J.E. Stiglitz, La globalizzazione che funziona, Einaudi, Torino 2006
Il «fondamentalismo del mercato», che si è rivelato incapace di regolare i processi economici a livello mondiale, e la creazione da parte dell’Occidente di un regime commerciale fatto su misura per servire l’interesse dei paesi sviluppati a scapito di quelli poveri sono, secondo J. E. Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001, le ragioni per cui la globalizzazione è divenuta il campo in cui si annidano i più gravi conflitti sociali del nostro tempo1. Partendo dunque dalla considerazione che i mercati da soli non bastano e che l’assenza di una seria regolamentazione pubblica non ha prodotto soltanto gravi forme di ingiustizia, ma si è rivelata anche economicamente inefficiente, Stiglitz sostiene la necessità di ricercare un giusto equilibrio tra Stato e mercato e di promuovere una serie di politiche volte ad affrontare questioni fondamentali quali quelle del lavoro e dell’ambiente, delle diversità culturali e della tutela dei consumatori.
I rapidi cenni di analisi della situazione evidenziano lo stato di crisi che caratterizza l’attuale quadro mondiale: la povertà del Terzo Mondo è cresciuta negli ultimi decenni — essa riguarda circa il 40% dei 6,5 miliardi di persone che popolano il pianeta — con forte incremento delle disuguaglianze tra i popoli, la tutela dell’ambiente è ancora del tutto insufficiente rispetto alle esigenze reali, il tasso di disoccupazione è quasi ovunque aumentato, mentre la presenza di poteri forti — quello economico e quello dell’informazione in primis — e l’egemonia del modello culturale americano rischiano di provocare un preoccupante indebolimento della democrazia.
Non si tratta di rifiutare la globalizzazione, ma di interrogarsi sul «come» va realizzata, tenendo conto non solo dei mercati, ma anche (e soprattutto) del capitale umano e naturale e del consolidamento di forme democratiche sempre più partecipate. Questo implica anzitutto un’attenzione privilegiata nei confronti dei paesi più svantaggiati, ristabilendo regole del gioco che consentano di dare vita a progetti efficaci di crescita in sintonia con le risorse di cui dispongono e con la tradizione culturale da cui provengono. Le proposte avanzate da Stiglitz, a tale riguardo, sono molte e concretissime. Egli insiste sull’esigenza di promuovere la nascita di un regime commerciale globale, che apra i mercati ai paesi poveri senza richiedere loro una stretta reciprocità; che abolisca le sovvenzioni dei paesi occidentali su alcuni prodotti agricoli — è questa la ragione dell’impossibilità dei paesi poveri di competere — ; che elimini i dazi doganali riguardanti soprattutto il valore aggiunto; che alimenti il raggio di azione dei trattati bilaterali; che affronti, infine, seriamente la questione del debito, per la cui soluzione si esige la creazione di un sistema finanziario globale efficiente, che offra sostegno più con le sovvenzioni e con gli aiuti che con i prestiti.
Ma Stiglitz non dimentica l’importanza dell’azione politica: riformare la globalizzazione è infatti compito fondamentale di chi governa. La tendenza che si sta manifestando (e che si accentuerà in un prossimo futuro) all’aumento medio del reddito e alla stagnazione o alla diminuzione dei salari, specialmente di quelli più bassi, con l’inevitabile aggravarsi delle disuguaglianze, esige che si intervenga con urgenza a invertire la rotta con misure come la riqualificazione della forza lavoro, la creazione di ammortizzatori sociali, l’allentamento della pressione fiscale sulle categorie più deboli e la maggiore tassazione dei redditi più elevati, nonché l’incremento degli investimenti per la ricerca e per l’innovazione. Il che presuppone la formazione di istituzioni democratiche, che siano in grado di farsi carico delle grandi questioni mondiali. Se è assodato che la debolezza e gli insuccessi delle istituzioni attuali e, più in generale, il deficit di democrazia, sono la causa principale dell’incapacità dimostrata dai governi e dagli organismi internazionali di moderare gli eccessi della globalizzazione, è allora evidente la necessità di un loro radicale cambiamento. Non bastano le mutazioni strutturali, per quanto importanti; è necessaria una vera rivoluzione culturale che restituisca alla politica la capacità di reagire al proliferare degli interessi particolari e che la spinga ad assumere come questione centrale quella della giustizia sociale, ponendo un freno agli egoismi individuali e corporativi e favorendo forme di azione ispirate alla logica della cooperazione.
Anche in questo caso Stiglitz avanza, con grande realismo, la proposta di alcune riforme urgenti: dal cambiamento del sistema di voto e della rappresentanza presso l’Fmi e la Banca mondiale per dare maggior peso ai paesi in via di sviluppo ad una maggiore trasparenza nel modo di operare degli organismi internazionali, fino a norme più precise che regolino, ai diversi livelli, i conflitti di interesse; da una partecipazione allargata alle decisioni relative agli interventi nei confronti dei paesi in via di sviluppo (con l’inclusione anche delle Ong), alla possibilità per tali paesi di contare nei processi decisionali, fino alla creazione di un sistema di verifica costante dell’operato delle istituzioni per costringerle ad assumere comportamenti responsabili.
