Appunti 6_2002
Sommario
Partiti, alleanze, progetti: per la qualità della democrazia Abbiamo davanti a noi, oggi, due questioni distinte: la preoccupazione per il futuro della coalizione di centrosinistra e la preoccupazione per la qualità democratica della vita politica nell’Italia di domani. L’ipotesi di fondo è che queste due preoccupazione abbiano qualcosa in comune; e che esista una possibilità operativa che, in certa misura, risponda ad entrambe. Certo occorre anche considerare lo scenario europeo e mondiale; ma si può cominciare col soffermarsi sulla situazione italiana, che conserva alcune peculiarità, in trasformazione. A sua volta, e ciò è anche più grave, in tutto il paese si indebolisce il gusto per la partecipazione, la cultura politica, il senso della legalità e del bene comune, il gusto per i valori democratici e sociali. Diventano sempre più rari i luoghi ove si impara a praticare la politica in nome di idee generali e non immediatamente egoistiche; la scomparsa delle “scuole di politica”, che pur nascevano con una incerta finalità di supplenza, è significativa. Le persone vengono scelte e candidate non per quello che potranno apportare alle istituzioni nello spirito della Costituzione, ma per il “peso” che hanno nel confuso soggetto che sta dietro i simboli elettorali e poi per i consensi che apportano “in proprio” allo schieramento, nei confronti del quale resteranno creditori. Manca quasi del tutto un’informazione libera e un dibattito appassionato.
Angelo Bertani Toggle title
La coalizione di centrosinistra è evidentemente vittima di una crisi di identità e di progetto; non dispone di una leadership riconosciuta; è indebolita dalla litigiosità di una quantità di aspiranti leader che affollano il vertice mentre è assai carente nelle strutture di base. Vi è un grande spaesamento nei simpatizzanti e militanti, che si sentono abbandonati, privi di strumenti di comunicazione e di incontro, schiacciati dalla macchina mediatica del sistema televisivo pubblico e privato congiunti, emarginati dalla cultura dominante, quasi del tutto privi di punti di riferimento anche nei soggetti sociali che un tempo offrivano idee, personale e accreditamento culturale ed etico (sindacati, associazionismo cattolico, volontariato, periodici e riviste…). Anziché far proprie in un equilibrio propositivo le pur diverse ragioni degli uni e degli altri, il centrosinistra sembra patire il danno sia di qualche apparente tentazione estremista (qualche area dei Social forum) sia di un apparente ripiegamento neoconservatore (tipo “il Riformista”).
La qualità democratica della vita politica
Democrazia non significa molto se non è fondata su un’informazione corretta, una cultura che consideri gli interessi legittimi nel quadro del bene comune, un consenso leale e un controllo quotidiano (non solo alle scadenze elettorali) dell’operato dei governanti. Che qualità democratica c’è in un sistema in cui vota la minoranza dei cittadini, in cui c’è la scelta tra un paio di programmi (e persone) assai simili e il cui esito finale è deciso da un paio di trasmissioni televisive oltre che, eventualmente da brogli elettorali e giudizi approssimativi?
Non vorrei che noi si fosse portati a sottovalutare i limiti effettuali di questa nostra democrazia e la delusione che serpeggia nella società. Citerò Turoldo, con la sua potenza evocatrice. Certo non offre una ricetta, ma obbliga a riflettere, anche perché non è il solo a pensare così. Ricorderò che Franco Salvi – una figura “alta” della politica italiana dalla Resistenza alla tragedia di Moro – la cui presenza nella vita politica italiana fu molto più importante delle apparenze, confessava anche lui, prima di morire, una tremenda delusione . Ricordando “il quarantesimo anniversario di quella che avrebbe dovuto essere la liberazione d’Italia dal fascismo e dal nazismo; e da ogni violenza e umiliazione e miseria”, Turoldo richiamava il suo impegno nella Resistenza, gli amici morti e quelli sopravvissuti; e aggiungeva: “Sì, in molti avevamo lottato e sperato insieme. Sperato in che cosa? In simili risultati? No! Ed è inutile che mi attardi a dire le ragioni di questa profonda delusione. Lo sanno gli anziani, i sopravvissuti, se appena ne hanno conservato un’illuminata memoria. Lo possono sapere anche i giovani, se appena ne vogliano prendere coscienza (basterebbe che leggessero, o rileggessero, le lettere dei condannati a morte)…E allora da chi e che cosa ci siamo liberati? Sono stati veramente vinti e sepolti in mare cavalli e cavalieri del faraone? No. Perché il faraone non è stato vinto. Perché ne sono succeduti altri, altrettanto oppressori e schiavisti. Perché non avrei mai immaginato, dopo tante speranze, che ci saremmo ritrovati in queste condizioni…” .
Anziché progetto e impegno per guidare la società verso la realizzazione di condizioni tali da favorire il libero dispiegarsi di ogni persona umana (“di tutto l’uomo e di tutti gli uomini”), la politica rischia di ridursi ad essere l’amministrazione degli interessi prevalenti (o considerati tali da chi conquista il potere, eventualmente anche gli strumenti di una informazione fraudolenta). Da qui può nascere un itinerario che quasi insensibilmente può portare allo svuotamento della democrazia, all’indifferenza per la politica oppure al dissenso violento. Scriveva Andrea Trebeschi, nel 1943, due anni prima di morire a Gusen di Mauthausen: “Se oggi la tragedia sembra inghiottirci, si deve alla malvagità di alcuni, ma soprattutto all’indifferenza e all’opportunismo della maggioranza. Il “credo” di troppa gente non ebbe fin qui che due articoli: – non vi è più nulla da fare – tutto quel che si fa non serve a nulla. Quel che importa è che ognuno, secondo le proprie possibilità e facoltà, contribuisca di persona alle molte iniziative di bene, spirituale, intellettuale, morale. Un mondo nuovo si elabora. Che sia migliore o ancor peggio, dipende da noi” .
