I confini invalicabili della nostra Costituzione
Professore, ci parli del confine dal suo punto di vista di illustre costituzionalista.
La nozione di confine è essenziale alla stessa nozione di Costituzione, perché questa, nella sua essenza, è costituita da un complesso, da un nucleo di principi che la identificano. Quindi, se si violano questi principi supremi si passa il confine, si realizza il passaggio del Rubicone.
Il concetto di confine, dunque, è fondamentale per capire se si rimane nell’ambito di questi principi oppure no. Lo si rileva con chiarezza nella possibilità – che la Corte costituzionale ha rivendicato con la sentenza n. 1146 del 1988, anche se nella pratica non c’è stata un’applicazione sempre coerente – di limitare, controllandole, leggi costituzionali frutto dei procedimenti di revisione previsti dall’art. 138 della Costituzione. Cioè, tanto è forte questo concetto di limite, di confine rispetto ai principi accolti nel nucleo essenziale, che in base ad essi la Corte rivendica un giudizio di conformità a questi principi anche se la legge è stata adottata con le forme della revisione costituzionale previste dall’art. 138.
È uno dei pilastri della giurisprudenza della Corte.
Il limite, il confine è ancora più forte per la legge ordinaria. La legge ordinaria dovrebbe rispettare non solo i principi supremi della Costituzione, ma tutte le sue norme. (…) Esemplificando: la legge costituzionale non può derogare ai principi supremi, la legge ordinaria non può derogare a ciascuna delle norme della Costituzione e il regolamento – l’atto normativo tipico della pubblica amministrazione – non può derogare né alla legge ordinaria, né tantomeno ai principi supremi e alle norme costituzionali.
Esiste dunque una scala, una gerarchia, che dà luogo a un sistema gradato di fonti superiori e inferiori. Questo sistema è stato poi affiancato dal criterio cosiddetto «della competenza», che esclude da questo disegno gerarchico una serie di attribuzioni come, ad esempio, quelle per la formazione dei regolamenti parlamentari delle camere, che la Corte ha ritenuto – non trattandosi di atti legislativi – di non poter sottoporre al suo controllo.
Se una materia che interessa la Costituzione viene disciplinata con legge ordinaria ci sono dei rischi? Come si esercita la tutela dei confini?
Ci sono effettivamente dei problemi. Quando una materia che interessa la Costituzione viene disciplinata con legge ordinaria può accadere (è ciò che è avvenuto con la legge n. 400 del 1988) che le norme legislative siano private poi di ogni reale efficacia. In quel caso il contenuto della legge, che voleva limitare il potere di decretazione d’urgenza, è stato trasgredito da una legge ordinaria successiva, fonte paritaria rispetto alla prima. In effetti ciò ha comportato che ogni atto, che ha forza di legge, successivo alla 400/1988, ha portato a deroghe, a modifiche, con il risultato di far perdere effettività alla legge n. 400.
Sarebbe utile che almeno la parte più importante di queste leggi e delle massime tratte dalla giurisprudenza della Corte in materia di non reiterazione dei decreti legge e di controllo dei requisiti della necessità e dell’urgenza fosse disciplinata con legge costituzionale. Sarebbe una tutela più adeguata. Oppure si potrebbe ricorrere all’istituto francese della «legge organica», fonte intermedia tra la legge costituzionale e quella ordinaria.
I confini si tutelano meglio in relazione al tipo di atto, di legge – costituzionale o ordinaria – con cui la materia viene trattata. C’è uno stretto collegamento tra la collocazione nell’ordine delle fonti e la efficacia della tutela dei confini. Il sistema non è a tenuta stagna. In base al criterio della competenza, infatti, molte norme, essenziali per la vita dello stato, sfuggono al controllo della Corte. (…)
Il confine tra le diverse forme di governo è valicabile?
È un punto molto discutibile. Bisogna giudicare entro quali limiti sia possibile la modifica della forma di governo. Proviamo a esaminare i casi principali. Questo confine è chiaro e darebbe luogo a un giudizio di non contrarietà alla Costituzione, se si volesse passare da una forma di governo parlamentare alla forma di governo presidenziale statunitense, perché si tratta di una forma che si fonda su un peculiare equilibrio tra i poteri. Infatti, la caratteristica della forma di governo italiana e di quasi tutti i paesi d’Europa è quella parlamentare: il governo deve avere la fiducia delle camere e però ha la possibilità di porre la questione di fiducia e di proporre talvolta anche di chiedere al capo dello stato lo scioglimento delle assemblee legislative.
Il presidente degli Stati Uniti, salvo impeachment, ha una durata di carica fissa di quattro anni e, in base a una separazione strutturale rispetto al Congresso, non può né porre la questione di fiducia né sciogliere ciascuna delle camere, che hanno una durata prefissata, rigida, come la sua.
