T. Portoghesi Tuzi-G. Tuzi, Quando si faceva la Costituzione, Il Saggiatore, Milano 2010
Nel surriscaldato clima politico italiano degli ultimi tempi, fatto di annunci, boutade, transfughi, traditori, risse, falchi e colombe sembra davvero un esercizio di fantasia poter leggere di quella straordinaria avventura politica, umana ed istituzionale che fu la «comunità del porcellino» di cui raccontano Telemaco Portoghesi Tuzi e Grazia Tuzi1.
La storia è abbastanza nota: nell’Italia che usciva a pezzi dalla seconda guerra mondiale e che, con il referendum del 2 giugno 1946 passava dalla monarchia alla repubblica ed eleggeva l’Assemblea costituente, la ricostruzione civile e morale passò anche attraverso l’opera di un gruppo di intellettuali che, tra il 1947 ed il 1953, si ritrovò ospite presso la casa romana delle sorelle Pia e Laura Portoghesi, in via della Chiesa Nuova 14.
Di quel gruppo di persone facevano parte, tra gli altri, Laura Bianchini, Giuseppe Dossetti, Giuseppe Lazzati, Amintore Fanfani e Giorgio La Pira.
L’origine di un nome
Come questi si diedero, con una buona dose di autoironia, il nome di «comunità del porcellino» lo racconta chiaramente Gian Antonio Stella nella brillante prefazione al libro. In anni in cui anche in casa Portoghesi si mangiavano «abbondanti minestre, poca carne e molte patate», quando l’allora presidente dell’AC, Vittorino Veronese, si presentò a pranzo con un porcellino farcito, «sembrò a tutti un’apparizione» ed occasione più che mai degna di venire suggellata con tanto di una sorta di (ironico) atto costitutivo controfirmato da notaio.
Furono anni intensi quelli della vita della «comunità del porcellino»: gli anni della ricostruzione, della costituente e della prima legislatura repubblicana. Uno dei periodi di maggior fermento per l’Italia del ’900, che vide tra i suoi protagonisti proprio molti degli ospiti di via della Chiesa Nuova che in casa Portoghesi avevano dato vita ad una vera e propria comunità che quotidianamente si riuniva intorno al grande tavolo da pranzo o nel leggendario salotto rosso, per discutere, pensare, confrontarsi, sognare e, perché no?, anche sorridere.
Insomma, nel cuore di Roma nacque una comunità fraterna ed operosa dal cui lavoro uscirono alcune delle idee più brillanti che furono discusse all’Assemblea costituente.
Uno dei meriti del libro sta proprio nella capacità dei due autori, Telemaco Portoghesi, nipote delle padrone di casa Pia e Laura, e Grazia, la pronipote, di saper trasmettere, anche attraverso il recupero di lettere e fotografie, il clima familiare e fraterno che si respirava nella casa.
Il libro in questione infatti non si può dire né specificamente un trattato storico né un saggio politico. La sua importanza (e bellezza) sta proprio nella capacità di rievocare una storia umana che sfugge alle normali dinamiche politiche e riesumare un’atmosfera familiare unica, che fu in grado di superare anche i diversi caratteri e le diverse storie professionali degli ospiti della casa.
Nella comunità infatti c’era, come detto, Laura Bianchini, bresciana, sanguigna, partigiana e redattrice del «Ribelle»; Dossetti, polemico e finissimo nel pensiero e nell’azione; Fanfani e La Pira, burloni e a tratti fanciulleschi; Lazzati, definito il più saggio, «di poche parole e molti fatti». E poi ancora Glisenti, Baget Bozzo, De Cesaris: un crogiuolo di intelligenze e di forti caratteri ma che aveva, per iniziare (e già questo è molto), un granitico senso del bene comune e l’idea della necessità di saper cercare e trovare sempre una sintesi.
Come ricorda padre Giuseppe Ferrari in uno degli scritti che fanno da cornice al libro, in quegli anni via della Chiesa Nuova «fu quasi un parlamento», o meglio, si potrebbe aggiungere, il prototipo di quello che dovrebbe essere un parlamento. Fu infatti luogo di incontro tra diverse proposte ed idee, di duro lavoro, di ascolto, mediazione, sintesi. La porta era sempre aperta per chi avesse dei progetti e chi volesse contribuire a ricostruire l’Italia e a favorire la crescita della pace e della giustizia sociale.
Un cappotto nuovo e un mantello rattoppato
Sarebbe probabilmente inutile provare a ripercorrere in una recensione gli innumerevoli aneddoti e vicissitudini che gli autori sono stati in grado di riesumare. Il lettore avrà il piacere di scoprirli nell’incedere del libro e di leggere, ad esempio, del famoso prestito del cappotto nuovo di Lazzati a La Pira, il quale, così indifferente alle cose materiali, a sua volta lo regalò ad un poveretto infreddolito, in cambio di un mantello bisunto e rattoppato che le sorelle Portoghesi furono costrette a bruciare sul terrazzo.
Aneddoti di vissuto quotidiano si mischiano ai grandi avvenimenti dell’epoca ed al dibattito politico dell’Italia del secondo dopoguerra.
Si racconta della nascita di «Cronache Sociali», delle prime elezioni per il Parlamento repubblicano, del difficile rapporto con il governo De Gasperi e le altre correnti della Democrazia cristiana.
Poi, come ogni esperienza della vita, anche la «comunità del porcellino» si sciolse a causa dell’inevitabile allontanamento dei suoi membri da Roma.
La Pira fu il primo ad andarsene quando nel 1951 venne eletto sindaco di Firenze. Successivamente anche gli altri presero altre strade: Dossetti lasciò il Parlamento nel 1952, dopo aver dato l’anno precedente le dimissioni da vice-segretario della Dc, e divenne sacerdote nel 1959, mentre Lazzati terminò la prima legislatura ma non si ricandidò e tornò a Milano, abbandonando la politica attiva per poter continuare a fare politica attraverso la cultura, l’Università e l’educazione.
Forse, amaramente, si potrebbe concludere dicendo che la fine della «comunità del porcellino», i cui membri per altro continuarono a vedersi e stimarsi, a condividere idee, progetti e risultati, potrebbe testimoniare la crisi e la sconfitta del «dossettismo» nella Dc prima e nel paese poi.
In realtà il valore di quell’esperienza e di quegli uomini, dei veri e propri padri della nazione, sta nell’esser stati capaci di mettere a frutto la semina avvenuta negli anni di via della Chiesa Nuova e di aver continuato a testimoniare per tutta la vita un’indelebile capacità di fare politica con grande umanità, alto grado di comprensione e rispetto dell’altro, impegno e sobrietà.
Nei tempi odierni in cui un genuino spirito costituente, che allora fu in grado di risollevare un paese distrutto, sembra un illustre sconosciuto nei palazzi della politica, è necessario rispolverare la memoria delle origini della politica italiana anche attraverso la bella intuizione di Telemaco e Grazia Portoghesi.
Queste pagine possono dunque rappresentare un buon tentativo per rinverdire quello spirito e quel messaggio perché, come diceva Calamandrei: «La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno metterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità»2. E anche un po’ di gioia ed ironia, elementi che mai mancarono in via della Chiesa Nuova.
1 T. Portoghesi Tuzi e G. Tuzi, Quando si faceva la Costituzione. Storia e personaggi della Comunità del porcellino, Il Saggiatore, Milano 2010.
2 P. Calamandrei, Discorso ai giovani sulla Costituzione, tenuto a Milano il 26 gennaio 1955.
