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S. Tosi Cambrini, La zingara rapitrice, Cisu, Roma 2008

Fabrizio Floris

Esistono concetti e situazioni non inseribili all’interno di nessuna categoria sociologica per come oggi le conosciamo. Prendiamo il caso «zingari» al cui riguardo si può dire che «tutto è vero e tutto è falso». Nel senso che c’è un’ampia frammentazione delle situazioni. Ci sono ricchi e poveri, Mercedes nuove e vecchi furgoni, ladri e lavoratori, clandestini dell’ultima ora e italiani da secoli, modernità e tradizione. Pertanto, non si può parlare di devianza perché i giovani che commettono reati rispondono proprio alle indicazioni che ricevono dagli adulti di riferimento; ma nemmeno di esclusione sociale perché gli zingari sono sì esclusi, ma contemporaneamente scelgono di non integrarsi con la società maggioritaria; neanche il termine povertà aiuta molto, perché a parte pochi casi, non ci sono persone povere nel senso economico del termine; non si può parlare semplicemente di immigrazione perché molti zingari non hanno un progetto migratorio e oltre la metà sono italiani. Ciò conferma quanto sostiene Herbert Blumer (La metodologia dell’interazionismo simbolico, Armando, Roma 2006) che «noi necessariamente vediamo qualsiasi area di vita sociale non familiare attraverso immagini che già possediamo. Immagini costruite da teorie, credenze e idee. E a volte le immagini del mondo empirico sono formate sulla misura stessa delle teorie».
A tal proposito è istruttiva la lettura di due volumi di recente pubblicazione.
Nel primo, un bel testo di analisi delle sentenze nei confronti di zingari che avrebbero rapito bambini, la Tosi Cambini ci racconta una parte profonda della nostra realtà.
L’autrice conduce un’approfondita analisi dei racconti, delle denunce e delle sentenze nei confronti di zingari sospettati o denunciati di sottrazione di minore dal 1986 al 2007. I casi sono stati individuati e analizzati partendo dall’archivio Ansa e arrivando alla consultazione dei fascicoli dei tribunali, adottando, oltre a quella giuridica, più prospettive: etnografica, antropologica-giuridica ed etnometodologica.
Per dare un quadro del lavoro svolto, si può dire che la ricerca è strutturata in tre fasi:
1) individuazione nell’archivio Ansa dei fatti di interesse;
2) studio del corpus ricavato dall’archivio Ansa per individuare i casi;
3) lavoro sui casi: consultazione dei fascicoli processuali, ricostruzione, comparazione.
In quest’ultima fase l’attività dell’autrice è consistita nel prendere contatto con forze dell’ordine, procure e tribunali al fine di verificare se il fatto avesse avuto un prosieguo significativo in termini penali. Gli elementi cardine dei racconti dei tentati rapimenti sono pochi e ripetitivi: nella grande maggioranza, si tratta di «donne contro donne» ossia è la madre ad accusare una donna rom di aver tentato di prendere il bambino; non ci sono testimoni del fatto, tranne i diretti interessati; gli eventi accadono spesso in luoghi affollati come mercati o vie commerciali; nessuno interviene in soccorso della madre; non di rado appare la paura che vi sia uno «scopo oscuro del rapimento» per cui la presenza di alcuni mezzi e persone nelle vicinanze vengono interpretate dalle madri (o da altre figure) come complici della zingara.
L’analisi dei casi porta ad affermare che, laddove vi è la presenza di un infante, l’avvicinamento di una persona rom è subito vissuto come un pericolo per il proprio figlio: lo stereotipo «gli zingari rubano i bambini» risulta essere molto più potente di qualsiasi altro.
La conclusione è che non si conosce un solo caso documentato di minore rapito dagli zingari, non c’è nessuna condanna per sequestro o sottrazione di minore. Ci sono, tuttavia, tre condanne per «tentato sequestro» e due «per tentata sottrazione di persona incapace».
L’analisi parte dal fatto del 28 luglio 2007 in cui si racconta di un tentato rapimento di un bimbo da parte di una zingara. Il tutto succede in un attimo: la mamma del bambino vede qualcosa e valuta quel qualcosa in modo da vedere qualcosa. Dirà poi al pubblico ministero di riconoscere «di essere condizionata da pregiudizi contro gli zingari».
D’altra parte nella complessa quotidianità in cui viviamo è necessario usare strategie di pensiero capaci di arrivare a sintesi e conclusioni in modo ossessivamente immediato. Facciamo ricorso a scorciatoie e a procedure di comodo che in alcuni casi migliorano per così dire l’efficienza, ma in altri alimentano falsità e pregiudizi. Non per nulla Albert Einstein affermava che è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio. Partire da una buona lettura non guasta.

Il secondo volume (dell’austriaco K. M. Gauss) è un reportage che ha il pregio di raccontarci i nostri slums, farceli vedere, perché la loro principale caratteristica non è la povertà, né la violenza, né la disoccupazione e nemmeno la decadenza architettonica. La caratteristica fondamentale è la loro invisibilità. Gli slums sono qui accanto a noi eppure non riusciamo a vederli. Nessuno ne sa niente, si sa solo che lì ci sono gli «zingari». Nessuno sa raccontare niente sugli abitanti di queste aree, quello che sa lo ha sempre sentito da qualcun altro, che nella maggior parte dei casi se lo è sentito a sua volta raccontare.
Ci passiamo accanto, ma non riusciamo a vederli. È come se gli slums fossero delimitati da un muro immateriale che separa un mondo da un altro o meglio da un telo che li rende invisibili. Ogni giorno migliaia di persone passano accanto allo slum di strada areoporto a Torino o a quello di via Triboniano a Milano senza mai avventurarsi al loro interno come fossero terra straniera e a loro volta gli abitanti degli slums percepiscono come estraneo chiunque non sia residente al loro interno o non sia accompagnato. Come se si trattasse di due città quella dei tempi migliori e quella dei tempi peggiori, quella della primavera e quella dell’inverno, quella del futuro e quella senza futuro. Slum, baraccopoli, sono parole che evocano paesi lontani e tempi lontani come quelli narrati da Dickens o da Kapuscinski eppure sono una realtà costante e crescente anche all’interno dei nostri territori. In Italia secondo alcune stime39 ci sarebbero sei mila insediamenti di questo tipo. La presenza di questi luoghi non ha una matrice culturale legata alla bellezza del vivere all’aria aperta, ma fondamentalmente economica: il mercato della casa con le liberalizzazioni e la crescente presenza di popolazione di origine straniera che non può fare riferimento ai servizi sociali e alle forme di sostegno che un welfare pur ridimensionato può ancora offrire. Prezzi della casa e degli affitti inaccessibili, assenza di sostegno e mancanza di alternative spingono le famiglie, perché è di questo che si tratta, a inventarsi il proprio riparo per la notte. In un giorno con un po’ di assi di legno, teli di plastica, qualche lamiera o vetro, la casa è fatta. Un unico vano per dormire la notte ed ospitare gli amici di giorno mentre la cucina è all’aperto. Si fa così negli anfratti urbani, in mezzo a quel che resta del verde urbano e tra la vegetazione. In terreni marginali, scoscesi, sotto i ponti delle ferrovie, lungo i fiumi, ma sempre ai margini della città. Perché solo nella grande città è presente un orizzonte di opportunità che nessun altro luogo può offrire.