Naturalmente può accadere, ma è rarissimo, che l’impeachment minacciato o realizzato funzioni (il caso Nixon è chiarissimo; a causa dello scandalo Watergate egli si dimise prima di essere giudicato dal senato, che, quando si pronuncia sui casi di impeachment, è presieduto dal presidente della Corte suprema). (…) Riassumendo, a mio avviso tra le due forme di governo – parlamentare e presidenziale statunitense – esiste un confine superabile in sede di revisione costituzionale, perché tutte e due queste forme di governo hanno un loro equilibrio, diverso, ma ce l’hanno.
Differente è il caso del passaggio al sistema semipresidenziale francese, perché non ravviso in questo caso un equilibrio soddisfacente. È vero che il governo composto dal primo ministro e dai ministri può essere sfiduciato dal parlamento, ma è anche vero che il governo ha poteri molto ridotti di fronte a un presidente della repubblica così come delineato dalla Costituzione del 1958 e come rafforzato ulteriormente dall’elezione diretta del 1962. (…) C’è uno squilibrio molto forte tra chi è responsabile di fronte al parlamento (il governo) e il presidente (una recentissima riforma ha fissato il tetto di due mandati consecutivi, per un totale di dieci anni), che invece non è responsabile né di fronte al parlamento né, dopo il secondo quinquennato, di fronte al corpo elettorale. La Costituzione francese si è evoluta in un senso che ha accentuato, se possibile, la irresponsabilità politica del presidente, che De Gaulle bilanciava a suo modo ponendo la questione di fiducia direttamente al popolo in occasione dei referendum da lui indetti. Aveva conquistato il suo enorme potere «violando» la lettera della Costituzione – in cui non si prevede che il presidente possa revocare il primo ministro, è previsto solo il potere di nomina ma non di revoca e neanche della richiesta di dimissioni, e tuttavia il Generale metteva in gioco la sua carica in referendum proposti al corpo elettorale, perdendola, come è avvenuto dopo la sconfitta nel referendum istituzionale del 1969. Questo modo di procedere, che in un certo senso rispondeva a un criterio democratico, è venuto totalmente meno con i successori di De Gaulle: nessuno dopo di lui ha più posto la questione di fiducia al popolo. Tutti hanno voluto completare il loro mandato, non mettendo a rischio la propria posizione. (…)
Tutto questo che effetti ha?
Che in Francia ha poteri enormi chi non è responsabile di fronte al parlamento, mentre chi è responsabile di fronte al parlamento ha poteri molto limitati. Allora questo squilibrio, secondo me, renderebbe molto dubbiosi circa la possibilità di cambiare la forma di governo passando in Italia dal parlamentare al semipresidenziale.
C’è stato un momento, specie nelle proposte dei politologi, in cui sembrava che la forma di governo alla francese potesse estendersi e non soltanto in Italia. Il sistema francese pareva destinato ad espandersi soprattutto dopo la caduta del comunismo nei paesi dell’Europa orientale e, in effetti, le prime Costituzioni sembravano orientate in questo senso. Poi però c’è stata una sorta di ripiegamento; è rimasta l’elezione popolare del presidente della repubblica, ma si sono ridotti fortemente quei poteri che inizialmente gli erano stati conferiti. Anche in questi paesi dell’Europa orientale si è arrivati più vicini a una soluzione simile a quella austriaca o finlandese, in cui il capo dello stato è eletto dal popolo, ma non ha un vero potere di indirizzo politico. Questo potere appartiene al partito vincente che esprime il primo ministro o al cancelliere (in Austria).
Non è la monarchia repubblicana di cui parlava Duverger. C’è in Francia, ma non c’è in Austria né in Finlandia, né in Portogallo né nelle democrazie dell’Europa orientale. Non è dunque un caso che tutte le democrazie europee non abbiano il sistema semipresidenziale, salvo la Francia; questa dissociazione del potere dalla responsabilità, così netta, così drastica, è sentita come un’anomalia. Il presidente appare come un «dittatore eletto». (…)
In Italia il dittatore eletto non piacerebbe?
C’è stato un chiaro segnale su questo tema da parte del corpo elettorale quando con il referendum del giugno 2006 ha reagito, oltre che alla devolution, a una modifica costituzionale che concentrava troppi poteri nel premier.
Direi che, anche se non si tratta di un vincolo giuridico, è tuttavia un’indicazione politica: non è un caso che sia stata respinta dal popolo una forma di governo a metà strada tra il semipresidenzialismo e il presidenzialismo sudamericano.