La crisi della politica: cause e scenari
È abbastanza evidente che il rischio è di fermarsi ad una lamentela moralistica, sebbene motivata. È tuttavia possibile che esista un dato oggettivo, “strutturale”, che ha reso più facile l’involuzione cui assistiamo; e che indica, per converso, una ipotesi forse percorribile. In sintesi si tratta di riflettere sul fatto che pur in mezzo a tanti cambiamenti e soprattutto a seguito del mutamento del sistema elettorale i soggetti politici ed elettorali non sono cambiati, soprattutto nell’area del centrosinistra. O meglio, sono cambiati, ma per degrado, non per progetto. Dunque: nuovo sistema elettorale (e in qualche misura istituzionale e costituzionale) chiede soggetti politici nuovi. Come? Quali?
Partiamo da una riflessione di Dossetti, mi pare del 1993: “Viviamo in una crisi epocale. Credo che non siamo ancora al fondo, neppure alla metà di questa crisi. Noi siamo come alla fine di una terza guerra mondiale, che non è stata combattuta, ma che pure c’è stata in questi decenni. Che è in qualche modo finita, con vinti e vincitori, o con coloro che si credono vinti e altri che si credono vincitori. La pace, o un punto di equilibrio, non è ancora stata trovata, in questo crollo complessivo. Si pensi a che cosa è accaduto della Russia. Ma la democrazia americana, anche se ha vinto, non può proporre niente e sino ad oggi non ha proposto niente. Il rimescolio dei popoli, delle culture, delle situazioni è molto più complesso di quello che non fosse nel 1918. È totale. E in più c’è la grande incognita dell’Islam. E noi non abbiamo strumenti intellettuali per interpretare adeguatamente tutto ciò. Siamo dinanzi all’esaurimento delle culture. Non vedo nascere un pensiero nuovo né da parte laica né da parte cristiana. Siamo tutti immobili, fissi su un presente che si cerca di rabberciare in qualche maniera, ma non con il senso della profondità dei mutamenti. Non è catastrofica, questa visione; è realistica; non è pessimistica perché io so che le sorti di tutti sono nelle mani di Dio. La speranza non viene meno. L’unico grido che vorrei far sentire oggi è il grido di chi dice: aspettatevi delle sorprese ancor più grosse e globali, attrezzatevi per dei rimescolamenti più radicali. Non cercate nella nostra generazione una risposta, noi siamo veramente solo dei sopravvissuti” .
Naturalmente sarebbe necessario anzitutto approfondire le caratteristiche del mutamento sociopolitico avvenuto lungo gli anni Ottanta e nei primi Novanta in Italia; la rivoluzione dei rapporti sul piano internazionale; le trasformazioni relative alla religione e alla morale; il nuovo sistema culturale e della comunicazione; e il nuovo sistema elettorale-istituzionale. Tutto ciò è stato oggetto di studi, ma non di un confronto serrato e di un dibattito conclusivo. Per cui spesso, in campo politico, si pongono conclusioni di ragionamenti non fatti o comunque non condivisi, il che provoca incomprensione e immobilità.
Converrà creare sedi che consentano un reale approfondimento degli ambiti sopra citati, ma è certo che le trasformazioni citate e, immediatamente, la riforma elettorale hanno radicalmente trasformato i modi e le possibilità della partecipazione politica, che è la chiave, se non l’essenza, della democrazia. Si è detto che doveva essere sottolineato il potere del cittadino come arbitro; si è trattato della riscoperta di un punto fondamentale, ma non esaustivo. E si è concluso che per essere arbitro fra due schieramenti il cittadino dovesse esprimere il suo voto, con regole maggioritarie, tipicamente tra due schieramenti in alternanza.
Ma ci sono due questioni da risolvere: che l’alternanza mantenga un alto grado di praticabilità (non ci sia occupazione del potere e degli strumenti di sua riproduzione, vedi mass media, clientelismo, trasparenza dei conti, cultura civile, alta percentuale di votanti) e che la partecipazione politica dei cittadini non si esaurisca nel momento elettorale, ma ci sia spazio per un’analisi e una presenza critica continue e libere in modo che il cittadino non sia solo arbitro, ma anche giocatore: dibatta, critichi, partecipi alla vita pubblica in partiti e movimenti partecipanti o no, poi, alla competizione elettorale .
Partecipazione e alleanze: soggetti politici e soggetti elettorali
Nel nostro Paese vi era una tradizione di forte appartenenza e partecipazione, che forse non consentiva ai cittadini di essere buoni arbitri in quanto molto coinvolti (emotivamente, ideologicamente) nel gioco. E tuttavia se si perdesse definitivamente quella peculiarità, si finirebbe facilmente in un sistema che delega la politica ad una ristretta classe di addetti, che vedrebbe una crescente omologazione tra gli schieramenti competitori, una partecipazione sempre minore alle elezioni e soprattutto un grande calo della cultura, della creatività e dell’ethos politici a livello generale, di popolo. Inoltre la necessità di schieramenti che rispondano ad un sistema bipolare e maggioritario ha portato i soggetti politici ad accorparsi in modo confuso e opportunistico. Per conservare il patrimonio di una partecipazione politica alta e continuativa e per aggiungervi senza danno gli strumenti per una governabilità adeguata alle esigenze attuali di una democrazia è necessario immaginare un sistema politico in cui esistano soggetti che offrano al cittadino occasioni per essere arbitro ed altri che gli consentono di essere giocatore. Naturalmente occorre che i due ordini di soggetti non siano scoordinati o conflittuali, ma servano la convergente finalità della democrazia partecipata con ruoli distinti e connessi.
