La Costituzione
Le radici della Costituzione
La relazione che fa seguito è stata tenuta da Giuseppe Dossetti all’Abbazia di Monteveglio (Bologna) la sera del 16 settembre 1994, nell’ambito dell’iniziativa «Monteveglio Comune dei Diritti», indetta dall’Amministrazione Comunale assieme alla Parrocchia S. Maria Assunta di Monteveglio, a conclusione del primo incontro nazionale dei comitati per la difesa della Costituzione. L’incontro di quella sera comprendeva due interventi principali: di don Giuseppe Dossetti e dell’on. Nilde Iotti.
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La Costituzione italiana: il valore di un patrimonio
I
Mi si consenta una premessa che – in proporzione della durata complessiva del mio intervento – non sarà breve. Mi domando: donde è nata la Costituzione italiana entrata in vigore il 1° gennaio 1948? Qual è la sua radice più profonda?
Alcuni pensano che la Costituzione sia un fiore pungente nato quasi per caso da un arido terreno di sbandamenti postbellici e da risentimenti faziosi volti al passato. Altri pensano che essa nasca da un’ideologia antifascista di fatto coltivata da certe minoranze, che avevano vissuto soprattutto da esuli gli anni del fascismo. Altri ancora – come non pochi dei suoi attuali sostenitori – si richiamano alla Resistenza, con cui l’Italia può avere ritrovato il suo onore e in certo modo si è omologata a una certa cultura internazionale.
E così si potrebbe continuare a lungo nella rassegna delle opinioni o sbagliate o insufficienti. In realtà la Costituzione italiana è nata ed è stata ispirata – come e più di altre pochissime costituzioni – da un grande fatto globale, cioè i sei anni della Seconda guerra mondiale. Questo fatto emergente della storia del XX secolo va considerato, rispetto alla Costituzione, in tutte le sue componenti oggettive e al di là di ogni contrapposizione di soggetti, di parti, di schieramenti, come un evento enorme che nessun uomo che oggi vive o anche solo che nasca oggi può e potrà accantonare o ne potrà attenuarne le dimensioni, qualunque idea se ne faccia e con qualunque animo lo scruti.
Che cosa è stata la Seconda guerra mondiale? Scusate se richiamo dati elementarissimi, che sono o dovrebbero essere presenti a tutti. La Seconda guerra mondiale è stata, anzitutto, sul piano oggettivo e fisico – di fronte ai nove milioni di morti della «Grande guerra» (1914-1918) – ben più di cinquantacinque milioni di uccisi da azioni belliche; e ha segnato un coinvolgimento mai visto delle popolazioni civili, massacrate dai bombardamenti aerei (si pensi che il solo bombardamento di Dresda fece più di 100.000 vittime!), oppure deportate in massa, oppure esposte continuamente al rischio dei rastrellamenti e delle rappresaglie.
Inoltre, sempre sul piano oggettivo, la Seconda guerra mondiale ha portato a un mutamento mai verificatosi nella mappa del mondo: in Europa, in Asia, in Africa. Anzitutto, ha avviato il deciso declino delle tradizionali grandi potenze europee e anche dell’Europa nel suo complesso; e ha dato vita a due blocchi mondiali contrapposti guidati, con ideologie antitetiche e con schieramenti militarmente paurosi, dalle due nuove superpotenze. E parallelamente essa ha portato al rivelarsi della debolezza intrinseca e dell’insostenibilità morale dei grandi imperi coloniali e, perciò,ha dato l’impulso decisivo a una quasi totale decolonizzazione e alla conquista progressiva dell’autonomia di molti paesi nuovi in Africa e in Asia: e, per contro, al simultaneo affacciarsi di due vecchie entità in passato apparse dormienti e ora avviate a rivelarsi come protagonisti mondiali, cioè la Cina e l’India, con un totale di due miliardi di soggetti.
E ancora: sul piano delle idee la Seconda guerra mondiale è stata la sconfitta di tutta la cultura romantica e di molti dei suoi derivati e, per contro, l’affermazione, in larga parte dell’umanità, del «marxismo realizzato». Come pure è stata l’inizio e il progresso di costumi e di modi di vita, individuali e collettivi, radicalmente mutati, assai più di quanto non sia avvenuto in proporzione con la «Grande guerra»: costumi e modi di vita diffusamente permeanti ovunque, dalle metropoli ai villaggi, dall’America all’Africa e all’Asia, in conseguenza dei nuovi mezzi di comunicazione sociale, la televisione soprattutto.
E infine la Seconda guerra mondiale è stata l’eccezionale incremento di nuove tecnologie e quindi l’inizio di un balzo incommensurabile negli oggetti, nell’intensità e nelle forme della produzione industriale, con complesse, sempre più complesse, conseguenze nella trama e nell’ordito dell’economia e della finanza delle nazioni e in quella internazionale.
Ma, correlativamente, non sono mancate anche novità decisive che la Seconda guerra mondiale ha implicato o avviato sul piano delle grandi religioni: anzitutto, con un fatto ancora di incalcolabile importanza spalancando la strada al «sionismo realizzato» e al ritorno di milioni di ebrei alla terra dei padri e alla loro lingua e cultura; e, ancora, innestando nuovi fermenti critici e dinamici nel cristianesimo; e, infine, determinando, con certe premesse economiche (petrolio) e sociali e nuove ideologie, il risveglio dei popoli arabi e il conseguente rialzarsi mondiale dell’islam.
Infine, proprio sulla soglia del suo termine, la Seconda guerra mondiale ha lasciato in eredità al futuro due oggetti che hanno condizionato l’ultimo mezzo secolo e che ancora condizioneranno gli anni a venire: cioè il V 2, il missile lanciato sull’Inghilterra a partire dal settembre 1944, costruito dal giovanissimo ingegnere Wernher von Braun (che alla fine della guerra si consegnò agli americani e che concorse in modo decisivo alla costruzione dei missili intercontinentali e del missile Saturno che consentì lo sbarco sulla luna); e l’altro: la bomba atomica, esplosa per la prima volta a Hiroshima il 6 agosto 1945. La congiunzione di questi due oggetti ha tenuto il mondo sotto l’equilibrio del terrore.
Tutte queste cose, se pure in diverse proporzioni di sviluppo, sono comprese o almeno si sono iniziate tra il 1° settembre 1939 (invasione tedesca della Polonia) e il 2 settembre 1945, cioè quando – dopo i due roghi atomici di Hiroshima e di Nagasaki – il Giappone accettò la resa senza condizioni agli americani: e la guerra ebbe allora davvero termine.
In questo enorme evento globale sono incluse anche le conseguenze che esso ha provocato per l’Italia: più di 400.000 morti tra militari e civili; stragi e deportazioni senza limiti; incalcolabili distruzioni e rovine (nel 1945 la produzione industriale era ridotta al 30% di quella del 1938; la produzione cerealicola a 41 milioni di quintali di fronte agli 81 milioni del 1938; l’inflazione era salita spaventosamente (da 22 miliardi di lire circolanti nel 1938 a 319 miliardi nel ʼ45 che arrivarono nel ʼ49 a 869 miliardi); e, ancora e soprattutto, l’aggravarsi culturale ed etico-sociale, oltre che economico-politico, dello squilibrio tra il Sud (occupato dagli alleati) e il Nord (occupato per quasi due anni dai tedeschi); e, infine, la distruzione di ogni tessuto e istituzione civile e politica.