Forse ci siamo illusi che la soluzione negativa del referendum ci garantisse un periodo abbastanza lungo di stabilità istituzionale, non già per precludere le riforme, quando esse siano per così dire interne al sistema, fisiologiche, come quelle che prevedeva il famoso ordine del giorno Perassi, votato allorché si è scelta nell’Assemblea costituente la forma di governo parlamentare.
Quell’odg diceva che sì, si sceglieva quella forma, ma bisognava trovare i dispositivi che assicurassero stabilità ministeriale ed efficacia, continuità all’azione di governo. Purtroppo, da allora non si è riusciti a trovare questi dispositivi, prima perché alla vigilia del 18 aprile del ’48 tutti temevano di perdere e nessuno voleva rafforzare il futuro vincitore; poi è fallito il premio di maggioranza di De Gasperi; poi ci si è affidati esclusivamente alla dinamica dei partiti, che non è stata soddisfacente perché essi hanno ecceduto – specialmente la Democrazia cristiana con le sue correnti – nel condizionare la stabilità dei governi. Il problema di una razionalizzazione e del rafforzamento del potere esecutivo – che in realtà è già forte, ma all’apparenza favorisce invece il vittimismo di chi dice che non ci sono poteri – è quindi rimasto aperto.
Dovremmo arrivare a una razionalizzazione che rafforzi l’esecutivo, ma lasciando aperta la possibilità di un cambiamento del premier in corso di legislatura. Anche in Germania, Erhard, che pure era un economista di notevole fama, non ha resistito come cancelliere successore di Adenauer, ed è stato sostituito in corso di legislatura.
Dovremmo adottare sì il rafforzamento del presidente del consiglio dandogli il potere di proporre al capo dello stato la revoca dei ministri e la possibilità di porre entro certi limiti la questione di fiducia, perché troppe questioni di fiducia rischiano di espropriare il potere legislativo del parlamento.
C’è poi bisogno di stabilire il rapporto fiduciario con una sola camera; non si possono avere due rapporti fiduciari, in Europa non c’è oramai nessuna forma di governo parlamentare per cui ci sia la doppia fiducia. Si potrebbe poi arrivare alla sfiducia costruttiva – c’è in Germania, in Spagna, in Belgio – che presuppone la possibilità di cambiare il premier in corso di legislatura, ma in realtà lo rafforza, perché impedisce che un governo venga abbattuto dall’unione delle estreme di destra e di sinistra.
È ben difficile, infatti, che le estreme possano mettersi d’accordo sul nome di un futuro premier, come la regola impone.
Ma neanche questo è sufficiente. Per far funzionare bene la forma di governo parlamentare e razionalizzarla occorre un’altra cosa: l’esistenza e il funzionamento di due grandi partiti democratici. Anche senza bipartitismo, come perno di un’alleanza sarebbero necessari un grande partito di tendenza moderato e un altro di tendenza riformista, che godessero di un funzionamento interno veramente democratico.
E noi in Italia ne siamo molto lontani, sia per la legge elettorale, sia perché i partiti sono diventati in alcuni casi partiti «patrimoniali» e non solo personali.
Il salto per il sistema tedesco, allora, non è soltanto un problema di sistema elettorale, è un problema di partiti. Voglio dire che si può anche fare una legge sui partiti alla tedesca, però è molto difficile garantirsi una vera formazione a struttura interna democratica, come è stata in certi periodi la Dc. Bisognerebbe comunque attuare l’art. 49 della Costituzione, che impone il metodo democratico dentro i partiti e nella competizione tra i partiti.
Ma chi propone il sistema tedesco non ha come retropensiero la possibilità della grande coalizione?
La grande coalizione è residuale, perché se essa divenisse sistema verrebbe accusata di «consociativismo», sistema che, secondo la classificazione del politologo olandese Lijphart, va bene per i piccoli paesi, come la Svizzera, l’Olanda…
Però la Germania l’ha fatta.
In due circostanze particolari. Non viene esclusa, ma di solito prevale chi vince. Chi vince lo fa o con un margine abbastanza forte, o con un’alleanza come è avvenuto tra i socialdemocratici con i Verdi, o prima ancora tra la Cdu-Csu con i liberali. Di solito, i tedeschi hanno evitato la grande coalizione, che ha inconvenienti seri, perché si può rischiare la paralisi, anche quando c’è la capacità di mediazione del cancelliere.
Parliamo dell’Italia e dei partiti.