Chiameremo soggetti (A) quelli che sono chiamati, nella miglior tradizione dei partiti e dei movimenti civili, ad essere strumento di partecipazione quotidiana e scuole di cultura politica; e soggetti (B) quelli che rappresentano le alleanze e danno vita a stabili maggioranze e minoranze di governo e di amministrazioni locali. I soggetti politici (A) (partiti, movimenti, aggregazioni di opinione e di ricerca), portatori di un’etica di progetto, di una tesi, non un’ipotesi; liberi di rivendicarla, elaborarla, farne scuola per una nuova classe dirigente da offrire alle istituzioni. È la società politica, non solo prepolitica, la comunità civile; non privata né ispirata ad una cultura individualistica. È ciò che, in una giusta visione della sussidiarietà, va riconosciuto, valorizzato, non strumentalizzato. In questo senso, poiché svolgono attraverso sedi, incontri, presenza civile, mezzi di comunicazione, un’azione necessaria alla qualità della vita civile, devono esser riconosciuti e disporre di strumenti e mezzi adeguati, pur in un quadro di sostanziale volontariato di carattere privato-sociale.
Questi soggetti, se vogliono, entrano a far parte di una alleanza elettorale, le offrono idee, credito sociale e personale (che “passa” al nuovo soggetto, se vuole; o comunque ne assume le nuove, stringenti, obbligazioni). Tra loro i partiti veri e propri, pur caratterizzati da una struttura assai più “leggera” che in passato, svolgono un ruolo particolare. Da un lato essi rappresentano una vera e propria cultura politica, collaudata da una tradizione (una ideologia nel senso alto della parola); dall’altro hanno regole democratiche dentro le quali meglio si forma e sperimenta una classe politica, e presentano una identità relativamente stabile.
Ma anche gli altri soggetti del tipo A non sono semplicemente aggregazioni sociali spontanee perché debbono esser democratici, avere struttura trasparente e riconoscibile; e possono/devono avere un contributo anche economico dalle istituzioni. Se, per esempio, ai candidati eletti delle alleanze o meglio ai loro gruppi, unitari, può esser dato un contributo “in conto elettorale”, ai soggetti che educano alla politica, pensano, tengono i rapporti con la società – rapporti conflittuali o collaborativi – vanno offerti contributi (o disponibilità di strumenti e servizi) in rapporto alla loro utilità sociale, consentendo loro ad esempio di dar vita a scuole, periodici, convegni, mezzi di comunicazione ecc. (attraverso o al di fuori dell’alleanza cui partecipano).
Sarà poi interessante esaminare se e come questi soggetti A (partiti o movimenti o sindacati) si delineeranno secondo i profili tradizionali (esempio: partito popolare o democratico cristiano o Pds o Pli o Cisl…) o secondo le forme di nuove aggregazioni composite (Margherita) o viceversa di realtà ancor più identitarie (cattolici-democratici, ad esempio Città dell’uomo o Agire politicamente). L’importante è che tutto ciò venga deciso avendo riguardo alla efficacia del ruolo da svolgere nella società e non alla necessità, ad esempio, di creare un gruppo parlamentare numeroso; o per superare una percentuale di sbarramento elettorale. Tutto ciò non avrebbe più ragion d’essere, essendo questo problema delle alleanze, non dei partiti.
I soggetti elettorali (B): alleanze ovviamente composite, formate dai partiti ed eventualmente da movimenti e aggregazioni riunite da un programma, leadership e personale dedicato ed identificato per la sua appartenenza all’alleanza, indipendentemente dalle aggregazioni di origine, responsabile del “governo” o dell’opposizione, nelle amministrazioni locali o nazionali. Costituite da partiti, movimenti ed altre realtà politiche di base, le alleanze si presentano alle consultazioni elettorali con il loro programma, che rappresenta il progetto non “di tesi”, ma “di ipotesi” sul quale le forze che le compongono si sono accordate di opere qui ed oggi. Ciò non esclude che ciascuno conservi la sua identità e i diritti della sua coscienza e della sua visione di lungo periodo; ma c’è un impegno esplicito a lavorare concordemente sulle linee del programma comune sia in caso di vittoria (e dunque di governo) che di sconfitta elettorale (e dunque di opposizione). La garanzia di questa stabilità è offerta dal fatto che l’alleanza, come si presenta unitariamente agli elettori (avendo scelto i candidati non sulla base di una “lottizzazione” ma con un criterio unitario e unitivo: del candidato che risponde ad un profilo essenziale ed ha maggiori probabilità di vincere nel collegio sulla base di una consultazione unitaria degli aderenti alle componenti dell’alleanza e di un sondaggio razionalmente applicato in tutte le situazioni), così compone un unitario gruppo parlamentare, con regole unitarie rigorose. Il personale politico della alleanza dev’essere distinto (anche se ne proveniva) da quello dei partiti e altri soggetti politici del tipo (A).