Ma queste, che furono le conseguenze per noi italiani, vanno incluse nell’evento «Seconda guerra mondiale»: e non dovevano essere, nel 1945, e non possono neppure oggi essere considerate a parte, ma vanno inquadrate e potenziate dalla considerazione dell’evento mondiale in cui sono inseparabilmente iscritte.
II
E di diritto e di fatto questo evento mondiale fu ben presente sin dagli inizi ai lavori precostituenti e costituenti. I lavori preparatori guidati dal Ministero della Costituente (ministro Nenni) non potevano non risentire di questa atmosfera globale: in particolare nella cosiddetta Commissione Forti sulla Riorganizzazione dello Stato, insediata il 21 novembre 1945, cioè a pochissimi mesi dalla fine della guerra e dal suo ultimo episodio, le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. I lavori della Commissione Forti non rimasero chiusi e sigillati nel Ministero della Costituente, ma ne fu dato regolarmente conto in un apposito bollettino di informazione, cosa che si augurerebbe ancora oggi per la cosiddetta Commissione Speroni.
Perciò il clima della Commissione Forti, almeno nelle sue idee essenziali, non poteva non trasmettersi all’Assemblea Costituente eletta a un semestre di distanza (il 2 giugno 1946) che, con il contemporaneo referendum istituzionale, metteva fine alla monarchia e dava inizio alla repubblica.
Anche il più sprovveduto o il più ideologizzato dei Costituenti non poteva non sentire alle sue spalle l’evento globale della guerra testé finita. Non poteva, anche che lo avesse cercato di proposito in ogni modo, dimenticare le decine di milioni di morti, i mutamenti radicali della mappa del mondo, la trasformazione quasi totale dei costumi di vita, il tramonto delle grandi culture europee, l’affermarsi del marxismo in varie regioni del mondo, i fermenti reali di novità in campo religioso, la necessità impellente della ricostruzione economica e sociale all’interno e tra le nazioni, l’urgere di una nuova solidarietà e l’aspirazione al bando della guerra.
Quindi l’acuirsi delle ideologie appena ritrovate e l’asprezza dei contrasti politici tra i partiti appena rinati, e lo stesso nuovo fervore orgoglioso determinato dalla coscienza resistenziale, non potevano non inquadrarsi, in certo modo, in più vasti orizzonti, al di là di quello puramente paesano, e non poteva non inserirsi anche in una nuova realtà storica globale a scala mondiale. Insomma, voglio dire che, nel 1946, certi eventi di proporzioni immani erano ancora troppo presenti alla coscienza esperienziale per non vincere, almeno in sensibile misura, sulle concezioni di parte e le esplicitazioni, anche quelle cruente, delle ideologie contrapposte, e per non spingere in qualche modo tutti a cercare, in fondo, al di là di ogni interesse e strategia particolare, un consenso comune, moderato ed equo.
Perciò, la Costituzione italiana del 1948 si può ben dire nata da questo crogiolo ardente e universale, più che dalle stesse vicende italiane del fascismo e del postfascismo: più che dal confronto-scontro di tre ideologie datate, essa porta l’impronta di uno spirito universale e in certo modo trans temporale. È qui il luogo di ricordare che questa base di largo consenso – nonostante i dibattiti assai vivaci lungo il corso di tutti i lavori e gli antagonismi che dividevano allora il paese – portò a una votazione finale del testo della Costituzione che raggiunse quasi il 90% dei componenti dell’Assemblea Costituente.
Non solo emblematicamente ma effettivamente, la triplice firma apposta alla sua promulgazione il 27 dicembre 1947 sta a significare in modo causativo la coscienza unitaria dalla quale nasce: la firma di Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato, erede della tradizione liberale; la firma di Umberto Terracini, Presidente dell’Assemblea Costituente e fondatore, con Gramsci e Togliatti, del Partito comunista italiano; e la firma di Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio e già primo successore di Sturzo alla segreteria del Partito popolare.
III
Le premesse fatte erano necessarie per ben comprendere e motivare il carattere, spettante alla nostra Costituzione, di legge prima e suprema di tutto l’ordinamento repubblicano, dal 1948 in poi. Questo carattere è a un tempo: – estrinseco, cioè relativo alle circostanze eccezionali che hanno maturato e fatto adottare la nostra Carta fondamentale, circostanze ben difficilmente riproducibili o equiparabili a qualunque altro evento-matrice della nostra storia; – e insieme intrinseco alle disposizioni che la compongono, particolarmente, ma non solo, quelle della prima parte, che concerne le garanzie dei diritti fondamentali di ogni cittadino.
Questo carattere di legge superiore è rafforzato dalla speciale disposizione (art. 138) che ne assicura (come si dice) la rigidità. Rigidità che non vuol dire immodificabilità assoluta, ma che è una modificabilità speciale, cioè ottenibile solo con un procedimento tutto particolare, rafforzato rispetto al procedimento richiesto per qualunque altra legge o deliberazione degli organi dello Stato.
Per essere ancora più concreti e più espliciti, si può convenire sull’opportunità, oggi, di certe modifiche nelle funzioni e nella struttura delle Camere, nel rafforzamento della figura del Presidente del Consiglio nei confronti dei partiti e dei singoli ministri, nell’ampliamento anche forte dei poteri delle regioni ecc. Ma è importantissimo essere ben chiari sul principio rigoroso che tali modifiche non possono avvenire altro che con la piena osservanza della procedura legittima prescritta dall’art. 138.
E questo tanto più va detto e ribadito perché la cultura superficiale e facilona che si è andata formando negli ultimi anni sta perdendo questa coscienza e tende pian piano ad ammettere, almeno implicitamente o surrettiziamente, uno snervamento di principio (cioè indipendentemente, ripeto, dalle possibili e opportune riforme attuabili con l’iter prescritto) snervamento che implicherebbe ulteriori gravi affievolimenti di tutto il nostro ordinamento giuridico e sociale: con le ovvie conseguenze di una labilità generale dei diritti e dei doveri personali e comunitari, e di uno sviamento aggravato della coscienza etica collettiva.
IV
E ora possiamo passare in rassegna alcuni princìpi fondanti della nostra Carta, che sono espressione del grande evento in cui essa si radica e che sono tuttora adeguati ai bisogni e ai caratteri della nostra società di oggi e a quelli che si intravedono per il futuro.
1. Primo principio: quello della unità e indivisibilità del popolo italiano, e per conseguenza della sua espressione statuale, cioè della Repubblica Italiana (art. 1 e 5). Nel momento costituente, non erano ignote spinte tendenzialmente secessionistiche: non solo di qualche minoranza etnica al confine settentrionale od orientale, ma anche di una grande regione dell’estremo Sud. L’indipendentismo siciliano aveva anzi una sua rappresentanza all’Assemblea costituente.
Perciò fu quella un’occasione per prendere coscienza approfondita delle cause storiche, remote e recenti, e delle motivazioni in atto, sul piano sociale e politico, di queste tendenze secessioniste. E fu anzi l’occasione di incominciare, per quel che vi poteva essere di giusto, a dare loro soddisfazione, provvedendo con gli statuti regionali speciali, che ne soddisfacevano le esigenze più vere, ma a un tempo ribadivano con ben meditata e pacata fermezza e con rinnovate motivazioni l’unità e indivisibilità di tutto il popolo italiano.
