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P. Birindelli, Sé, concetti e pratiche, Aracne, Roma 2008

L’ultimo libro di Pierluca Birindelli è un libro di sociologia propositiva e costruttiva. È cosa non da poco. Se ci rechiamo in libreria siamo infatti sommersi da libri di sociologia scritti da mestieranti, cioè da coloro che ti dicono impressioni mascherate da descrizioni e dati quantitativi apparentemente incontrovertibili. Se poi si tratta di un tema come l’identità, specie quella individuale, il cosiddetto «Sé», allora è ancora maggiore il rischio di essere turlupinati, come lettori e come soggetti desiderosi di apprendere e magari aiutarsi a conoscersi e a conoscere. Attenzione quindi ai mestieranti, ma soprattutto all’intellettuale che modella l’idealtipo dell’identità su parametri letterari e artistici, fingendo di fare scienza.
I due pericoli sono connessi, perché spesso il mestierante della sociologia è in realtà uno scrittore, poeta o artista, comunque mancato, il quale non ha la perseveranza e l’umiltà di riconvertirsi in scienziato sociale e perciò si limita oziosamente a travestire le proprie «illuminazioni» e idiosincrasie in asserzioni empiricamente fondate e generalizzanti.
Pierluca Birindelli conferma con questo suo secondo libro di non appartenere a questa infausta genia che imperversa e che perverte una nobile scienza sociale fondata da studiosi del calibro di Durkheim, Weber e Simmel e spesso ridotta oggi in chiacchiera o favola ideologica. Birindelli non è affetto né dal conformismo del politicamente corretto, né dal nichilismo gaio dell’esteta camuffato da sociologo, ma sente la responsabilità etica di chi scrive su noi e parla di noi e a noi, specialmente alle generazioni più giovani.
Anzi, parla ad almeno la metà della popolazione italiana ed occidentale tout court, dato che i «giovani»non corrispondono più ad una generazione bensì ad una categoria sociologica e psicologica dilatata ben oltre la soglia dei quarant’anni. E Birindelli avverte la patologia di un simile fenomeno e ne indaga le origini, senza prendere alcuna scorciatoia pseudo-filosofica. Anzitutto, quella legata all’uso della categoria di «post-moderno», a cui fa un ricorso pressoché nullo, prediligendo semmai la dizione, storicamente più corretta, di «tarda modernità». Tutto ciò che oggi si manifesta e sovente preoccupa nasce infatti da un duplice e parallelo processo di sovraccaricamento dell’Io. Processo filosofico-culturale, almeno dal Rinascimento in qua, e processo economico-sociale, dalla Rivoluzione industriale in qua. Una modernità «tarda», nel senso di esasperata ed esaurita, espansa fino alla stanchezza e alla noia, è ciò che tarla la mente di soggetti sempre più angosciati da una domanda — «chi sono?» — a cui faticano a trovare una risposta.
E perché questa difficoltà? Perché i modelli d’identificazione (non da imitare pedissequamente, essendo piuttosto fonti d’ispirazione e suggerimenti), solitamente forniti dalle istituzioni e dalle agenzie di socializzazione tradizionali, sono in crisi. Perdono di efficacia, si pluralizzano fino al limite della frantumazione e frammentazione, toccando persino la socializzazione primaria e manomettendo così lo stesso meccanismo di interiorizzazione di valori condivisi, la bussola che sempre necessita al singolo per un agire consapevole e fruttifero per sé e per la società.
Birindelli intende fronteggiare la crisi, e anche se non lo proclama, perché non è (fortunatamente) un retore, sostanzia di un compito etico la propria ricerca. Egli si affida con più fiducia a quei sociologi che hanno continuato degnamente la tradizione dei padri fondatori, e trova così gli strumenti analitici più fecondi in Peter Berger, Alfred Schutz e non di rado in quegli inarrivabili indagatori dell’animo umano che da sempre sono i classici della letteratura, da Conrad a Kafka a Proust.
Dalla ricognizione condotta nei primi capitoli emerge con nettezza che un certo smarrimento negli abitanti delle società occidentali è innegabile, e tale disorientamento non riguarda solo i giovani, anche perché tali si reputano anche chi tale non lo è più da un pezzo (e altrove l’Autore ci segnala come gli uomini gareggino oramai con le donne nella paura dell’invecchiamento più superficialmente fisico). Ma Birindelli non indugia nella pittura para-sociologica a tinte fosche, e con pazienza cerca di ricucire i lembi di identità smagliate se non gravemente lacerate.
Ci dice che l’identità è un «progetto», e ciò significa che bisogna pro-iettare, gettare avanti e oltre ma che lo si fa se, quantomeno, si intravede l’altra sponda su cui poggiare quel ponte che si intende costruire. Perché identità è costruzione, è narrazione di una continuità nonostante le discontinuità del tempo e grazie alle discontinuità del tempo. È indubbio che si può gettare e gettarsi anche senza certezza dell’approdo o del sostegno, ma è altrettanto certo che un ponte risulta difficile erigerlo facendo affidamento alla sola sponda di partenza. Al massimo si costruiscono ponti levatoi o trampolini. In questa metafora, che ho testé improvvisato, sta probabilmente il senso della crisi identitaria contemporanea. O almeno parte di esso.