La strada maestra del pluralismo democratico
Oltre a togliere questo equivoco che crea già oggi problemi, e ad attribuire i diversi compiti della politica a soggetti in grado di adempierli, la diversificazione dei soggetti qui indicata avrebbe in sintesi varie altre conseguenze positive. Consentirebbe di realizzare con soggetti distinti e adatti sia la conservazione ed aggiornamento del patrimonio culturale e ideale di ogni tradizione politica (la “progettualità di tesi” dei soggetti (A) senza obbligare a trucchi o incoerenze o involuzioni per spiegare perché si abbia un certo ideale, ma poi una pratica non sempre coerente; sia la costruzione di un programma “di ipotesi”, quello realizzabile hic et nunc, concordato con altri che hanno punti di vista comuni e altri difformi e con i quali si è realizzata una mediazione leale e pubblica, che i cittadini sono chiamati a valutare allo scopo di costruire una maggioranza che realizzi il bene comune concretamente possibile.
Ciò eviterebbe anche tante improprie conflittualità e invasioni di campo (ad esempio tra partiti-governo-parlamento), gelosie e reazioni difensive, potrebbe rendere impossibili i cambiamenti di schieramento durante le legislature e perciò migliorerebbe la governabilità, sottraendo anche l’esecutivo dal ricatto costante delle componenti della sua maggioranza. Contemporaneamente renderebbe possibile, libera e forte la verifica e la critica circa la realizzazione del programma dell’alleanza vincente sia da parte dell’opposizione in parlamento (attraverso il soggetto di tipo (B) sia, nella società, da parte di tutti i soggetti di tipo (A) (facenti capo sia all’opposizione che alla maggioranza, su tutti i punti in cui si ritengono in dissenso). La distanza e libertà dalla diretta azione di governo – e il fatto di essere guidati da dirigenti e quadri distinti da quelli che hanno ricevuto il mandato elettorale perché hanno accettato il “programma di ipotesi” (di alleanza), anche magari mettendo tra parentesi alcuni punti del proprio “progetto di tesi” (di partito, gruppo…) – consentirebbe anche ai soggetti (A) grande libertà e impegno di elaborazione culturale e politica; e grande efficacia nella formazione, selezione e rinnovamento di una classe dirigente legata alla società e non cooptata dai vertici. E ancora: la maggiore contiguità e il più libero rapporto tra partiti e movimenti (tutti all’interno della tipologia di soggetti (A) potrebbe evitare le sterili polemiche cui abbiamo assistito e favorire il dialogo politica-società e la immissione nella politica vera e propria di esperienze di cultura, volontariato, associazionismo che da molti anni vengono escluse. Questo punto è di particolare importanza per il cattolicesimo democratico, dalla morte di Moro escluso dalla realtà politica italiana oppure cooptato in un ruolo talora decorativo e strumentale.
Conviene ritornare al pensiero di Dossetti sopra ricordato: per recuperare il senso e il valore della ispirazione cristiana nella politica – e di ogni altra grande ispirazione culturale e morale – il problema è di ricominciare dalla coscienza delle persone, specialmente dei giovani, e dalla rifondazione di una cultura come interpretazione del reale. Strumento necessario per un tale ri-cominciamento non può essere altro che un “partito” che unisca la libertà del pensiero con il radicamento nella società e nella prassi quotidiana, senza tuttavia esserne dominato.
Tutto ciò nello spirito indicato da Aldo Moro nell’articolo pubblicato su “Il Giorno” per la Pasqua 1977, l’ultima che visse da uomo libero: “Non è importante che pensiamo le stesse cose, che immaginiamo e speriamo lo stesso identico destino; ma è invece straordinariamente importante che, ferma la fede di ciascuno nel proprio originale contributo per la salvezza dell’uomo e del mondo, tutti abbiano il proprio libero respiro, tutti il proprio spazio intangibile, nel quale vivere la propria esperienza di rinnovamento e di verità, tutti collegati l’uno all’altro nella comune accettazione di essenziali ragioni di libertà, di rispetto e di dialogo. La pace civile corrisponde puntualmente a questa grande vicenda del libero progresso umano, nella quale rispetto e riconoscimento emergono spontanei, mentre si lavora, ciascuno a proprio modo, ad escludere cose mediocri per fare posto a cose grandi” .
La sentenza Andreotti: oltre il turbamento
Guido Formigoni
Pace e guerra: meditando sulla lezione di La Pira
Pierluigi Mele
Focus: Povertà, disuguaglianze e politiche redistributive in Italia
Parti Eguali tra diseguali Pubblichiamo di seguito gli interventi svolti a Milano, l’11 novembre scorso, all’incontro organizzato da Città dell’uomo con le Acli milanesi, per la presentazione del recente libro di Ermanno Gorrieri, Parti uguali fra disuguali. Povertà, disuguaglianza e politiche redistributive nell’Italia di oggi, Il Mulino, Bologna 2002. Sui contenuti del libro, si può vedere anche la recensione di Rosario Iaccarino, pubblicata sull’ultimo numero di “Appunti”. L’incontro è stato molto partecipato e ricco. Testimonianza ancora una volta che quando si mettono in campo questioni serie, con un approccio al tempo stesso sanamente “radicale” e responsabilmente “riformista”, la risposta di interesse e attenzione è elevata. Il libro di Ermanno Gorrieri è una straordinaria occasione di ripensamento per la politica attuale e il programma del centro-sinistra. Da studioso atipico, non accademico, che fugge le luci dei riflettori ma che si è speso in modo intelligente, da una vita, attorno a questi problemi, con una solida impostazione concettuale ed etico-politica, Gorrieri ha delineato con serietà un appello forte alla politica. Speriamo non sia ancora una volta lasciato cadere da chi ha responsabilità. Gli interventi mantengono la forma colloquiale dell’evento e non sono stati rivisti dagli autori. Istruzione e ricerca alla base della ridistribuzione Dico subito, non in forma rituale, che il libro mi è piaciuto molto e che moltissime delle cose che ha scritto Ermanno Gorrieri sono condivisibili. Anche dove, con moltissimo garbo come lui ha sempre fatto, tira la giacca al sindacato. Vorrei tuttavia soffermarmi su alcuni degli argomenti che Gorrieri sostiene nel libro.
