare più diffuse. Un ampio capitolo poi andrebbe dedicato alle organizzazioni criminali che guardano agli immigrati in particolare per lo sfruttamento della prostituzione e il reclutamento di manodopera per fini delinquenziali: un ambito nel quale l’opera di vigilanza e di repressione andrebbe orientata decisamente verso i datori di tale particolare «lavoro» che sono stranieri ma molto spesso anche italiani.

L’altro profilo relativo alla discriminazione degli immigrati riguarda la loro collocazione sul mercato del lavoro e la barriera posta al loro sviluppo professionale. In sostanza per un immigrato, come confermano le statistiche, è più difficile se non impossibile la mobilità professionale sia verso l’alto nel settore dove è già impiegato, sia verso alcuni settori ad elevata tecnologia e specializzazione, come quello dei servizi avanzati (ricerca, finanza, assicurazioni): ciò peraltro si registra anche nel caso di immigrati con alti livelli di istruzione, i quali rappresentano una parte tutt’altro che minoritaria tra coloro che decidono di lasciare il proprio paese per cercare fortuna altrove. Siamo di fronte a quel processo che gli esperti definiscono «etnicizzazione dei rapporti di lavoro»: si fa strada cioè l’idea che gli immigrati siano impiegabili solo in alcuni lavori, in specie nel lavoro operaio dequalificato e nei servizi a più basso contenuto professionale, per cui la divisione interna del lavoro avviene secondo criteri razziali.     


6. La dimensione religiosa dell’immigrazione.

La nuova immigrazione porta spesso in primo piano un problema relativamente nuovo per l’Italia che è la creazione di una nuova forte minoranza religiosa non cristiana, e segnatamente islamica (anche se i fedeli dell’islam sono meno della metà dei nuovi immigrati). Anche in questo caso, abbiamo visto e sentito reazioni scomposte, come quelle che gridano all’invasione e additano il proselitismo degli islamici che sposerebbero le donne «cristiane» come un progetto di conquista, oppure le rivendicazioni contrarie alla costruzione di luoghi di culto islamici con la dubbia motivazione della mancata «reciprocità» nei paesi musulmani.

Sotto questo profilo, occorre ricordare il percorso non facile di costruzione dei presupposti del pluralismo religioso e della tolleranza in uno Stato laico, che è stato tipico dell’Occidente e anche dell’Italia, nella sua lunga e tormentata storia. Si tratta di un valore da non rimettere assolutamente in discussione, nemmeno in forme surrettizie. Che l’intolleranza e il confessionalismo continuino in altri paesi, non è una buona ragione per reintrodurre a casa nostra pratiche discriminatorie. Casomai, il tessuto della tolleranza va messo alla prova nel concreto, rispetto alla possibilità di reale convivenza delle diverse famiglie religiose all’interno delle istituzioni di uno Stato laico. La via «pattizia» avviata con il nuovo Concordato del 1984 e recentemente estesa a numerose confessioni religiose anche non tradizionali, crea indubbiamente un utile terreno d’incontro tra Stato e religioni, ma solleva anche qualche domanda: non c’è, in fondo a questo percorso, un rischio di svuotamento progressivo dei valori costituzionali comuni, parcellizzando il diritto in tanti accordi specifici?

C’è poi l’enorme questione dell’incontro tra le religioni e del dialogo delle fedi: questione non politica, cui qui alludiamo soltanto per indicare l’importanza esistenziale che assumerà sempre più, non solo per i singoli credenti, ma anche per la strategia pastorale di una Chiesa ancora troppo abituata a un cristianesimo tradizionale, che finora ha dovuto fronteggiare solo la sfida dell’indifferenza e ora si troverà di fronte invece a una questione del tutto nuova.


7. La memoria e il progetto per una nuova cittadinanza.
 

Se coltivassero meglio la propria fragile memoria storica collettiva, gli italiani avrebbero almeno due grandi risorse da mettere in campo per aiutare la volontà e la fantasia a trovare soluzioni creative al problema.

La prima è la recente storia di emigrazione che hanno sperimentato generazioni di nostri connazionali in Europa e Oltreoceano, e che dovrebbe pur avere insegnato qualcosa sulle dinamiche irrefrenabili della ricerca umana di andare oltre il proprio status presente. Si tratta in fondo di esperienze di due o tre generazioni precedenti la nostra, che proprio nella loro drammaticità e difficoltà, ma anche nella loro storia di emancipazione e successo, dovrebbero essere state educative.

La seconda è l’ancor più recente vicenda delle migrazioni interne di massa degli anni Sessanta e Settanta: le persone che giungevano nelle metropoli del Nord Italia dalla montagna, dalla campagna e dal Meridione, non hanno incontrato analoghe difficoltà, incomprensioni culturali e spesso tragici ostacoli a sfondo propriamente razzista, rispetto agli attuali immigrati «extracomunitari» (come si usa dire con burocratico neologismo)? Eppure, con piccole e grandi tensioni, il problema non è stato sostanzialmente e lentamente superato, in una maggiore e più profonda integrazione del paese?

Allora, si tratta di adottare tutti la memoria di queste vicende, per ricordarci i loro esiti nonostante tutto positivi, ma soprattutto per evitare di ripetere gli errori e i veri e propri «peccati sociali» compiuti. Qualsiasi percorso di governo moderno, ancorato ai valori della giustizia e dell’uguaglianza dei diritti delle persone, si misura su queste dimensioni. Sulla capacità della classe politica di essere davvero «classe dirigente», che non rincorre semplicemente gli umori diffusi, ma costruisce lentamente consenso, convincendo soprattutto il proprio elettorato con progetti di nuova cittadinanza.

24 giugno 2000

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