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N. Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose, Il Mulino, Bologna 2006

Ci sono due eventi «normativi» simbolici che più di ogni altro possono ben rappresentare le due opzioni che si contendono il campo in materia di uguaglianza e diversità culturale. Il primo è la legge 228 del 2004 con la quale una maggioranza politica trasversale ha votato in Francia la cosiddetta legge «contro il velo», con il compito di contrastare l’irruzione dei simboli religiosi nei luoghi dell’educazione: può agevolmente essere assunta come il segnale di una società laica che fatica a modellarsi sul multiculturalismo e che pone come condizione della propria sopravvivenza la salvaguardia di uno spazio pubblico assolutamente neutrale, ricacciando nel privato quei gesti o segni che bussano insistentemente alle porte del pubblico. All’estremo opposto è il Road Traffic Act britannico, che riconosce al sikh, in quanto vincolato dalla propria appartenenza religiosa (o culturale ?) ad indossare il turbante, il diritto di viaggiare in moto portando il simpatico copricapo invece del casco, in deroga alle regole generali sulla sicurezza stradale; simbolo di una politica di uguaglianza basata non sull’omologazione, ma sulla differenza di trattamento e su un multiculturalismo che riconosce alle comunità la decisione sulle materie che esse ritengono essenziali per la conservazione della propria identità.
E’ tra queste due soluzione estreme — entrambe ragionevoli e entrambe insufficienti – che si gioca la partita tra eguaglianza e identità. Il libro di Nicola Colaianni1 è una appassionante e rigoroso viaggio alla ricerca del punto di equilibrio tra i due, compiuto utilizzando una chiave di lettura squisitamente (ma non esclusivamente) giuridica, nella consapevolezza che il compito di regolatore della partita spetta, in primo luogo, proprio al diritto.
Il punto di partenza dal quale muove la ricerca è un dato di fatto ormai noto: la spinta delle identità ad occupare lo spazio pubblico alla ricerca di una visibilità, di un riconoscimento e magari anche un sostegno è ormai inarrestabile. Spinta resa ancor più ingovernabile dalla confusione e sovrapposizione tra piano religioso e piano culturale: «I luoghi di culto vuotati dalla secolarizzazione spingono le religioni a cercare posto nei luoghi pubblici e ad accentuare, piuttosto che la credenza, l’appartenenza». E così accade, ad esempio, che la rivendicazione delle radici cristiane dell’Europa si colloca più nel campo culturale che religioso e non a caso viene portata avanti congiuntamente, se non prevalentemente, da una variegata costellazione teo–con che reinterpreta i valori cristiani in chiave meramente culturale; mentre all’opposto differenze squisitamente religiose vengono ammantate — per malintesa timidezza — in differenze culturali.
Di fronte a questo groviglio è fin troppo facile concludere sbrigativamente per la ingovernabilità delle spinte identitarie. In realtà molto può invece essere fatto in questo senso, a condizione però che si rinnovi il vecchio armamentario con il quale questi temi sono stati in passato affrontati: quello cioè costituito dalle parole d’ordine «uguaglianza» e «laicità». La prima è infatti del tutto insufficiente se resta ancorata al vecchio canone dell’eguaglianza formale che si risolve in una disuguaglianza di fatto perchè non tiene conto delle differenze: una nozione ormai in via di superamento anche nel diritto positivo, come risulta dalla stessa Costituzione Europea che, collocando la norma sul rispetto delle diversità culturali e religiose proprio nel titolo relativo alla uguaglianza, ha reso evidente che uguaglianza deve significare anche rispetto della diversità. La seconda invece, la laicità, costituisce ancora — per l’autore — «l’idea guida con cui governare le differenze culturali», ma a condizione che non venga intesa come mera neutralità, ma come norma di riconoscimento reciproco.
Solo questa «laicità ospitale» — che è poi la stessa che avevano in mente i padri Costituenti — è in grado di porre le due precondizioni individuate da Colaianni per lo sviluppo pacifico del confronto tra eguaglianza e diversità: la prima è la salvaguardia di uno spazio pubblico discreto (non esorbitante, ma neppure irrisorio) contro l’invasione di alcune formazioni sociali «identitarie», specie di quelle maggioritarie, ma anche di quelle minoritarie che sgomitando pretendono talvolta di occuparlo in misura privilegiata; e la seconda è quella della salvaguardia dei diritti della personalità, affinchè non accada che, nella corsa all’identità, i diritti del singolo finiscano per essere «diritti derivati», dei quali il singolo può godere solo in via riflessa, in virtù della propria appartenenza al gruppo. Create queste precondizioni, la dialettica uguaglianza/diversità può cercare di trovare il suo pacifico corso nei vari ambiti della società, che il libro meticolosamente indaga (scuola, famiglia, costumi…).
La proposta che sortisce alla fine del viaggio è quantomai affascinante: fare come i primi cristiani che, ben consapevoli delle ire del Maestro contro i pesi insopportabili imposti dai dottori della legge, decidono di partire prendendo con sé il minimo indispensabile e di non imporre nessun peso più del necessario: «La lezione sta nella leggerezza come valore». E perché non vi siano dubbi che quando si parla di leggerezza non si parla di vuoto (vuota è semmai la laicità-neutralità, di cui si è appena detto) la figura che viene indicata come «icona della leggerezza» è il Nicodemo del Vangelo di Giovanni: il quale di tutto può essere accusato, fuorché di superficialità.
Nicodemo viene in gioco in almeno due vicende evangeliche. In primo luogo in quella del colloquio notturno con Gesù, che avviene — ricorda l’autore — in un clima di inasprimento dei conflitti tra identità collettive del tutto simile a quello che stiamo vivendo oggi. Nel colloquio, Nicodemo si mette in posizione di ascolto dell’identità dell’altro, senza per questo dissimulare se stesso e la propria identità ed anzi arricchendosi dal confronto; per giungere, tra l’altro, ad ammettere che “i fatti”, esaminati senza gli occhi della propria precomprensione possono condurre, magari per altre vie, alle medesime conclusione del proprio interlocutore («nessuno può fare questi miracoli che tu fai, se Dio non è con lui», Gv 3,2). Ed è icona anche quando interviene — nell’ambito del suo gruppo di appartenenza — in pacata difesa di Gesù, perché il rispetto dell’altro lo spinge fino al punto di mettere a rischio le ragioni della propria parte, affinché siano rispettati i diritti fondamentali dell’individuo, come quello, diremmo oggi, ad un «giusto processo» («La nostra legge giudica forse un uomo prima che sia stato udito e che si sappia quello che ha fatto?», Gv 7, 51).
Ecco dunque un buon suggerimento: fondare il partito dei Nicodemi, di coloro che alleggeriti da inutili fardelli — non nudi, ma leggeri: un solo paio di sandali e un solo mantello — partono per la grande traversata della società multiculturale e multireligiosa, con la certezza di trovarsi alla fine, non depredati dell’unico mantello, ma ben più ricchi di come sono partiti. Ma chissà se i nostrani tutori dell’identità vorranno iscriversi.

1  N. Colaianni, Eguaglianza e diversità culturali e religiose. Un percorso costituzionale, Il Mulino, Bologna 2006.