Di fatto il nostro popolo era uscito dalla Seconda guerra mondiale, dall’occupazione straniera, dalla prolungata divisione in due tronconi e dalla Resistenza, era uscito, dico, cementato – al di là di tutti i problemi e gli squilibri vecchi e nuovi – e più consapevole della sua fondamentale coesione nazionale, etnica, culturale e sociopolitica. A questa fondamentale unità, nelle intenzioni dei Costituenti e nel dettato della Costituzione, non si oppone – anzi si potrebbe dire che la convalida e la rende più piena e più ricca – il riconoscimento e ancor più il promovimento delle autonomie locali (art. 5 e 114 ss.). (Anche se poi occorre soggiungere subito che questa parte della Costituzione ha trovato di fatto lenta, faticosa e ancora incompleta attuazione da parte del nostro legislatore).
Ma insieme occorre riconfermare in questa sede quanto ha scritto Giorgio Napolitano su «la Repubblica» del 13 maggio 1994, e cioè che «il discorso del federalismo va collocato all’interno del principio dell’unità e indivisibilità della Repubblica: questo infatti è uno dei princìpi costituzionali che non solo non si debbono da parte delle sinistre, ma non si possono da nessuna parte mettere in gioco».
2. Il principio personalistico: garantito per tutti i cittadini. In ognuno la Costituzione riconosce il valore insopprimibile e inviolabile della persona umana, e quindi della pari dignità sociale ed eguaglianza davanti alla legge, senza nessuna distinzione di sesso, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di posizioni personali e sociali (art. 3).
Da questo principio supremo la Costituzione deriva, prima di tutto, il diritto al lavoro (e perciò appunto la Repubblica è detta fondata sul lavoro: art. 1) e tutti gli altri diritti civili: libertà personale, inviolabilità del domicilio, libertà e segretezza della corrispondenza, libertà di circolazione e di soggiorno, libertà di riunione, di associazione, di professione religiosa, di propaganda e di culto, di pensiero, di stampa (tit. I).
Al medesimo principio si riconnettono anche tutti i rapporti sociali e le relative libertà (tit. II: e in particolare il diritto alla famiglia e alla salute e alla scuola), e i rapporti economici (tit. III: e in particolare la libertà sindacale e la libertà di sciopero). Tale garanzia costituzionale dei diritti civili, sociali, economici, politici, è concepita dalla nostra legge fondamentale non come un riconoscimento statico, ma come una realtà dinamica, in via di sviluppo, cioè i diritti fondamentali devono essere assicurati dalla Repubblica: in modo negativo, rimuovendo gli ostacoli di ordine economico-sociale che possono ridurre di fatto la libertà e l’eguaglianza; in modo positivo, favorendo il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti ai vari livelli della vita del paese (art. 3 e 4).
Di più si deve aggiungere che per non pochi di queste libertà e diritti, secondo l’opinione oggi del tutto prevalente tra i costituzionalisti (meno una piccola minoranza) non si può dare rivedibilità costituzionale restrittiva, neppure nella forma prescritta dall’art. 138. Può essere messa in dubbio solo la delimitazione delle disposizioni sottratte alla rivedibilità costituzionale, ma la immodificabilità assoluta è stata riaffermata da varie sentenze della Corte. Prima di tutto affermando, a proposito dell’art. 7 (che introduce il riconoscimento dei Patti Lateranensi), che questi patti non potessero comunque violare le libertà fondamentali e i princìpi supremi della Costituzione. Poi, a proposito dell’art. 11, riaffermando lo stesso concetto a proposito dell’ordinamento comunitario europeo. Infine, nella sentenza n. 1146/1988, la Corte ha affermato che «la Costituzione italiana contiene alcuni princìpi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale, neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i princìpi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quali la forma repubblicana (art. 139), quanto i princìpi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione. […] Non si può pertanto negare che questa corte sia competente a giudicare sulla conformità delle leggi di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali, anche nei confronti dei princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale».
E un’altra sentenza, la n. 366/1991, ha affermato: «In base all’art. 2 della Costituzione, il diritto ad una comunicazione libera e segreta è inviolabile, nel senso generale che il suo contenuto essenziale non può essere oggetto di revisione costituzionale».
3. Terzo principio: è la consistenza costituzionale attribuita a corpi intermedi – fra la persona e lo Stato – territoriali e non territoriali: quali la famiglia, il comune, le province, la regione, le confessioni religiose, la scuola di vario ordine e grado, le università e le accademie, i sindacati, gli ordini professionali, i partiti, le libere associazioni di opinione, di assistenza, di volontariato ecc. Anzitutto, va fatta qualche osservazione a proposito dei corpi intermedi territoriali: i comuni, le province, le regioni (art. 5 e 114 ss.). Ho già accennato che in materia si deve constatare una grave carenza nella volontà politica, nei decenni passati, di attuare la Costituzione in tutte le sue virtualità, sicché giustamente, da varie parti, si profilano proposte per modificare la Costituzione, nel senso del riconoscimento di una più larga e approfondita autonomia soprattutto delle regioni: in particolare e con le proposte avanzate dalla Lega Nord e con le proposte della sinistra, oggi formulate nel solco della Commissione bicamerale della scorsa legislatura.
Nelle proposte della Lega soprattutto di pochissime macro-regioni, a parte la non dissimulabile tendenza secessionista, si deve rilevare l’irriducibile contraddittorietà costituzionale al principio dell’unità della Repubblica. Inoltre potrebbero portare – come già ha rilevato Stefano Rodotà – a una discriminazione dei diritti fondamentali dei cittadini, secondo l’area in cui si trovano a vivere: specie il diritto alla salute, il diritto al lavoro, il diritto all’istruzione.
Ma ancor più sono contraddittorie allo stesso principio da cui pretendono di muovere, cioè di esaltare le autonomie locali, perché porterebbero ad affievolire o ad alterare l’autonomia già raggiunta sinora da corpi intermedi (soprattutto le singole regioni già ben individuate, differenziate e funzionanti che verrebbero – comunque – da un lato incorporate, e dall’altro gravemente pregiudicate nelle loro attuali relazioni paritarie con altre regioni incluse in una diversa macro-regione).
Al progetto della bicamerale si può per lo meno obiettare che spingendo – come è detto nella relazione che l’accompagna – «il regionalismo ai limiti del federalismo», non pare che abbia tenuto conto di una norma che è nella Costituzione tedesca (che oggi molti citano, forse senza averla letta), cioè l’art. 72 che attribuisce allo Stato federale il compito di mantenere l’unità politica ed economica del paese e l’eguaglianza delle condizioni di vita dei cittadini «prescindendo dai confini territoriali di ogni singolo Land». Questa o altra analoga norma non è detta esplicitamente nel progetto della bicamerale per fornirne il senso profondo e la chiave di interpretazione generale.