Enrico Letta, Sergio Cofferati, Michele Salvati, Ermanno Gorrieri Toggle title
Enrico Letta
Il libro di Ermanno Gorrieri è al contempo riformista e radicale: il modo migliore per spazzare dal campo un’insopportabile e datata dialettica tra massimalismo e riformismo. La sua lettura mi è stata utilissima. In queste settimane non proprio esaltanti della politica italiana, è stata una bolla di ossigeno, a partire dalla premessa, di cui condivido l’impianto e soprattutto l’obiettivo. Alcune mie valutazioni non sono completamente collimanti con l’analisi di Gorrieri, che però considero un grandissimo contributo per l’Ulivo. Ritengo che questo lavoro sia una buona occasione per cogliere alcuni stimoli e cercare di tradurli in pratica, specie in un momento così sterile dalla nostra vita politica. Ovviamente cercherò di essere sintetico e di andare per titoli.
La diseguaglianza non decresce: anzi, cresce
Questo vuol dire che se l’Ulivo non ha l’aspirazione al riequilibrio delle diseguaglianze, non considera tale obiettivo come prioritario del suo programma e del suo progetto di Italia per il futuro, allora l’Ulivo non ha ragione di esistere. Coloro che pensano che mantenere le diseguaglianze non sia un problema, non voteranno mai per l’Ulivo, voteranno comunque e sempre per Berlusconi o per uno come Berlusconi. Mi interessano e mi preoccupano, viceversa, coloro che hanno votato Berlusconi e che vorrebbero allo stesso tempo una politica di contrasto alla disuguaglianza. Qui sta il nostro problema più grosso, il non aver colto che nel paese c’è stata una frammentazione del consenso e delle appartenenze che ha portato molto elettorato a dare un voto che ragionevolmente dovrebbe essere destinato a una politica interpretata dall’Ulivo e che invece è stato espresso in favore della proposta di Berlusconi.
Nel porre l’obiettivo di riequilibrio delle diseguaglianze al centro del programma dell’Ulivo, dobbiamo aver chiaro che ciò non è alternativo, non deve essere alternativo a una politica di stimolo alla crescita e alla competitività del sistema. Se fosse alternativo a una politica di crescita e di competitività del sistema, noi non saremmo più in condizione, a mio avviso, nemmeno di portare fino in fondo un obiettivo di ridistribuzione. Con le attuali risorse e con l’attuale stato sociale non si ridistribuisce niente, perché per ridistribuire qualcosa, con l’attuale stato sociale, bisognerebbe aumentare le tasse. Questa potrebbe anche essere una strada, ma io immagino se ne possa perseguire un’altra che veda una politica di sviluppo del paese con all’interno e come obiettivo finale degli elementi fortemente ridistributivi. Non sono d’accordo con le logiche dei due tempi che distinguono il momento della crescita e dello sviluppo da quello della ridistribuzione. Tutti coloro che fanno il ragionamento cosiddetto della “torta” (prima facciamo una torta grande e poi la dividiamo meglio) normalmente hanno un retropensiero: la torta la faccio io, sono io che la divido con gli altri.
La logica invece deve essere proprio quella di unire profondamente questi due concetti, sviluppo e ridistribuzione, e far sì che la crescita contenga quei correttori che la facciano diventare elemento di uguaglianza sociale. E allora che cosa vuol dire – rispetto a molte delle analisi e delle proposte di Ermanno Gorrieri – che cosa vuol dire che la crescita deve essere sana, che deve essere riequilibratrice? Rispondo con un’espressione che mi piace molto: “comunità competitiva”. Dobbiamo lavorare perché il nostro Paese e le nostre realtà locali diventino delle comunità che vivono l’obiettivo della competitività e che considerano questi due concetti non alternativi, ma l’uno condizione dell’altro. Il valore comunitario come condizione di competitività, perché senza competitività non si riesce a creare neanche una condizione di ridistribuzione.
Che cosa vuol dire in concreto, che cosa vuol dire guardando all’esperienza del passato e che cosa può voler dire per un Ulivo che si candida a governare il paese nei prossimi anni? Vuol dire che innanzitutto che la crescita deve essere sana. Qui c’è uno dei passaggi su cui mi piacerebbe dialogare con Ermanno Gorrieri, perché ho trovato nell’analisi degli anni trascorsi un po’ di sottovalutazione del peso che hanno avuto per l’Italia il risanamento e l’ingresso nell’euro. Sono aspetti assolutamente poco popolari e magari poco interessanti, forse sono dati per scontati, tuttavia li voglio inserire proprio in questa logica di “crescita sana”. Che cosa significa “crescita sana”, crescita riequilibratice al suo interno? Una crescita che crea inflazione, che aumenta il peso del debito pubblico, che crea alti tassi di interesse è una crescita che ha in se stessa i germi della diseguaglianza. Possono registrarsi cifre di sviluppo molto elevate, ma se le conseguenze sono queste, allora si tratta di una crescita che genera diseguaglianza. Una “crescita sana” è una crescita che non comporta debiti e che anzi ci riporta all’equilibrio di bilancio, che tiene bassa l’inflazione e i tassi di interesse; è una crescita fatta di correttezza di rapporti tra contribuente e fisco. Questi sono fattori imprescindibili perché si possa parlare di crescita capace di riequilibrare i rapporti.
