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L. Bruni, La ferita dell’altro. Economia e relazioni umane, Il margine, Trento, 2007

Luigino Bruni rara avis. Dove lo trovate un altro professore di economia politica, con tanto di cattedra all’Università Bicocca di Milano, che osa sfidare direttamente la «triste scienza» e la sua potente casta parlando di eros, philìa, agàpe? Non foss’altro che per ringraziarlo di questo insolito coraggio, correte in libreria a comperare il suo ultimo saggio La ferita dell’altro. Economia e relazioni umane, edito dalla casa editrice Il Margine, dei nostri amici di Trento. E dopo averlo acquistato trovate pure il tempo per leggerlo (quanti libri acquistati restano intonsi!). La scrittura è piacevole e chiara anche per i non addetti ai lavori come me.
La riflessione inizia e si chiude con un’icona: il combattimento di Giacobbe con l’angelo, raccontato al capitolo 32 del libro del Genesi. Da quando in qua un economista cita la Bibbia? Luigino Bruni (da ora in poi solo Luigino) lo fa perché vuole esplicitare subito la sua convinzione di fondo: ogni autentico rapporto umano crea una ferita che, solo se accettata e curata, può trasformarsi in una benedizione. Se si ha paura di affrontare l’altro, se ci cercano vie di fuga, se si ricorre all’immunitas piuttosto che credere alla communitas, l’esito finale è una condizione umana priva di gioia e genuinità. Questa convinzione Luigino la mette al centro della sua critica e della sua proposta.
La scienza economica moderna, così come pensata e voluta dal fondatore Adam Smith, è costruita sul mercato. Il mercato è in prima battuta fattore di civiltà perché spazza via la relazioni sociali e culturali tipiche delle società pre-moderne, asimmetriche e ineguali, dove la «benevolenza» degli uni (potenti e benestanti) verso gli altri (poveri e mendicanti) nasconde in realtà un rapporto di potere (quello che Hegel chiamerà in seguito dialettica «servo — padrone»). Come scrive appunto Adam Smith: «Non è dalla benevolenza del macellaio, o da quella del birraio o del fornaio che noi ci attendiamo il nostro pranzo, ma dal loro interesse personale. Ci rivolgiamo non al senso di umanità ma al loro interesse (self-love), e non parliamo mai delle nostre necessità ma dei loro vantaggi». Il mercato ha quindi il grande merito di liberarci dalla «benevolenza», ovvero da una relazione incivile, feudale, asimmetrica e verticale, permettendo un incontro volontario tra simili , allo stesso livello, mediato dal contratto, con il fine del mutuo vantaggio.
Ma il mercato ha anche l’assurda pretesa di costruire una vita in comune esente da ferite, senza sacrificio: una società quindi segnata dall’indifferenza, senza alcuna forma di amore reciproco o di affetto, dove l’altro non è né un nemico né un alleato, ma semplicemente un estraneo con cui instaurare meri rapporti di scambio. Con una tale impostazione ciò che l’economia economizza è proprio l’amore, la vera risorsa scarsa delle società contemporanee (come sostiene l’economista inglese Dennis Robertson). Due secoli e mezzo dopo Adam Smith il mercato è entrato in una fase così esasperata da produrre effetti spaventosi: sfruttamento delle persone (si ritorna alla dialettica servo-padrone), consunzione della fede pubblica, cioè della corda che lega le persone tra loro, sostituzione dei beni relazionali con surrogati a basso costo, diffusione di infelicità profonda anche nei contesti di opulenza. «Il peccato originale di Adam(o) Smith è stato considerare la relazione interpersonale sempre incivile e asimmetrica (cosa non troppo diversa da quanto teorizzato da Karl Marx), e quindi aver ritenuto che ogni relazione mediata sia più civilizzante della relazione immediata…. Se quindi vogliamo recuperare una relazionalità positiva dentro i mercati — e credo che questa sia una sfida decisiva per la qualità della vita dei prossimi anni — , allora per la teoria economica è necessario andare oltre Smith, e immaginare una scienza capace di gratuità e di relazionalità, non solo contrattuale e immune» (p. 46).
La tensione ad andare oltre Smith — e oltre Marx, aggiungo io — porta Luigino a sostenere la diretta influenza delle tre forme dell’amore (eros, philìa e agàpe) sul discorso economico.