Quanto invece ai corpi intermedi non territoriali, data la loro grande varietà di scopi, di funzioni, di maggiore o minore immediatezza con la sfera di sviluppo della persona, può essere difficile fare un discorso unitario generale: ma va almeno detto che alcuni di essi presentano una insurrogabilità nativa che si connette strettamente ad alcune delle prerogative più inviolabili della persona (esempio precipuo la famiglia: ma anche la scuola e anche le associazioni volontarie per certe forme particolarmente qualificate di assistenza), e perciò si ricollegano a un altro principio fondamentale della nostra figura di Stato, che appunto stiamo per illustrare.
4. Quarto principio: che potrebbe essere detto il principio non soltanto della separazione dei tre poteri secondo la dottrina classica dopo Montesquieu (legislativo, esecutivo, giudiziario), ma piuttosto il principio della diffusione del potere fra una pluralità di soggetti distinti, e dei reciproci contrappesi, e perciò di un più garantito equilibrio complessivo. Come recentemente ha confermato Sabino Cassese di fronte al pericolo di una dittatura elettiva (quale quella che potrebbe immaginarsi da certi sprovveduti membri della maggioranza) o per contro di un certo tipo di rafforzamento incontrollato dell’esecutivo, cioè del Governo, il potere nelle democrazie contemporanee, e così anche nella nostra Costituzione, tende a una razionalizzazione e a distribuirsi in una pluralità di soggetti veramente di estrazione diversa e tra loro indipendenti.
Si hanno così:
– poteri elettivi: il Parlamento, di una o due Camere, elette in modo diverso, cui compete la funzione legislativa vera e propria;
– ancora poteri elettivi concorrenti con i precedenti, ma in modo differenziato, per estrazione e per competenze, cioè le assemblee regionali, che si devono integrare con l’apporto delle province e dei comuni;
– poteri non elettivi, ma designati solo in base alla loro competenza tecnica, accertata con pubblico concorso, assunti e soggetti a un ordine autonomo da ogni altro potere, per la sola funzione giudiziaria, ed espressi e coordinati dal Consiglio Superiore della Magistratura (di estrazione mista);
– altri poteri, per aree sottratte, nel loro specifico più proprio, all’indirizzo del Governo, e costituzionalmente garantite nella loro indipendenza: per esempio la scuola (art. 33);
– infine la stessa gestione amministrativa (non nel suo indirizzo e nel suo controllo) che è compito proprio della burocrazia;
– da ultimo vi è il potere di garantire la Costituzione, affidato a un organo, la Corte Costituzionale, che si potrebbe dire un vero e proprio contropotere: che può perciò annullare persino decisioni del Parlamento (proveniente esso pure da un’investitura mista: il Capo dello Stato, la Magistratura e il Parlamento).
Orbene, tale razionalizzazione del potere, cioè questa distribuzione del potere fra soggetti adeguatamente distinti e contrappesati, è forse uno dei pregi più raffinati e delicati della Costituzione italiana, ne costituisce un risultato positivo e davvero meritevole della più gelosa salvaguardia, al di là di ogni riforma possibile. È anche un condensato perfettamente sintetico di tutta la nostra vicenda storica e dell’evoluzione istituzionale dell’ultimo secolo in Europa: potrà esigere qualche perfezionamento (al massimo una figura più stabile ed effettivamente coordinatrice del Primo Ministro) ma assolutamente non può essere giocata sull’onda di avventati presidenzialismi che precipiterebbero il nostro alto livello costituzionale in una regressiva catastrofe. Come pure non può essere messa in pericolo da qualunque riforma che intacchi la totale indipendenza e unità (comprese le Procure), dell’ordine giudiziario.
Fra l’altro, può tornare a proposito una smentita energica di un bugiardo e incomponibile abbinamento – oggi di moda nelle fantasie riformatrici di certe parti politiche e nei discorsi più superficiali dei media – cioè l’abbinamento del federalismo-presidenzialismo. Come se fosse avente un minimo di razionalità. Non si avverte che o si dà un federalismo reale e forte, e allora non può esservi neppure l’ombra di un presidenzialismo efficiente, ma solo una specie di vago direttorio collegiale delle cosiddette macro-regioni; o si dà presidenzialismo effettivo, e allora non si dà che una facciata di federalismo, destinata, o prima o poi, a mostrare la sua insostenibilità reale, cioè a sparire e ad essere inghiottita dal potere accentratore dell’unico Presidente eletto dal popolo.
V
Per finire, dobbiamo ancora ritornare all’articolo 138 della Costituzione circa il modo della sua revisione. Il 24 agosto scorso, il Governo ha presentato al Senato un progetto intitolato dapprima come «Norme transitorie in materia di revisione costituzionale».
Si propone cioè una modificazione dell’articolo 138. L’attuale articolo 138 prevede, per la definitiva approvazione delle leggi costituzionali, il referendum popolare solo quando esse non siano state approvate nella seconda votazione prescritta delle due Camere con la maggioranza di due terzi di ciascuna Camera e faccia invece domanda del referendum, entro tre mesi dalla pubblicazione della legge, un quinto dei membri di una Camera, oppure 500.000 elettori, oppure 5 Consigli Regionali. La norma transitoria, che dovrebbe essere adottata per le leggi costituzionali che saranno approvate nel corso della presente legislatura, prevede comunque il referendum popolare.
Che dire? Può sembrare una concessione all’eventuale opposizione e infine un rafforzamento della rigidità costituzionale: può sembrare studiato, come dice la relazione del Governo, perché i cittadini possano partecipare pienamente al processo di riforme del nostro sistema istituzionale, perché soprattutto le nuove regole, suggellate dal voto popolare, divengano e siano sentite da tutti come patrimonio comune, come conquista duratura entro cui proseguire proficuamente la nostra esperienza democratica.
Ma, anzitutto, si può obiettare la stranezza di una norma transitoria da valere solo per la presente legislatura: e per la prossima? Ci si vuole mettere forse al sicuro dalla previsione di un’alternanza nella maggioranza? Da qui il sospetto non irragionevole di una norma di comodo per l’attuale maggioranza.
In secondo luogo, la concessione di un solo mese di tempo dalla pubblicazione della legge all’indizione del referendum. Soprattutto nella previsione di una riforma organica di tutta o di grande parte della Costituzione, come si può pensare che in questo lasso così breve si possa prendere da tutti i cittadini una conoscenza adeguata del progetto, dare agli esperti la possibilità di discuterlo e sperare che le ragioni in contrario addotte dagli esperti possano rifluire con serenità e diffusamente sull’opinione pubblica? Questa è una obiezione assoluta al progetto: da fare valere in modo intransigente, richiamando i tre mesi previsti dall’art. 138. Altrimenti il sospetto ragionevole diventerebbe certezza che tutto è preordinato per una riforma precipitosa sulla quale si vuole carpire un consenso irriflesso della gente.
E poi nel merito: il referendum previsto dall’attuale articolo 138 è nell’intenzione dei Costituenti un referendum oppositivo, perciò non rimesso all’iniziativa del Governo ma di chi contesta la nuova legge costituzionale, mentre diventerebbe ora un referendum confermativo: e questo sposta tutte le previsioni sul controllo della Corte Costituzionale che deve garantire l’omogeneità e l’univocità del quesito sottoposto al popolo.
La Corte Costituzionale ha più volte ribadito l’inammissibilità del referendum abrogativo avente contenuto multiplo e disorganico, come è ovvio, per l’impossibilità degli elettori di esprimersi alternativamente con un sì o un no chiaro. Ma tutto questo è relativo all’oggetto dei referendum abrogativi, quali sinora sono stati sempre i referendum sottoposti al popolo.