Birindelli lo dichiara subito: «il dialogo tra autonomia e costrizioni è al centro di ogni discorso sull’identità». Forse l’identità scaturisce da un dialogo intersoggettivo e intrasoggettivo — come ha suggerito anni fa Sergio Caruso —, da un discorrere in cui l’Altro-da-sé è introiettato ma questo Altro-da-sé non può essere frutto di intuizioni astratte, immaginazioni e pregiudizi, nel senso di conoscenze preconfezionate e insufflate. È qui che la cosiddetta «mediatizzazione» della realtà, o meglio dell’esperienza della realtà, rischia di provocare i maggiori danni sui più giovani proprio nel delicatissimo momento della loro costruzione identitaria. L’Altro-da-sé deve — a mano a mano che si cresce e proprio in quanto si cresce e a testimonianza che si sta crescendo — essere il frutto di una progressiva accumulazione di incontri e scontri diretti e concreti, non mediati e solo immaginati.
Siamo così giunti al vecchio, caro concetto di «esperienza». Birindelli ha scritto questo suo secondo libro forte dei dati — questi sì piuttosto «duri» e «vissuti» — fornitigli da una lunga ricognizione e raccolta di autobiografie — circa sessanta, passando anche da un personale scandaglio interiore, condotto senza sconti e compiacimenti — di giovani italiani tra i ventidue e i trent’anni (cfr. Clicca su te stesso. Sé senza l’altro, Bonanno, Roma 2006). I soggetti da lui incontrati percepivano effettivamente una molteplicità di traiettorie di vita durante la loro adolescenza e nella prima gioventù, ma tale ricchezza si riduceva drasticamente all’avvicinarsi della loro «linea d’ombra». Inoltre, l’autonomia del singolo individuo rispetto allo stato di nascita e alla sua appartenenza familiare è in realtà del tutto «presunta» e assai poco reale, se non per quella che resta comunque una élite, porzione circoscritta di individui. Le pratiche di consumo diventano così i surrogati o i simulacri di stili di vita sognati. Ma resta sempre e comunque un vivere «come se», privo di traduzioni pratiche e a forte rischio di auto-contemplazione inattiva.
Il principio del «si vedrà» che contagia sempre più ampie fasce di popolazione non è solo né tanto un effetto della crisi della razionalità — come vorrebbero i sostenitori della teoria critica e i loro figliocci post-moderni — ma piuttosto — ad avviso di chi scrive ma, sospetto, anche di Birindelli — un portato della liberalizzazione delle soggettività, insomma del principio e soprattutto della pratica della libertà. Una scelta «assolutamente» libera — o certamente libera in una misura mai esperita in epoche precedenti — scarica sul singolo una responsabilità talora abnorme. Il rischio è la paralisi, il rifiuto di qualsiasi dose di responsabilità e la conseguente spoliazione e alienazione delle proprie responsabilità per delegarle interamente ad altri. Oppure, piuttosto che ad altri, al futuro, inteso come procrastinazione del momento dell’attesa, per diventare tanti Giovanni Drogo compiaciuti.
Come il protagonista del romanzo di Dino Buzzati1, si finisce per assuefarsi ad una condizione di potenzialità estrema che però mai si esprime e per questo, alla fine, rassicura perché si preferisce ormai la rappresentazione e l’immaginazione, al massimo la simulazione, della cosa piuttosto che la cosa stessa. Paura della libertà e fuga da essa? Qualcosa del genere; non solo questo, ma anche questo. E così si scopre che libertà senza vincoli diventa sinonimo di «precarietà». I «possibili» non si possono dilatare all’infinito, e sostenere il contrario significa essere ignari della condizione umana oppure essere in malafede. Un’esistenza eccessivamente dilatata non si flette, si spezza. Si frantuma o dissolve, perché non ha più riconoscimenti ritenuti credibili, degni di essere incamerati dal Sé che intende costruirsi, che deve costruirsi. Ma cosa sono questi «vincoli» se non frammenti di tradizione?
Questa mia recensione potrebbe proseguire ancora per diverse pagine, tanto pesante è il carico di preziosissimi stimoli suscitati in me dalla lettura di questo libro. Ma preferisco fermarmi qui ponendo un interrogativo all’Autore, magari come avvio di una discussione a distanza, da tenersi in questa sede o altrove, e che sia anche un invito a proseguire in una ricerca che manca e che necessita. Chiedo allora a Birindelli se oggi sia possibile compiere o contribuire al compiersi di quel che la modernità occidentale finora non ha fatto, e se lo ha fatto ha dato esiti disastrosi.
È possibile recuperare una forma di tradizione e innestarla in quell’innovazione incessante in cui consiste appunto la modernità? Personalmente non credo che siamo condannati alla «liquidità», e che la modernità conosca solo e soltanto una dimensione, quella dissolvitrice e alienante. Non credo comunque che la cultura, se ha ancora da esser tale, ossia dell’umano e per l’umano, debba arrendersi e non farsi «volenterosa» di progettualità — individuali e collettive — concludenti (non definitive ma nemmeno sospese nella passività). Si aprirebbe qui un’ulteriore questione che Birindelli suggerisce in tutto il libro ma non sviluppa, perché credo e mi auguro che a ciò dedicherà il suo prossimo lavoro: se è indubbio che «alla complicazione dell’ambiente esterno […] corrisponde una complicazione dell’ambiente interno», perché non avviare una battaglia culturale che sia di riforma dell’ambiente esterno, ovvero delle istituzioni di socializzazione? E allora non si tratta di passare dalla teoria sociologica alla teoria politica? Personalmente credo di sì. Ma ne discuteremo.

1 D. Buzzati, Il deserto dei tartari, Rizzoli, Milano 1940; Oscar Mondadori, Milano 2001, 18ª edizione