È la parte più originale del suo discorso. Mi pare che si possa riassumere in estrema sintesi così. Eros, l’amore di desiderio, si abbina alla dinamica del contratto: la molla che spinge l’imprenditore è il desiderio di creare, di realizzare un progetto, di guadagnare, la passione di crescere e di migliorarsi. Philìa, l’amore di amicizia, viene declinato come mutualità: l’intero movimento cooperativo e l’associazionismo di ieri e di oggi si sono definiti attorno alla mutualità e dell’amicizia. Eros e philìa però non bastano. L’agàpe, l’amore di donazione, la gratuità, chiede di non essere confinata solo nella sfera privata ma di far conoscere i suoi benefici influssi anche nella vita economica. In almeno quattro modi: mostrando le esperienze che storicamente hanno come radice prevalente l’agàpe (dai Monti di Pietà francescani del medioevo alle economia di comunione e al commercio equo e solidale di oggi); denunciando i due «monofisismi» dell’eros (solo e soltanto contratto) e della philìa (solo e soltanto mutualità chiusa tra uguali); declinando più ampiamente il principio di sussidarietà («non faccia il contratto ciò che può fare l’amicizia, e non faccia l’amicizia ciò che può fare l’agàpe»); premiando (non pagando) chi agisce nella società mosso da autentica gratuità.
Il libro ha il merito di aprire porte e finestre su uno scenario nuovo. Non è solo un testo sull’economia civile, su cui del resto Luigino ha già ampiamente e dottamente scritto negli anni passati. Mi pare sia qualcosa di più: il manifesto di una proposta radicale, l’annuncio di una fase nuova dell’economia in cui finalmente prenderà corpo il principio di fraternità. Come si legge nella pagina finale: «la libertà e l’eguaglianza possono restare — e storicamente sono spesso restate — esperienze di immunitas; la fraternità no. Ecco perché la fraternità è sempre esperienza di gioia e di dolore, di vita e di morte. Ma — e questa intuizione è quella che in un certo senso ha ispirato l’intero saggio — senza fraternità la vita non fiorisce, non c’è felicità, né umanità piena. Certo, la vita non è felice né pienamente umana anche quando mancano libertà e eguaglianza, ma la grande illusione dell’umanesimo del mercato è stato pensare che si potesse salvare qualcosa di autenticamente umano rimuovendo la relazione di fraternità, con tutto il suo carico tragico di dolore e di sofferenza. La grande sfida della post-modernità sarà perciò quella di tenere assieme questi tre principi, di immaginare e costruire un umanesimo tridimensionale. Il paradosso della «infelicità opulenta», e gli altri paradossi che abbiamo incontrato, ci dicono sostanzialmente a quale caro prezzo stiamo pagando oggi il sacrificio della fraternità, il principio dimenticato della modernità» (pp. 195-196).
Adesso si tratta di andare avanti. Di affinare ulteriormente il fondamento antropologico, analizzando ancora più dettagliatamente le diverse forme dell’amore. In un altro saggio che ho avuto il piacere di leggere recentemente (C. Bensaid — J-Y Leloup, Chi ama quando ti amo?, Servitium) l’amore è presentato come una scala, con dieci traverse: porneia (amore appetito), pothòs (amore bisogno), manìa — pathé (amore passione), éros (amore erotico), philìa (amore amicizia), storghé (amore tenerezza), harmonìa (amore armonia), eunoìa (amore dedizione), chàris (amore gratitudine), agàpe (amore gratuito). La salute dell’uomo sta nel salire e scendere e nel tenere insieme i due capi della scala, l’alto e il basso, il carnale e lo spirituale. Quanto più saremo allenati spiritualmente e culturalmente per vivere la polifonia dell’amore, tanto più diventerà possibile affrontare l’ardua impresa di ampliarne la portata storica. Si tratta infatti di andare avanti anche nell’innovazione. Per riprendere la classica distinzione di Schumpeter, c’è urgente bisogno di «imprenditori innovatori» nella direzione della fraternità, senza cadere nella trappola della nostalgia del mondo pre-moderno o del comunitarismo post-moderno. Sono cose giuste le cooperative, il commercio equo e solidale, la banca popolare etica, le imprese dell’economia di comunione. Ma ci vuole altro ancora, altre forme per «fraternizzare» il mercato e l’economia nei macro-ambiti della produzione, del consumo e del risparmio.
Luigino, con questo libro, si è candidato ufficialmente a essere il teorico di riferimento dell’economia di fraternità. Un ruolo essenziale che non potrà però svolgere da solo. Lui sa meglio di me che non né bello né utile rimanere rara avis, passero solitario. Anche l’elaborazione è operazione erotico-agapica. Anche in Università senza abbracci si muore.