Si avrebbe così l’assurdo di un requisito necessario per il meno, cioè per l’abrogazione di una legge, e non per il più, cioè per l’introduzione di una revisione costituzionale che potrebbe estendersi a una complessa pluralità di istituti. E che accadrebbe quando tra questi istituti ce ne fosse qualcuno (come il famoso tetto fiscale da non oltrepassare) che può allettare il consenso di molti e può fare passare sopra ad altre più impervie riforme?
Ma anche al di fuori di questa ipotesi limite, è ben chiaro che, proponendo all’elettore una pluralità di oggetti, si tenderebbe a fare spostare l’attenzione dell’elettore non tanto sui quesiti espliciti sottoposti, ma sul quesito implicito, cioè l’approvazione generale della politica del Governo.
Il costituzionalista di Firenze Paolo Barile ha proposto che il controllo sul quesito proposto al referendum confermativo, se proprio lo si volesse ritenere escluso dalla competenza esplicita della Corte Costituzionale, venga comunque esercitato dalla Corte di Cassazione in sede di Ufficio Elettorale Centrale; oppure, che si possa sperare che il Presidente della Repubblica rilevi di sua iniziativa, come garante della Costituzione, l’inammissibilità di un referendum su un quesito complesso e disomogeneo; o che, infine, la Corte Costituzionale possa essere investita di un conflitto istituzionale contro l’atto presidenziale di indizione del referendum.
Ma lo stesso Barile si dichiara consapevole che il vero rimedio, la soluzione lineare, sarebbe che il Parlamento varasse una modifica della legge del 1971 sul referendum, per introdurre il controllo della Corte Costituzionale anche per il referendum confermativo. Sarebbe questo il modo, retto e chiaro, di dare una prova concreta di buona fede da parte dell’attuale maggioranza.
Ma lo possiamo sperare?
Il potere costituente
Intervento conclusivo di Giuseppe Dossetti, al Convegno dei Costituzionalisti, organizzato a Milano il 21 gennaio 1995 dall’associazione «Città dell’uomo» (in G. Dossetti, La Costituzione. Le radici i valori le riforme, Edizioni Lavoro, Roma 1996).
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1. Gli amici che hanno insistito perché io venissi e concludessi questo convegno possono darmi atto della riluttanza, sia pure mista a vivo interesse, con la quale accetto oggi di parlare. La mia età, il mio stato monastico e i ripetuti rifiuti da me opposti in altre circostanze in qualche modo consimili mi fanno sentire un pesce fuori della sua acqua. E tuttavia mi sono forzato a venire ed anche a parlare.
Mi ha molto incoraggiato l’esempio di S. Saba, l’Archimandrita degli anacoreti del deserto di Giuda, che non solo trovò necessario ed opportuno sottoscrivere a suppliche rivolte per il bene pubblico all’imperatore Anastasio, ma che per ben due volte lasciò le profondità del deserto palestinese in cui viveva, per andare alla Corte di Bisanzio e parlare con l’Imperatore: la prima volta con lo stesso imperatore Anastasio e, poi, la seconda, con l’imperatore Giustiniano. Con Anastasio egli volle patrocinare la pace a favore delle Chiese di Dio della Palestina. Con Giustiniano trattò per implorare la sua clemenza dopo la rivolta dei Samaritani, perché fossero ricostruite le chiese e i luoghi distrutti, e fossero alleviate le imposte straordinarie gravanti sulla Santa Anastasis, cioè il Sepolcro del Signore. Particolare non insignificante, Saba rifiutò sempre, per sé e per il suo monastero, qualunque favore o donazione imperiale.
Orbene, mi pare che la situazione generale del nostro Paese renda necessario ed opportuno anche per me, naturalmente proporzione fatta, ispirarmi a simili grandi esempi.
I
2. Comincerò con una questione preliminare, che potrebbe sembrare anche solo nominale, ma che, a mio avviso, è di grande importanza per un sano orientamento nel complesso dei problemi che oggi si sono affrontati. Credo che per ora non si possa e non si debba, in nessun modo, parlare di Seconda Repubblica.
Direi piuttosto che questo termine, per ora, debba essere totalmente bandito: in quanto nato da una avventata superficialità giornalistica e supinamente ricevuto da una vasta parte dell’opinione pubblica, già profondamente disorientata e ulteriormente, proprio da questa locuzione, tratta in una serie inestricabile di inganni. Di Seconda Repubblica, sino ad ora, non c’è:
– né il fondamento storico, in nessun evento intervenuto nella globalità della compagine del nostro Paese: che, comunque, possa esser preso a punto di partenza di una effettiva interruzione della continuità storica;
– né il fondamento giuridico, in una volontà precettiva che abbia anche solo iniziato una elaborazione nuova del Patto fondamentale della nostra convivenza: non può esserlo di certo il solo passaggio, e anche questo molto incompleto, dal sistema elettorale su base proporzionale, al sistema maggioritario. La semplice sostituzione di una legge elettorale a un’altra non può importare alcuna discontinuità di rilievo costituzionale; al massimo ha operato – concorrendo altri fattori (Mani Pulite) – soltanto un mutamento, e anche questo più apparente che sostanziale, del personale politico;
– né vero fondamento politico: si è tanto parlato della fine della cosiddetta partitocrazia, per ritrovarci – come hanno dimostrato ad evidenza tutti questi mesi e ancor più queste ultime settimane – di fronte agli stessi abusi aggravati (in particolare l’occupazione dei poteri pubblici e delle istituzioni), agli stessi schemi operativi (lottizzazioni), alle stesse procedure (convocazioni e negoziazioni di vertici; sottodivisioni di gruppi e nuove formazioni di correnti) dei vecchi partiti. E più precisamente non ad opera di partiti nuovi e rispondenti a una nuova visione organica della cosa politica, ma:
– o partiti che non erano e non sono neppure tali, cioè realtà organiche e formate ad un comune sentire maturo, ma ancora sono soltanto accostamenti improvvisati di persone e di interessi;
– o partiti che, pur essendo tali, non appaiono per nulla nuovi, ma sono visti piuttosto ancora come ispirati a residui di vecchie ideologie o culture, e governati in gran parte dai vecchi apparati.
Infine la locuzione di Seconda Repubblica non corrisponde a una qualsiasi coscienza esperienziale nell’animo della maggior parte del nostro popolo, che nella quotidianità della vita, invece, non esperimenta ancora per nulla la novità che dovrebbe avanzare, ma solo esperimenta il vecchio che tarda a morire.
Quindi, a ben riflettere, tale locuzione va, per ora, decisamente rimossa, perché essa è una formula inesatta ed impropria, che può solo veicolare dei veri e propri errori storici, giuridici, politici, etici: cioè traina ed insinua nelle menti, che supinamente l’accettano, una falsa cultura decadente e disgregante.
II
3. Con tutto questo che ho detto, non voglio per nulla assumere, alla base del mio discorso, il postulato che dal 1948 ad oggi non siano intervenute molte e complesse modificazioni. È vero il contrario, che certo sono intervenuti dei cambiamenti di grande spessore:
– nel costume;
– nella trama e nell’ordito della società italiana;
– nei suoi dinamismi economici;
– nelle potenzialità, positive e negative, del suo sviluppo;
– nei suoi impulsi, desideri, istinti, individuali e collettivi;
– nella stessa coscienza e gerarchia dei valori;
– da parte di donne e di uomini, di individui maturi e di giovani o adolescenti.