Porto degli esempi molto banali. L’Italia sette anni fa aveva dei tassi di interesse per i quali chi aveva necessità di acquistare un’abitazione doveva accendere un mutuo al 12-13%. Oggi invece siamo al 5-6%. Inflazione bassa e bassi tassi di interesse hanno che fare con le spinte al riequilibrio; viceversa inflazione alta e alti tassi creano diseguaglianza tra le persone. Quando parlo di deficit e di debito pubblico dico esattamente la stessa cosa. Sottolineo il fatto che una politica quale quella dei decenni scorsi ha risolto una serie di problemi immediati, pure a beneficio di tante categorie sociali, attingendo alle risorse per gli anni a venire. Una tale politica l’abbiamo poi scontata con sacrifici che, in quanto tali, finiscono sempre per essere iniqui nella loro applicazione.
Allora a me sembra che questo sia un primo punto essenziale. L’euro che cosa c’entra? L’euro ci ha costretti e ci costringe a una crescita sana, non drogata, non inflazionistica, capace di porre condizioni di riequilibrio. Troppe volte lasciamo sullo sfondo questo aspetto e vediamo l’euro solo come una costruzione monetaria, finanziaria, dei banchieri. Se non ci fosse stato l’euro, noi non avremmo mai perseguito le politiche di rientro dal debito pubblico. Le politiche “allegre” del passato ci hanno fatto portare in dote all’Europa metà dell’intero debito pubblico che grava sulle spalle dei dodici Paesi dell’euro. Lo ricordo perché ho l’impressione che questa sia la condizione di base per ragionare di qualsiasi politica ridistributiva. E gli obiettivi raggiunti negli anni scorsi non sono semplicemente da assumere come elementi che hanno limitato le risorse per le politiche sociali o per atti ridistributivi, ma che hanno fatto la “pulizia” necessaria per creare condizioni di crescita con elementi di ridistribuzione.
Oggi peraltro rischiamo di buttare via tutto. Dopo otto anni di discesa continua del debito pubblico, ci ritroviamo quest’anno, probabilmente, con la curva in risalita, perché le politiche del governo Berlusconi non hanno l’interesse prioritario ad affrontare il tema del debito, del deficit, dell’inflazione, in quanto quegli obiettivi, per chi non si preoccupa dell’aspetto ridistributivo, sono secondari.
Per una crescita sana
La discussione grottesca che l’Italia sta vivendo in queste ore sul rapporto tra Nord e Sud dimostra come su questi punti non soltanto siamo lontani dalle ricette che Gorrieri ci suggerisce, ma siamo lontani da una consapevolezza che sarebbe fondamentale: la consapevolezza che quando parliamo di obiettivo di riduzione delle diseguaglianze non parliamo soltanto di diseguaglianze di redditi, ma di diseguaglianze che hanno che fare con aspetti territoriali, che sono drammaticamente ancora attuali e lo sono sempre di più se consideriamo i tanti aspetti legati ai fenomeni della globalizzazione, della concorrenza di altri mercati, ecc..
Siamo di fronte a un governo diviso nella sua stessa ragion d’essere. Un governo che non ha una logica coesiva, che non considera l’Italia una comunità che va governata, con tutto ciò che il termine “comunità” implica. Siamo di fronte a un governo che ha puntato a dividere le parti sociali, i territori; un governo che considera la rottura della coesione un obiettivo. Io credo che in questo aspetto coesivo e comunitario, in una logica Nord-Sud, vi sia invece esattamente la ricetta per un progetto opposto e alternativo che come Ulivo dobbiamo mettere in campo.
Un terzo elemento costitutivo del concetto di crescita così come ho cercato di declinarlo finora, con all’interno gli elementi di sanità e di equilibrio, è quello legato al significato di liberalizzazione e di privatizzazione; un tema sul quale l’Ulivo ha qualcosa da dire, avendo alle spalle cinque anni di molte cose fatte. Il discrimine oggi a mio avviso non è più tra politiche pubbliche e politiche private, non è più tra Stato e mercato. Dobbiamo avventurarci su un terreno nuovo, che seleziona tra i settori dell’economia quelli che devono rimanere monopolio pubblico – alcuni beni naturali – e quelli nei quali invece è giusto che ci sia un’apertura al mercato. Deve emergere la distinzione tra chi vuole il mercato libero vero, la concorrenza vera, e chi invece si muove secondo logiche di monopolio e di oligopolio. Questa distinzione è netta tra centrodestra e centrosinistra, soprattutto tra il centrodestra di Berlusconi e l’Ulivo. Berlusconi ha una cultura monopolista e oligopolista, finalizzata al maggior vantaggio per pochi, grazie o a regole distorte o al superamento delle regole stesse. Dall’altra parte c’è invece chi crede nella necessità di regole vere. Basti considerare l’impegno di un uomo che viene dal nostro mondo, come Pippo Ranci, nel “bastonare” chi non accetta le regole, chi cerca vantaggi e privilegi nel campo delle tariffe elettriche.