L’esigenza di un regime economico internazionale più equilibrato si intreccia pertanto, nella riflessione di Stiglitz, con il bisogno di dare vita a una forma più perfetta di governance globale. Il fatto che la globalizzazione politica non riesca a tenere il passo della globalizzazione economica costituisce, al dire di Stiglitz, la ragione principale dello stato di disagio che si sperimenta oggi a livello mondiale. Lavorare per superare questo gap, andando oltre gli Stati-nazione e rafforzando gli organismi internazionali già esistenti — si pensi soltanto al Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite — è dunque il compito principale che occorre assumersi, se si intende concorrere all’edificazione di un sistema di sviluppo, capace di garantire una vita degna a tutta la famiglia umana.
I rapidi cenni di analisi della situazione evidenziano lo stato di crisi che caratterizza l’attuale quadro mondiale: la povertà del Terzo Mondo è cresciuta negli ultimi decenni — essa riguarda circa il 40% dei 6,5 miliardi di persone che popolano il pianeta — con forte incremento delle disuguaglianze tra i popoli, la tutela dell’ambiente è ancora del tutto insufficiente rispetto alle esigenze reali, il tasso di disoccupazione è quasi ovunque aumentato, mentre la presenza di poteri forti — quello economico e quello dell’informazione in primis — e l’egemonia del modello culturale americano rischiano di provocare un preoccupante indebolimento della democrazia.
Non si tratta di rifiutare la globalizzazione, ma di interrogarsi sul «come» va realizzata, tenendo conto non solo dei mercati, ma anche (e soprattutto) del capitale umano e naturale e del consolidamento di forme democratiche sempre più partecipate. Questo implica anzitutto un’attenzione privilegiata nei confronti dei paesi più svantaggiati, ristabilendo regole del gioco che consentano di dare vita a progetti efficaci di crescita in sintonia con le risorse di cui dispongono e con la tradizione culturale da cui provengono. Le proposte avanzate da Stiglitz, a tale riguardo, sono molte e concretissime. Egli insiste sull’esigenza di promuovere la nascita di un regime commerciale globale, che apra i mercati ai paesi poveri senza richiedere loro una stretta reciprocità; che abolisca le sovvenzioni dei paesi occidentali su alcuni prodotti agricoli — è questa la ragione dell’impossibilità dei paesi poveri di competere — ; che elimini i dazi doganali riguardanti soprattutto il valore aggiunto; che alimenti il raggio di azione dei trattati bilaterali; che affronti, infine, seriamente la questione del debito, per la cui soluzione si esige la creazione di un sistema finanziario globale efficiente, che offra sostegno più con le sovvenzioni e con gli aiuti che con i prestiti.
Ma Stiglitz non dimentica l’importanza dell’azione politica: riformare la globalizzazione è infatti compito fondamentale di chi governa. La tendenza che si sta manifestando (e che si accentuerà in un prossimo futuro) all’aumento medio del reddito e alla stagnazione o alla diminuzione dei salari, specialmente di quelli più bassi, con l’inevitabile aggravarsi delle disuguaglianze, esige che si intervenga con urgenza a invertire la rotta con misure come la riqualificazione della forza lavoro, la creazione di ammortizzatori sociali, l’allentamento della pressione fiscale sulle categorie più deboli e la maggiore tassazione dei redditi più elevati, nonché l’incremento degli investimenti per la ricerca e per l’innovazione. Il che presuppone la formazione di istituzioni democratiche, che siano in grado di farsi carico delle grandi questioni mondiali. Se è assodato che la debolezza e gli insuccessi delle istituzioni attuali e, più in generale, il deficit di democrazia, sono la causa principale dell’incapacità dimostrata dai governi e dagli organismi internazionali di moderare gli eccessi della globalizzazione, è allora evidente la necessità di un loro radicale cambiamento. Non bastano le mutazioni strutturali, per quanto importanti; è necessaria una vera rivoluzione culturale che restituisca alla politica la capacità di reagire al proliferare degli interessi particolari e che la spinga ad assumere come questione centrale quella della giustizia sociale, ponendo un freno agli egoismi individuali e corporativi e favorendo forme di azione ispirate alla logica della cooperazione.
Anche in questo caso Stiglitz avanza, con grande realismo, la proposta di alcune riforme urgenti: dal cambiamento del sistema di voto e della rappresentanza presso l’Fmi e la Banca mondiale per dare maggior peso ai paesi in via di sviluppo ad una maggiore trasparenza nel modo di operare degli organismi internazionali, fino a norme più precise che regolino, ai diversi livelli, i conflitti di interesse; da una partecipazione allargata alle decisioni relative agli interventi nei confronti dei paesi in via di sviluppo (con l’inclusione anche delle Ong), alla possibilità per tali paesi di contare nei processi decisionali, fino alla creazione di un sistema di verifica costante dell’operato delle istituzioni per costringerle ad assumere comportamenti responsabili.
L’esigenza di un regime economico internazionale più equilibrato si intreccia pertanto, nella riflessione di Stiglitz, con il bisogno di dare vita a una forma più perfetta di governance globale. Il fatto che la globalizzazione politica non riesca a tenere il passo della globalizzazione economica costituisce, al dire di Stiglitz, la ragione principale dello stato di disagio che si sperimenta oggi a livello mondiale. Lavorare per superare questo gap, andando oltre gli Stati-nazione e rafforzando gli organismi internazionali già esistenti — si pensi soltanto al Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite — è dunque il compito principale che occorre assumersi, se si intende concorrere all’edificazione di un sistema di sviluppo, capace di garantire una vita degna a tutta la famiglia umana.
