G. Caprioli, Il sindacato è una terra di mezzo, Città aperta, Troina (En) 2006
Terra di mezzo, sospesa tra il cielo degli ideali etico-sociali di giustizia e solidarietà e la terra dei faticosi compromessi raggiunti nel duro mestiere del negoziare: questo è il sindacato che Giorgio Caprioli, leader dei metalmeccanici della Cisl, presentava nel 2002 ai giovani della Fim, riuniti per lanciare la loro campagna Sapere è libertà (quelle conclusioni sono riprese nell’ultimo capitolo che dà titolo al libro). «Il sindacato — scrive Caprioli — è una sorta di terra di mezzo: non deve mai perdere di vista le questioni generali e i grandi ideali, ma al tempo stesso legittima il proprio operare e la propria identità di organizzazione se, guardando a quei cieli alti, riesce a produrre miglioramenti concreti, anche su cose che sembrano piccole e irrilevanti rispetto all’enormità dei problemi»1.
Si potrebbe anche riprendere la bella metafora usata da Aris Accornero nella discussione con Gian Primo Cella, Cesare Damiano, Massimo Mascini e lo stesso Caprioli, in occasione della presentazione del libro: il sindacato è «un veicolo che prende tutte le buche perché aderisce al terreno». Ma quel veicolo, tra un sobbalzo e l’altro, ha una direzione che non può essere persa né esaurirsi nel raggiungimento di una tappa intermedia. Se vogliamo, la metafora può valere anche per qualsiasi soggetto politico che abbia ambizioni non circoscritte al puro mantenimento del potere. O per qualsiasi aggregazione associativa che agisce nella società civile con fini non di profitto economico bensì di trasformazione sociale. Ma nel caso del sindacato — ci dice Caprioli — l’aderenza al terreno, senza smarrire la direzione, è più stringente. Innanzitutto perché c’è una rappresentanza precisa cui il sindacato deve rendere conto, verso la quale è responsabile nel senso che deve «portare a casa» — come si dice in gergo — risultati tangibili, anche se non sempre pienamente soddisfacenti: sono i lavoratori accomunati da una condizione «non solo e non tanto di reddito basso o relativamente basso, ma prima di tutto di dipendenza decisionale dal datore di lavoro, che è condivisa sia dall’ingegnere progettista altamente qualificato, sia dall’operaio comune che monta frigoriferi».
Ora, per poter vivere, il sindacato «ha bisogno che una parte significativa dei lavoratori condivida la convinzione che l’azione collettiva è più efficace di quella individuale; che la solidarietà è conveniente, oltre che giusta». È proprio qui che si svolge la funzione di «terra di mezzo» che, lungi dall’essere una condizione disgraziata, dà senso e grandezza all’impegno sindacale. Quella convinzione condivisa «contrasta certamente con il pensiero individualista dominante, non è scontata, né acquisita una volta per tutte, ha bisogno di essere continuamente alimentata dal raggiungimento di risultati concreti. Ma, proprio per la sua origine alternativa all’individualismo, è anche rafforzata dal progetto di una società nella quale abbiano più valore la dimensione sociale e la cooperazione rispetto a quella individuale e alla competizione».
Dunque, un occhio al cielo, e uno al terreno, ai cambiamenti spesso imprevisti del tracciato. Proprio perché aderente a questo terreno accidentato, il sindacato è chiamato a continui aggiustamenti, a essere esso stesso agente di cambiamento, pena lo smarrimento della direzione finale (e della propria «ragione sociale»).
In un paragrafo dal titolo suggestivo Il mito-storia, il patto, le origini, Caprioli non esita a dichiarare la fine del «mito» della classe operaia come soggetto sociale salvifico, come «eroe buono» che tra vittorie e sconfitte è comunque portatore di un disegno di trasformazione sociale destinato, alla fine, a essere vincente. Vengono così ricordati i profondi mutamenti intervenuti nel mondo del lavoro, nelle condizioni oggettive come nella soggettività dei lavoratori. Da qui la necessità di un cambiamento nel «mestiere» di rappresentanza, sia nella aggregazione delle nuove figure che si affacciano sulla scena del lavoro, sia nell’individuazione di nuovi orizzonti rivendicativi, sul piano dei diritti di libertà come dei bisogni «immateriali», oltre i tradizionali obiettivi redistributivi. Si può dire che questo, del rinnovamento della rappresentanza come degli obiettivi rivendicativi, è il filo rosso che lega le considerazioni di Caprioli sugli orizzonti del sindacalismo negli anni Duemila, da questo punto di vista pensieri tutt’altro che «sparsi», come è scritto con understatement forse eccessivo nel sottotitolo del libro.