Queste rilevanti e intrecciate mutazioni, per giunta, possono assumere anche un peso maggiore, quando vengano situate in un quadro internazionale radicalmente diverso rispetto al 1945-48. Può bastare solo un elenco di puri richiami:
– la convulsa e ancora confusa disgregazione del grande blocco orientale;
– il vuoto e il disorientamento ideologico lasciato, per ora, dalla fine del marxismo realizzato;
– la nuova consistenza che pare stia assumendo l’Unione Europea, specialmente dopo il trattato di Maastricht e lo spostamento del suo baricentro politico verso il Nord (con l’ingresso proprio di questi giorni dell’Austria, della Svezia e della Finlandia), che potrebbe far pensare a una marginalizzazione ancora più accentuata del nostro meridione e dell’intera area mediterranea;
– le tensioni e gli intrecci di esasperata conflittualità conseguente al venir meno della Iugoslavia e al durare delle guerre inter-etniche, così prossime al nostro Paese;
– e ancora la nuova imminenza, per noi, degli slavi occidentali e, per connessione fatale, degli slavi orientali;
– e d’altra parte, fattore ancor più importante, il risveglio mondiale dell’Islam e l’inarrestabile flusso emigratorio dall’Africa settentrionale islamizzata verso l’Europa e anche verso l’Italia, che costringerebbe a porre in termini nuovi e dinamici il nostro ruolo mediterraneo.
Tutto questo indubbiamente ci pone in una situazione geo-politica e geo-economica totalmente nuova e ci richiede, da tutti i punti di vista, una capacità di invenzione creativa.
E infine non si può non tener conto di ulteriori cause di trasformazione su un piano ancor più largo, per il mutato e problematico atteggiamento dell’America nei confronti dell’Europa; per la mondializzazione del mercato; e per le istituzioni già profilate per il suo regolamento unitario (GATT ecc.) in senso ancor più sfrenatamente capitalista, capace di determinare veri sconvolgimenti ulteriori nei legami sociali in intere popolazioni dell’Africa e dell’America latina.
E non solo in campo economico e sociale ma, quel che più conta, anche in campo culturale, ormai irrimediabilmente aperto all’invasione egemonica della produzione di film e di video nordamericani: questa prevedibile egemonia mediatica ha dato luogo, in Francia, a lunghe e non sopite polemiche, con le quali si è cercato – a differenza che in Italia – di mettere in allarme tutta l’opinione pubblica.
4. Quante e quali di queste cose siano presenti alla coscienza degli italiani può essere dubbio: ma certo è che può provenirne in molti un’idea confusa che comunque predispone a una voglia di tanti di cambiare le regole fondative, tanto per cambiare, e indipendentemente da una valutazione anche per poco approfondita dei cambiamenti vagheggiati e della loro pertinenza rispetto alle mutazioni reali intervenute o prevedibili (così è per molti il parlare a proposito e a sproposito di federalismo, rispetto alla cosiddetta, e ancora molto ipotetica, Europa delle Regioni).
Non si vuole, per ora, anticipare un giudizio sfavorevole a singole riforme costituzionali, che siano effettivamente esatte dai mutamenti reali sopra enumerati, ma si vuole dire che codesti mutamenti, per ora, ben raramente hanno dato e danno luogo a riflessioni sistematiche e dotate di una certa plausibilità dottrinale e pratica, e quindi convogliabili, come dovrebbe anzitutto essere, in proposte serie e concrete di leggi ordinarie e di direttive di governo; bensì per ora sono sfociate in una denigrazione aprioristica e molto confusa del nostro Patto fondamentale, divenuto facile pretesto non all’impossibilità, ma alla incapacità di governare e di avviare gradualmente la nostra comunità nazionale verso pacati e già possibili passi di trasformazioni reali.
Ed è appunto questa mitologia sostitutiva che è al centro del conflitto istituzionale, evidenziatesi in tutta la sua dimensione nelle ultime settimane, specialmente tra il capo dello Stato e l’ex Presidente: e non soltanto l’ex Presidente, ma anche vari strati dell’opinione pubblica (anche cattolica) disinformata o volutamente male informata.
Parlo di mitologia sostitutiva: in qualche modo analoga a quello che avveniva nell’antico Israele ogni volta che Dio incominciava a castigare il popolo per la sua apostasia e per il suo falso culto verso gli idoli di Canaan, e invece il popolo interpretava i castighi proprio a rovescio, cioè non li attribuiva al Dio unico e vero che voleva portarlo alla conversione, ma li attribuiva proprio al suo mancato servizio degli idoli cananei e babilonesi. Come quando ai rimproveri di Geremia da parte di Dio, il popolo rispondeva:
«Non ti vogliamo dare ascolto, anzi, decisamente eseguiremo tutto ciò che abbiamo promesso [agli idoli di Canaan]. Allora [quando li onoravamo] avevamo pane in abbondanza, eravamo felici e non vedemmo alcuna sventura; ma da quando abbiamo cessato di bruciare incenso alla Regina del cielo [la dea babilonese Ishtar] e di offrirle libazioni, abbiamo sofferto carestia di tutto e siamo stati sterminati dalla spada e dalla fame» (Ger 44, 17-18).
III
5. È appunto a questa mitologia sostitutiva che in sostanza si riduce tutta la tesi assurda e violenta, sino quasi al limite della rottura eversiva, sostenuta nelle passate settimane e in fondo ancora riproposta dal Polo della destra: cioè la tesi che si appella alla prevalenza assoluta della sovranità popolare come si è espressa nelle ultime elezioni.
Ma la vigente Costituzione afferma sì che la sovranità appartiene al popolo, ma soggiunge anche che esso la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Orbene, sono di tutta evidenza due dati:
– anzitutto questa volontà popolare ha come normale espressione costituzionale la sua rappresentanza nelle assemblee parlamentari (che non sono solo «lo sgabello o la cassa di risonanza del Presidente del Consiglio e del Governo, così che possano essere licenziate quando non servono più. Il Parlamento continua ad essere centro di elaborazione politica, entro le possibilità del risultato elettorale» (Zagrebelsky, in «La Stampa», 16.1.1995).
– e in secondo luogo, nel caso specifico, non è stata propriamente espressa dalle elezioni una maggioranza omogenea, ma ab initio una maggioranza composita, perché risultante da un cartello elettorale formalmente disomogeneo e contraddittorio. Era infatti costituito da un partito che aveva contratto due diverse e incompatibili alleanze, una nel Nord e una nel Sud del Paese.
La incompatibilità, che era già palese e dichiarata ancor prima del voto, si è manifestata insostenibile e paralizzante a pochi mesi dalle elezioni stesse, nell’esercizio concreto dell’azione di governo, e poi finalmente conclamata dalla sfiducia di una gran parte del Parlamento.
Venuta così meno la base parlamentare della fiducia al Governo, era del tutto ovvio che il Governo sfiduciato dovesse tirarsi da parte e non pretendere invece che il Parlamento fosse sciolto e si procedesse subito a nuove elezioni. Non c’era e non c’è nessun motivo costituzionale per pretendere di conservare il potere e di conservarlo quanto meno sino alle nuove elezioni.
