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C. Nordio-G. Pisapia, In attesa di giustizia. Dialogo sulle riforme possibi, Guerini, Milano 2010

Negli ultimi tempi, in Italia, sembra essere divenuto difficile poter parlare del sistema giudiziario, in particolare quello penale, con competenza, realismo, moderazione e ragionevolezza.
Fortunatamente questo problema non l’hanno avuto Carlo Nordio e Giuliano Pisapia, autori di un libro1 scritto a quattro mani dopo aver presieduto entrambi, sotto governi diversi, la commissione ministeriale per la riforma del codice penale.
Il libro dunque, come scrive Nordio, «nasce da una delusione perché né il centrodestra né il centrosinistra hanno mostrato il minimo interesse a dare un seguito a quelle soluzioni prospettate in modo bipartisan», e presenta diversi motivi di interesse, a cominciare dal profilo biografico dei due autori.
Nordio infatti è procuratore aggiunto a Venezia, si definisce liberale e realista, Pisapia invece è avvocato, espressione della cultura della sinistra idealista e fu eletto per una legislatura alla Camera nelle liste di Rifondazione comunista.
Tuttavia entrambi hanno avuto lo stesso incarico dal ministero della Giustizia, il primo con il guardasigilli Castelli, il secondo con Mastella, ed entrambi sono giunti alla stessa diagnosi, hanno prospettato terapie simili scontrandosi però con l’incapacità (o la non volontà) della politica di procedere a riforme serie e ragionevoli.
Anzi, da entrambi proviene l’amara constatazione che, sui temi della giustizia, la classe politica sia attenta solamente alle sensibilità dell’opinione pubblica, oscillando in maniera irrazionale tra buonismi eccessivi e rigidi pacchetti sicurezza. Quasi che il Parlamento consideri un arresto più importante che la celebrazione di un processo.

Le malattie della giustizia

Il libro dunque, con il metodo dialettico della maieutica socratica, interseca la voce dei due autori e prova a far luce nel buio del nostro sistema penale.
La prima parte è dedicata alle «malattie della giustizia», ed incomincia da una data chiave: il 1989, quando si riformò il Codice di procedura penale e si passò dal sistema inquisitorio al sistema accusatorio.
Il modello accusatorio, che si basa sulla parità delle parti (accusa e difesa) e la formazione della prova in dibattimento davanti al giudice terzo ed imparziale, avrebbe potuto snellire il sistema, ma, ricorda Nordio, «rimasero immutate le garanzie, soprattutto quelle relative alla possibilità di impugnare e non si favorirono gli strumenti deflattivi, quali il patteggiamento, molto usati nei sistemi accusatori anglosassoni».
Così oggi, la lunghezza del processo facilita l’incombenza della prescrizione e spesso l’unica pena inflitta a molti imputati è la carcerazione preventiva, rivelandosi quanto mai veritiera la frase di Vassalli: «sempre di più il giorno del processo diventa per l’imputato il giorno della libertà».
La ragionevole durata del processo è dunque l’obiettivo cardine per chi vuole riformare il sistema, ma il modo, dicono gli autori, non può essere quello del d.d.l. sul cosiddetto processo breve, che è stato recentemente oggetto di esame in Parlamento. Infatti la pur lodevole volontà di dare un termine massimo alla durata del processo (il d.d.l. parla di 6 anni) rischia di dare un nuovo impulso alla prescrizione, «se non aumentano le risorse in maniera proporzionale e non si procede ad una diminuzione dei reati» (Nordio).