Cito questi aspetti perché rappresentano un discrimine politico per il futuro. Pensiamo alla questione della televisione. Pensiamo a cosa vuol dire il fatto che questo governo ha in mano la possibilità di avvicinare o di ritardare l’avvento del digitale terrestre nel campo delle telecomunicazioni. Digitale terrestre che fa saltare il privilegio acquisito con la “legge Mammì” e con le vicende del passato che ancora oggi sono la base del potere non solo politico ma anche economico-finanziario. Tutti sappiamo che dietro c’è la raccolta pubblicitaria, che è la vera cassaforte dell’intero impero di Berlusconi. Per questo la Rai viene gestita nel modo che conosciamo, facendo scendere i ricavi pubblicitari, e si chiede ad amici compiacenti di tenere La7 in freezer, poiché questo consente un sostanziale monopolio della raccolta pubblicitaria. Si tratta di una grande battaglia di libertà che diventa elemento ridistribuivo, perché introduce una logica di rottura di monopoli e quindi di fine dei vantaggi a favore di pochi.
Elemento decisivo di ogni politica redistributiva è, a mio avviso, l’accesso all’istruzione, causa spesso dell’acuirsi delle diseguaglianze, soprattutto perché l’avanzare dell’innovazione tecnologica ha inserito nuovi fattori di discriminazione, favorendo ulteriori meccanismi di rottura generazionale e geografica. E allora è decisivo stabilire quante risorse destinare alla ricerca e all’istruzione pubblica. Devono esserci investimenti pubblici in ricerca, il che non vuol dire finanziamenti solamente agli enti pubblici, ma anche ai privati, attraverso una serie di politiche legate ad automatismi, a crediti di imposta, ecc.. Operazioni che erano state appena accennate alla fine della scorsa legislatura e che poi sono rimaste ferme.
A noi mancano strumenti che nel resto d’Europa costituiscono la vita concreta e normale di tanti giovani e di tante persone. Esiste in Italia una legge sul prestito d’onore in università, una legge molto semplice che dovrebbe essere posta in cima al progetto di governo dell’Ulivo per la prossima legislatura. Una legge che consente a chi non ha alle spalle una famiglia di pagarsi gli studi universitari, di accendere un prestito, ovviamente agevolato, che lo supporti nel conseguimento della qualificazione professionale e quindi successivamente anche di prendersi una serie di soddisfazioni.
Noi abbiamo vinto le elezioni del 1996 anche sul tema della scuola. È stato un grandissimo messaggio dato da Romano Prodi. Dopo di che in cinque anni di governo abbiamo dato risposte contraddittorie su questo fronte. Io sono convinto che il futuro del nostro Paese si gioca sul recupero di questo fortissimo gap. Una conferma ci viene in questi giorni dalla vicenda Fiat, che può essere letta sotto tante chiavi, una delle quali colpisce molto: negli anni ’90 la Fiat ha investito in ricerca solo un terzo di quanto hanno investito i concorrenti che oggi hanno in mano il mercato. Perciò la Fiat ha realizzato prodotti che sul mercato non hanno retto quelli della concorrenza.
Quali risorse?
Non ci si può limitare a invocare una crescita che ci consenta di avere possibilità ridistributive, dobbiamo anche dire dove si prendono le risorse per fare più ridistribuzione: dove si prendono le risorse per più assegni familiari, per più politiche a favore dell’istruzione. Nel nostro Paese occorre più spesa sociale e ce ne vorrà sempre di più, perché cambia la demografia, cambia il modo di essere della nostra società, aumentano gli anziani e aumentano quindi i bisogni di spesa sociale. La spesa sociale sta cambiando anche negli altri Paesi europei e negli Stati Uniti. In Italia è più bassa della media europea. Il problema è che non possiamo più permetterci che questa spesa sociale abbia al suo interno una configurazione nella quale è sovradimensionata la parte pensionistica. Abbiamo un welfare legato all’Italia di trent’anni fa, nella quale la famiglia, elemento centrale, assorbiva tutti i problemi sociali. Trent’anni fa poteva non esserci bisogno di interventi molto consistenti a favore di soggetti in difficoltà, poteva non esserci bisogno di interventi a favore degli asili nido: c’era la famiglia all’interno della quale tutto si risolveva.
Oggi non è più così. Oggi abbiamo necessità di ingenti trasferimenti economici perché le parti più deboli della nostra società hanno più urgenze di prima. Mancano gli asili nido e non ci sono più tante nonne o mamme ad accudire i bambini a casa, le donne lavorano e devono poter perseguire le stesse soddisfazioni professionali dei mariti. Occorre porsi il problema con lo stesso senso di responsabilità con cui nel passato il centrosinistra se lo è posto, facendo delle riforme importanti, contemperando diritti e aspettative demografiche. Alcune scelte e alcuni ritardi stati anche obbligati dal fatto che, per esempio, abbiamo consentito a persone di 45 anni di andare in pensione. Cose che soltanto un Paese come il nostro poteva immaginare di permettere. E non si tratta di condannare il singolo che ha semplicemente usufruito di una legge dello Stato.
Posto questo, l’analisi sulla scorsa legislatura svolta da Gorrieri presenta molte verità. Ho solo aggiunto alcune mie valutazioni, a dimostrazione di punti di vista, spero, complementari. Noi abbiamo di fronte un grande obiettivo per il futuro: dimostrare che siamo fortemente alternativi alle politiche di questo centrodestra e di questo presidente del consiglio. Per farlo il tema del riequilibrio delle diseguaglianze diventa per noi decisivo. Ovviamente anche su tale tema non sono le parole che contano, ma i fatti e le proposte. Mi auguro che sulla base di alcune di queste scelte importanti si riesca a costruire un Ulivo che sia moderno, europeo, ma che sia soprattutto attento al tema del riequilibrio sociale e della crescita. Così facendo superiamo anche la discussione insopportabile su riformisti e massimalisti che ho richiamato in apertura; e dobbiamo ringraziare Ermanno Gorrieri che ci ha fatto capire l’importanza di ragionare su cose concrete e non sulla base di etichette ormai antiche che hanno poco che vedere con realtà attuale.