Illegittime – e forse già formalmente eversive – sono state tutte le ripetute e insistenti minacce e pressioni sul Capo dello Stato, volte a condizionare e a ridurre la libertà di scelta che è propria ed esclusiva delle sue prerogative in tali contingenze.
È così dunque che, alla Costituzione ancora formalmente e sostanzialmente vigente, si sono volute opporre ipotetiche norme di una mitica Costituzione ancora non scritta, del tutto immaginaria, sulla semplice base di deduzioni ricavate solamente dalla legge elettorale maggioritaria: deduzioni del tutto infondate e senza nessun precedente in qualunque ordinamento costituzionale.
A parte i tanti discorsi e spettacoli (televisivi) volti solo a esercitare una seduzione ingannatrice, il conflitto è conflitto tra realtà e mito: si potrebbe anche specificare tra una sana democrazia e i miti antidemocratici, alla fine idolatrici, come quelli della babilonese Regina del cielo, cioè i miti della prepotenza, della arrogante occupazione del potere, della conservazione di esso ad ogni costo e contro ogni ragione ed interesse di patria, della palese prevalenza degli interessi privati di un’azienda sull’interesse pubblico della Nazione.
Così la stessa sovranità popolare diventa sempre più una sovranità mitica: a cui in pubblico e nei discorsi seduttori si rende culto e la si sopraesalta, ma di fatto in sostanza la si viola: delegittimando le sue rappresentanze elettive (il Parlamento), tentando sempre più di comprimere l’indipendenza dell’ordine giudiziario, moltiplicando estrose e indebite pressioni sulla Corte Costituzionale, e finalmente cercando con ostinazione sistematica di ridurre sempre di più la libertà della suprema Magistratura della Repubblica. Pressappoco come Mussolini aveva ridotto la libertà del Re e Hitler aveva ridotto la grandezza mummificata di Hindenburg.
A una sovranità popolare così mitizzata che cosa potrà ancora restare? Un’ultima illusione: l’illusione di una democrazia diretta! Cioè di essere chiamata ad esercitarsi attraverso referendum, resi sempre più frequenti ed agevoli. Ma anche questa è un’illusione. Invece di una democrazia rappresentativa (parlamentare), con le sue procedure dialogiche e le inevitabili mediazioni di ragioni contrapposte a confronto, si avrebbe una democrazia populista, inevitabilmente influenzata da grandi campagne mediatiche, senza razionalità e appellantisi soprattutto a mozioni istintive e a impulsi emotivi, che trasformeranno i referendum in plebisciti e praticamente ridurranno il consenso del popolo sovrano a un mero applauso al Sovrano del popolo. Non si pensi che io vada troppo fantasticando:
– nella realtà sono già presenti e qualificati i soggetti necessari e idonei;
– si sono già escogitati e alquanto messi in prova alcuni passaggi e alcune procedure;
– si sono già verificati o sono in via di verifica certi possibili consensi;
– si è riscontrato il benestare di poteri occulti;
– e forse la tolleranza di alti accreditamenti etici.
E così o prima o poi – se continuiamo per questa strada – i mistagoghi dell’utopica Seconda Repubblica potranno iniziare tutto il popolo italiano, o per lo meno una gran parte di esso, ai paradisi artificiali della nuova salvezza.
IV
6. In una situazione siffatta, di grande confusione e disorientamento dell’opinione pubblica, di conflitti istituzionali (artatamente provocati), di esasperazione dei linguaggi e di crescita continua della rissosità, non pare molto probabile che la costituzione del nuovo Governo, avvenuta si può dire ancora da poche ore, possa portare a un clima di maggiore pacatezza, di riflessività e di tregua. E comunque non pare verosimile che la prima cosa da fare sia di por mano a revisioni costituzionali, sia pure nella formula, apparentemente corretta, di un’assemblea costituente eletta a sistema proporzionale.
Come del resto è stato già detto (vedi Rodotà, in «la Repubblica», 10.1.1995): «Sarebbe un estremo tentativo di spostare nella dimensione istituzionale problemi politici ai quali non si riesce a dare una risposta politica».
Sarebbe molto più plausibile, legittimo, urgente, affrontare in via di legislazione ordinaria e di politica governativa tutti quei problemi implicanti non una riforma del testo costituzionale, ma la sua effettiva applicazione: problemi che sono stati per tanto tempo elusi o che si pongono ora ex novo, con indilazionabile imperatività.
Sono anzitutto i problemi della manovra economica finanziaria, i più cogenti, come ha detto il nuovo presidente Dini nella sua prima dichiarazione: «per correggere le tendenze in atto e per sostenere la ripresa dell’economia e dell’occupazione».
Non meno urgente è la riforma delle pensioni, tradotta in apposite norme di legge; e la legge elettorale regionale.
E infine la disciplina dei mezzi di comunicazione, che possa garantire a tutti la par condicio, sulla quale dovrò ritornare tra breve. Ma intanto metterei, non dico in una specie di doverosa lista d’attesa, bensì in una previsione contestualizzata di opera di governo, qualche provvedimento urgente per affrontare il problema del persistente incremento della disoccupazione in Italia (che non è semplicemente congiunturale, ma sistemico: non dimentichiamoci i 17 milioni e mezzo di disoccupati europei); il degrado delle grandi città; il problema dei nuovi immigrati; la tensione delle periferie urbane; il saccheggio ecologico; il rigurgito dei razzismi e degli estremismi religiosi ecc.
Per un avvio almeno di qualche tentativo di intervento in tutti questi campi, non c’è bisogno di scomodare la Costituzione, ma si può e si deve provvedere con l’ordinaria prassi legislativa e governativa.
Occorre solo avere idee chiare e volontà politica risoluta, in un clima di tregua e di consapevole comune preoccupazione nazionale.
7. Vorrei ritornare sull’argomento della disciplina dell’uso dei mezzi di comunicazione.
La prima dichiarazione di Dini, subito dopo aver ricevuto l’incarico, ha accennato «a una disciplina se si vuole anche di carattere transitorio dell’uso dei mezzi di comunicazione». Dico francamente che questo è stato il punto che sin dall’inizio mi ha impressionato non favorevolmente. Posso ammettere la necessità di prudenza e riserva in un campo già per sé tanto intricato e difficile. Ma mi augurerei che al più presto – già nelle stesse dichiarazioni di presentazione del Governo alle Camere – potessimo ascoltare espressioni più definite al riguardo. Già per una ragione pregiudiziale: che questo del monopolio privato dei mezzi di comunicazione è stato il punto più controverso e l’obiezione fondamentale opponibile ed opposta al precedente Presidente. Quella per cui si è potuto non infondatamente sin dall’inizio sostenere la sua incompatibilità; e anche quella per cui giustamente si è affermato che egli ha in proposito adottato soltanto una tattica dilatoria, e che non ha fatto quel che nessuno gli impediva di fare e che invece tutti concordi reclamavano: cioè, il porre fine in modo chiaro ed univoco alla sua incompatibilità plurima.
E questa stessa ragione sarebbe stata bastevole da sola a confermare la legittimità dell’accettazione delle sue dimissioni e a troncare ogni controversia una volta accertato che il Governo non aveva più la maggioranza in Parlamento. Questo va detto per il passato.