Cambiare le regole

Un processo breve si raggiunge con la modifica di regole processuali e sostanziali. Tra le prime si segnalano il ripristino dell’art 599 c.p.p. (modificato nel 2008 dal cosiddetto «pacchetto sicurezza») o l’abolizione del ricorso in Cassazione a seguito di patteggiamento. Tra le seconde vi è soprattutto l’esigenza di una seria depenalizzazione.
Forte è la critica del libro al panpenalismo che è «solo propaganda, stupida demagogia» (Pisapia), e forte è l’auspicio di una riforma del codice penale che elimini «l’ormai superata distinzione tra delitti e contravvenzioni, sanzionando le seconde solo in via amministrativa» (Nordio) ed aumenti i reati perseguibili solo a querela.
L’idea di poter risolvere tutto con il Codice penale permette alla politica di guadagnare consensi ma allo stesso tempo intasa le aule giudiziarie.

Il rapporto fra la politica e la giustizia

La seconda parte del libro si dedica poi alle riforme costituzionali ed al complesso rapporto tra politica e giustizia. In particolare gli autori si interrogano sulla separazione delle carriere, sull’obbligatorietà dell’azione penale e sul ruolo del Csm.
Sul primo punto le posizioni sono pressoché identiche. Pisapia guarda con sfavore ad un arbitro che possa indossare «una volta la casacca nera e l’altra la divisa del giocatore», e sottolinea, con un po’ di amarezza che su questo tema troppo spesso la cultura democratica di sinistra è stata sorda e prevenuta. La separazione delle carriere, che significa bloccare il transito automatico da funzione giudicante a funzione inquirente e creare due organi di autogoverno distinti per giudici e Pm, è auspicabile anche per generare maggiore fiducia dei cittadini verso chi ha il compito di giudicare. Imprescindibile però, dicono con una sola voce i due autori, è la necessità di garantire sempre l’indipendenza assoluta del Pm dall’esecutivo.
Sul secondo punto (obbligatorietà dell’azione penale) le posizioni differiscono, perché se da un lato Pisapia vede nell’art. 112 Cost. la garanzia di un’effettiva uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, Nordio invece teme che esso garantisca ai Pm una discrezionalità talvolta esagerata, potenzialmente sconfinabile nell’arbitrio. Il punto è di particolare interesse e in evidenza nella recente cronaca politica.
Da un lato infatti l’obbligatorietà dell’azione penale può essere vista come il prezzo che la società paga all’assoluta indipendenza di chi fa le indagini, mentre dall’altro la si può considerare un incomprensibile privilegio che svincola i Pm da ogni responsabilità.
Quasi sorprendentemente però, anche su un tema che li divide, i due autori alla fine concordano: questo sarebbe un falso problema se cessasse l’idea del panpenalismo e si smettesse di creare nuovi (e inutili) reati ed i Pm si potessero dedicare solo a reati seri, avendo tempo per tutti.
Necessaria per entrambi è una riforma del Csm, che, amara verità, oggi «sta alle correnti come il parlamento della prima Repubblica stava ai partiti» (Nordio). E’ bene che, nel solco dell’idea voluta dai costituenti, esso sia veramente organo di garanzia per i magistrati e per tutti i cittadini.

La semplificazione del sistema

Tra gli elementi di maggior interesse del libro, dunque, vi è la constatazione che gli autori, pur partendo da diversa posizione politica e ruolo professionale, si confrontano giungendo a conclusioni convergenti su molte questioni spinose. È vero, vi sono anche delle divergenze profonde (come le analisi sulla necessità o meno di una riscrittura della Costituzione) ma, come scrive Sergio Romano nella prefazione del libro, «se il Parlamento delegasse a un comitato ristretto, composto da Nordio e Pisapia, la ricerca di una soluzione soddisfacente (ipotesi purtroppo improbabile), i due autori di questo libro riuscirebbero a trovarla».
La loro ricetta è intuitiva e allo stesso tempo quasi rivoluzionaria: si fonda sull’idea della semplificazione e della coerenza del sistema.
In una fase storica come la presente, in cui la riforma della giustizia sembra essere al primo punto dell’agenda politica di tutti i partiti, Nordio e Pisapia sembrano aprire una via metodologica nuova ed individuare degli obiettivi seri e ragionevoli, forti di una competenza di chi, nel complesso universo del diritto penale, vive ed opera per davvero.