Una considerazione centrale è dedicata ai temi dell’autonomia e del pluralismo. L’autonomia — secondo Caprioli — risponde in Italia sostanzialmente a due modelli, radicati in storie e culture diverse. L’uno, facente capo alla Cgil, muove da una «collocazione interna alla sinistra politica, scelta che fa parte della sua storia e della sua identità», per cui sono tenute «in grande considerazione le conseguenze delle proprie scelte sugli equilibri politici». L’altro, sostenuto dalla Cisl, «considera fondamentale la presenza nella dialettica democratica delle associazioni sociali, che devono poter partecipare alla definizione dell’agenda delle priorità che la politica deve affrontare e concorrere alla soluzione dei problemi».
Entrambi i modelli, naturalmente, si sono incarnati in modo diverso a seconda delle epoche, delle situazioni e persino delle realtà sociali territoriali, pur mantenendo la loro fisionomia di fondo. Negli ultimi dieci anni il problema dell’autonomia ha conosciuto un curioso fenomeno di inversione, tuttavia rientrato. La mancanza di autonomia rispetto alla politica era descritta in passato con l’immagine classica della cinghia di trasmissione: il partito che dava l’impulso, il sindacato lo riceveva e ne eseguiva il dettato. Negli anni a cavallo del secolo qualcuno ha cercato di invertire il moto della cinghia, pensando di portare il sindacato a sorgente della trasmissione. È sintomatico che siano stati proprio i leader di allora di Cgil e Cisl, Sergio Cofferati e Sergio D’Antoni, a promuovere questo tentativo, da punti di vista assai diversi a tuttavia convergenti nell’obiettivo di giocare direttamente le proprie carte nell’arena politica.
Il fatto è che negli anni Novanta, assumendo un ruolo di supplenza nella generale crisi dei partiti politici, il sindacato, ritrovatosi «straordinariamente forte sul piano politico e unico sopravvissuto alla bufera innescata dalle vicende giudiziarie di quegli anni», fu indotto «a sopravvalutare le proprie possibilità fino a immaginare di diventare protagonista diretto del riassetto dei partiti e delle istituzioni». È su questo affondo che vanno comprese le avventure azzardate senza troppa fortuna da Cofferati e D’Antoni.
Tuttavia la ripresa di un’autentica autonomia non può più essere giocata nell’indifferenza rispetto alla politica: la formula che Caprioli suggerisce è quella della «interlocuzione pluralista, che non escluda nessuno a priori, ma pur avendo ben chiaro il diverso grado di sintonia con i diversi partiti. Essa dovrebbe portare non tanto a far decidere al sindacato qual è il partito più amico, quanto i partiti a comprendere e far proprie le istanze sindacali: non scegliere, ma farsi scegliere».
Il fatto è — e qui torniamo al punto da cui siamo partiti — che l’autonomia non è semplicemente principio ideale né tantomeno premessa ideologica, ma condizione cogente, «ragione sociale» dell’associazione sindacale in rapporto alle persone che vi aderiscono. Perché l’autonomia del sindacato «nasce dalla sua rappresentanza specifica dei lavoratori dipendenti, che richiede la ricerca di un difficile equilibrio tra la tutela dei loro interessi e un’idea di società giusta. Ciò significa che il sindacato deve rispondere giorno per giorno dei risultati che ottiene, evitando di scivolare nel corporativismo, ma sapendo che non può permettersi di rinviare la verifica del proprio consenso ai tempi lunghi della trasformazione sociale e politica». Insomma, il sindacato davvero è «terra di mezzo».
1 G. Caprioli, Il sindacato è una terra di mezzo. Pensieri sparsi sugli orizzonti del sindacalismo negli anni Duemila, Città aperta, Troina (En) 2006.