Ma per il presente e per il futuro va pure detto che una disciplina dei mezzi di comunicazione non può riguardare solo l’uso, ma deve estendersi anche all’effettiva titolarità. E non può, se vuole essere equa ed efficace, limitarsi ad essere solo una disciplina transitoria.
Questo sì, è di rilievo costituzionale, come già ha incominciato a disporre la recentissima sentenza della Corte Costituzionale.
E arriverei a dire, riallacciandomi all’inizio del discorso sulla prima e seconda Repubblica, che una disciplina organica ed esauriente di tutta la materia dei mezzi di comunicazione potrebbe essere sì un segno iniziale di stacco giuridico tra il prima e il poi. Potrebbe essere ciò che incomincerebbe a dare anche al comune cittadino la coscienza di un inizio di un effettivo nuovo dinamismo del nostro Patto costituzionale: non più dimenticato o addormentato, ma riprendente una sua vitalità e la capacità di inserirsi efficacemente nel contesto delle nuove dinamiche della società italiana.
Ciò mi consente di ribadire, anche a questo proposito, ciò che ho già detto in tesi generale: che sarebbe cioè un grave errore parlare di modifiche costituzionali prima di avere ristabilita la piena osservanza di tutte le norme, e in ispecie di quelle relative al delicatissimo campo della pubblica informazione.
E come è certo un errore quello di volere attribuire a un’eventuale assemblea costituente, e non vedere che rientrano già a pieno titolo nella competenza della legislazione ordinaria, i temi che Sergio Romano, nella sua intervista a «L’Unità» del 16 gennaio 1995, elenca, sia pure in via di esempio, e cioè: «il tema del conflitto di interessi, dell’antitrust e del regime della televisione».
V
8. Ma è ora che a questo punto io dica quel che esattamente sarebbe, secondo me, un por mano alla Costituzione vigente.
Anzitutto, va fatta una constatazione: è quasi unanime la tesi che vuole tener ferma senza sostanziali ritocchi la prima parte della Costituzione e che limita, almeno in linea di prevalenza, il discorso solo alla riforma della seconda parte. (Per esempio, anche Sergio Romano, su «L’Unità» del 16 scorso, parla solo di questa e di revisione della forma dello Stato, intendendo, forse per un lapsus, riferirsi soprattutto ai rapporti Parlamento-Governo, e quindi alla forma di governo).
Ma anche sulla distinzione tra le due parti della Costituzione ci sarebbero molte cose da dire.
Anzitutto, come già più volte ha insistito Stefano Rodotà, ci possono essere delle modificazioni della seconda parte capaci di portare, anche al di là di ogni intenzione espressa, a riduzioni dei diritti inviolabili dei cittadini garantiti nella prima parte. Sono stati fatti parecchi esempi, come le differenze di fatto che si introdurrebbero nel diritto alla salute o all’istruzione, nei casi, facilmente ipotizzabili, di applicazioni incaute di un regionalismo forte.
Ma c’è di più. Di fronte a diritti già costituzionalmente garantiti può essere non solo rischioso, ma addirittura contraddittorio parlare di nuovo potere costituente. Mi sembra che debbano essere prese in seria considerazione le osservazioni proposte da ultimo, poco più di un mese fa, al Convegno nazionale dei Costituzionalisti a Genova, nella relazione di Mario Dogliani. Partendo da un recente enunciato del Tribunale Federale tedesco (12.10.1993) relativo al trattato di Maastricht, e richiamandosi specialmente alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e alla Convenzione europea del 1955, Dogliani giunge ad affermare che il potere costituente è oggi esaurito, il che equivale a dire che «è bene che i tratti fondamentali dell’organizzazione sociale non siano decisi dal potere politico contingente». Ciò non vuole avanzare la pretesa di bloccare il tempo, di fermare la storia: ma vuole dire che di fronte ai diritti già costituiti, ci può essere solo un potere che espande, perfeziona, garantisce ulteriormente i diritti stessi o che modifica parti diverse non inviolabili della Costituzione e che, quindi, tale potere «come continuamente attivabile nel ciclo delle generazioni, può essere concepito solo come potere di revisione», entro un quadro sostanziale già dato.
Da tutto questo deve venire anche un’estrema cautela nei confronti di una nuova costituente: ipotesi che in queste ultime settimane sembra trovare consensi, forse con ben diverse intenzioni, a destra e a sinistra (del tutto dissenzienti si sono mostrati, oltre che quasi tutti i presenti, Norberto Bobbio, Gustavo Zagrebelsky, Stefano Rodotà: questi sembra, anche questa volta, come per la precedente occasione del sistema maggioritario, inascoltato dal suo partito).
VI
9. Dunque, in questa mera revisione costituzionale, quali siano i punti a cui por mano ho già detto nel mio discorso qui a Milano il 18 maggio scorso e in altre occasioni. Non intendo ritornare sugli elenchi già fatti, né fermarmi in particolare su temi come quello della forma di governo, sullo sveltimento della produzione legislativa, sulla riforma dell’attuale bicameralismo e su un rafforzamento della posizione del Presidente del Consiglio ecc.
Mi limito solo a un punto: quello degli aspetti costituzionali interessanti i rapporti internazionali.
Relativamente a ciò, vorrei sottolineare il mio pieno e caldo consenso a quello che il prof. Allegretti non solo ha detto qui, ma che ha anche ulteriormente sviluppato in altri suoi recenti contributi su varie riviste, relativamente alla interpretazione degli articoli 10 e 11 della vigente Costituzione.
Giustamente il prof. Allegretti vi vede il riconoscimento del principio «supernazionale» o «internazionalista», al duplice fine della pace e della giustizia, e l’espressione di una parte suprema dell’ordinamento costituzionale, quindi non suscettibile in alcun modo di revisione, aperta o strisciante. Concordo anche sulle proposte del prof. Allegretti ad integrazione dinamica:
– dell’art. 10, prevedendo l’adattamento automatico del nostro ordinamento non solo a quello internazionale generale, ma anche ai trattati, fatta sempre salva la compatibilità con il nostro ordinamento costituzionale;
– dell’art. 11, soprattutto con il rafforzamento dell’intervento delle Camere previsto dagli art. 78 (stato di guerra) e 80 (ratifica dei trattati), che sinora non ha impedito né i trattati segreti né accordi stipulati in forma semplificata ed ha sottratto alla discussione parlamentare molti patti comportanti gravosi obblighi militari.
10. C’è poi, all’interno del nostro Paese, tutto il problema della maturazione di una nuova coscienza collettiva e di una adeguata preparazione del nuovo personale politico ed amministrativo: che, staccandosi dalla vecchia mentalità centralistica, sappia congiuntamente coniugare un nuovo senso di responsabilità autonomistica e insieme anche un’adeguata consapevolezza del senso unitario nazionale.
È a questo punto la prova certo più forte che ci aspetta tutti e alla quale arriviamo tutti scarsamente preparati, come dimostrano proprio in questi giorni le due tesi contrapposte: di Gian Enrico Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione, iI Mulino, Bologna 1993, e di Norberto Bobbio, Quale Italia?, in «Reset», 1995, 13.
Ma di tutto questo forse dirò in una prossima futura occasione.
Grazie.