Il problema più grande per l’Italia, oltre alla legge elettorale, è proprio la capacità di formare due forze politiche democratiche, capaci di esprimere se non nuove ideologie, almeno seri programmi, capaci di superare il carattere di partiti personali, che purtroppo ci perseguita dal 1994. In realtà, non siamo riusciti da allora ad assestare veramente il sistema politico. Non abbiamo trovato un equilibrio stabile, perché anche quando si riesce a completare il quinquennio di legislatura, come ha fatto Berlusconi dal 2001 al 2006 e come potrà fare adesso, il problema della promozione di partiti forti e democratici allo stesso tempo non è stato nemmeno sfiorato. C’è stata una importante semplificazione, derivante dal non fare coalizioni con chi era troppo disomogeneo, ma per le caratteristiche del referendum abrogativo non si è potuto far cadere il meccanismo di designazione dei candidati alle elezioni politiche dai vertici dei partiti, sotto pena della dichiarazione di inammissibilità della consultazione referendaria.
Il lodo Alfano ha fatto varcare il confine che ha a che fare con la divisione tra i poteri?
Il problema in questo caso non è quello della divisione dei poteri. Piuttosto, nelle repubbliche prevalgono le spinte determinate dal principio di eguaglianza, dell’eguale sottoposizione di tutti i cittadini alla legge e ai giudici. Con il lodo Alfano, invece, la sottrazione al giudizio, sia pure per il periodo di una legislatura, avviene in un modo assolutamente indiscriminato, per tutti i reati comuni. Più che un confine di competenze, si viola un limite, consistente nella comune soggezione di tutti i cittadini al giudizio dei giudici istituiti per legge. Anche in altri paesi può trovarsi qualche eccezione al principio di uguaglianza, ma si tratta sempre di eccezioni che consentono di valutare, innanzitutto, il rispetto del principio di proporzionalità, per vedere se c’è un fumus persecutionis o no; il criterio dell’automatismo generalizzato per cui non ci può essere processo né per il furto di una mela né per un omicidio non vige in nessun altro stato democratico.
Comunque, ribadisco, più che un problema di confini di competenza e di separazione dei poteri, è in gioco un principio fondamentale dello stato di diritto, per cui si è di norma sottoposti al giudice, soprattutto per i reati comuni, perché per i reati connessi alle funzioni c’è la possibilità di essere giudicati di fronte al giudice ordinario per il premier e per i ministri (e di fronte alla corte costituzionale integrata per il presidente della repubblica). Si arriva al paradosso che un ministro potrebbe essere processato per un reato funzionale, anche modesto, di abuso di ufficio, mentre non potrebbe essere giudicato in sede penale un presidente del consiglio che ha commesso evasione fiscale, oppure falso in bilancio, eccetera, reati molto gravi se commessi da chi esercita funzioni pubbliche.
Altri paesi adottano l’autorizzazione a procedere, con possibilità di ricorrere, come in Spagna, al tribunale costituzionale, sia contro il diniego, sia contro la concessione. In Francia è previsto che i ministri e il primo ministro possano essere deferiti a un’Alta corte (come è avvenuto con i ministri della sanità nel caso del sangue contaminato) soltanto dopo la conclusione dell’attività di un comitato istruttorio formato da esponenti della Cassazione e del consiglio di stato, cioè delle più alte magistrature. C’è quindi una tutela, derivante dal livello di preparazione tecnico-giuridica dei componenti il comitato. Per il capo dello stato, di cui è stata prevista dalla riforma Avril del 2007 l’immunità dal processo durante la carica, resta aperto però un rimedio estremo molto simile all’impeachment americano: se i due terzi dei parlamentari ritengono che il comportamento del presidente non sia compatibile con i doveri dell’ufficio è possibile, come negli Usa, farlo decadere dalla carica.
Per chiudere su questo punto, da noi si è scelto il sistema peggiore, che impedisce la valutazione dei presupposti per una deroga al principio di eguaglianza. È questa generalità, questo automatismo a rendere non plausibile e non giustificabile la indiscriminata sospensione dal giudizio.
C’è qualche motivo di preoccupazione ulteriore che affiora in questo primo anno di XVI legislatura?
Purtroppo dovrebbe provocare una reazione adeguata e perciò molto seria l’evidente difficoltà in cui è venuto a trovarsi il parlamento nell’esercizio delle sue fondamentali funzioni. Mi riferisco al continuo ricorso al precedente che risulta più costruttivo rispetto alla discussione parlamentare su leggi importanti anche dal punto di vista costituzionale (sia per la sacrificatissima istruttoria legislativa in commissione referente, sia per i tempi contingentati del dibattito in aula). Si sta perdendo memoria di quel principio supremo espresso nel secondo comma dell’art. 1 della Costituzione che riguarda tutti i limiti e i confini stabiliti nel nostro ordinamento; quel principio è formulato così: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Certo, nella Costituzione ci sono molti conferimenti di potere a singoli organi ed enti, ma sarebbe pericolosissimo dimenticare i limiti che essa pone al principio maggioritario.
Insomma, è necessario reagire al momento giusto, quando ancora non si sono consolidati precedenti molto negativi.