Sergio Cofferati
Un programma per il centro-sinistra
Ha appena detto Enrico Letta: il centrosinistra deve darsi un programma per tornare a vincere. E l’analisi e le indicazioni che vengono dal libro di Gorrieri possono essere importanti in questo senso. Lo voglia il cielo che il centrosinistra cominci davvero a discutere di programmi superando una discussione che fin qui si è rivolta ad altro. E’ del tutto auspicabile che nel costruire questo programma vengano abbandonate alcune suggestioni che hanno condizionato le scelte, anche durante la legislatura passata del centrosinistra. Provo a fare dei riferimenti specifici anche se i temi sono di una qualche consistenza. Qui non sono in discussione i governi di centrosinistra. Non mi sentirei di dire che quei governi hanno avuto la stessa attenzione o che abbiano proposto le stesse soluzioni sui temi che Gorrieri descrive. Una qualche differenza a volte anche discretamente marcata c’è stata e non ha fatto bene allo schieramento che governava. Però io alcuni punti specifici che valgono per il passato non vorrei trovarli riprodotti per il futuro: è bene avere posizioni esplicite e chiare. Gorrieri muove una critica molto consistente al governo per l’uso sostanzialmente esclusivo della leva fiscale per rispondere ad una serie di problemi dei singoli e delle famiglie, in alternativa ed in sostituzione al più tradizionale reticolo di politiche di coesione e di tutela. Io credo che la delega che il parlamento sta discutendo, presentata dal ministro Tremonti, sia una pessima ipotesi di modifica del sistema di prelievo fiscale, di dubbia costituzionalità, con effetti potenziali particolarmente consistenti e negativi che accentuano e drammatizzano i problemi che Gorrieri già indica come problemi in essere. Quello che mi preoccupa è che la logica di fondo di quell’impianto non sia stata spesso contrastata e criticata con gli argomenti del caso. Perché dico incostituzionale? Perché siamo di fronte ad un’ipotesi di prelievo basato su due aliquote, che così congegnate fanno saltare la progressività. È evidente che se si spiega ai cittadini che stiamo lavorando per farli pagare meno tasse, si incontra il consenso dei cittadini. Il centrodestra questo ha detto! Bisogna però, credo, con la stessa determinazione che loro usano nella propaganda, ricordare ai cittadini ai quali si rivolgono che un modello di quella natura fa saltare i presupposti che sono da sempre alla base dello strumento più importante della costituzione materiale del nostro paese. E’ la distruzione dell’idea che si paga di più in funzione solidale. Per noi tutti, al di là della nostra collocazione nella vecchia e nella nuova geografia politica, l’idea della solidarietà è un’idea fondativa. Lì è distrutta. Io spero che il centrosinistra non si faccia più affascinare dall’idea di seguire la strada della diminuzione della pressione fiscale. Devo dire che un’ipotesi che era stata presentata seppur come ipotesi di scuola e di discussione chiamata “dividendo sociale”, qualche tempo dietro, diversa dall’ipotesi di Tremonti, affrontava il tema sostanzialmente con la stessa logica di fondo, senza fare i danni e disastri che immediatamente provoca la delibera Tremonti.
Se si definisce in questo modo l’assetto del prelievo fiscale, si avrà contemporaneamente la cancellazione della progressività e la negazione della certezza (perché con lo strumento delle detrazioni e delle deduzioni di conti dovranno essere fatti anno dopo anno). Chiedo ai tanti che criticano il sindacato per quanto concerne le sue politiche rivendicative in materia salariale, di tener conto di che cosa succede se il soggetto che deve denunziare il salario – il lavoratore dipendente – viene privato di un riferimento stabile e continuativo. Come si fronteggia l’inflazione, quali sono i meccanismi per acquisire una parte consistente della produttività, se non sai quali sono le tasse che pagano i destinatari della tua attività contrattuale? Mistero gaudioso, da risolvere rapidamente. E’ difficile che il sindacato sia in grado di risolverlo in forma adeguata se, come è molto probabile, camminerà quell’ipotesi. E poi vengono meno le risorse per la gran parte delle politiche di inclusione e di protezione, perché i cittadini pagheranno meno tasse ma il gettito diminuirà drasticamente. Si renderà malata anche la sussidiarietà perché viene stravolta l’idea di sussidiarietà che l’Unione Europea ha introdotto. Sussidiarietà nell’accezione europea significa integrazione da parte dei privati al ruolo fondamentale dello Stato. Qui siamo all’esatto opposto. Siamo alla teorizzazione della sussidiarietà come alternativa alle funzioni primarie dello Stato. Non è un caso, lo sanno bene i parlamentari, come l’ipotesi di modifica del sistema presentato dal ministro Tremonti sia stata accompagnata, anzi preceduta dalla premessa, da una sorta di lungo sproloquio ideologico che finisce con l’idea della filantropia. Perché venendo meno quelle risorse e dunque non essendoci più le condizioni per alimentare lo Stato sociale e per fare politiche di inclusione, non resta altro che la bontà dei beneficiari di quei vantaggi. Bisognerebbe chiedere l’opinione di chi viene privato di quelle tutele e soprattutto bisognerebbe dirglielo con molta decisione. So che è molto difficile qualsiasi ragionamento soprattutto in vicinanza delle scadenze elettorali sul tema fiscale però bisogna dirla tutta. L’idea di far pagare meno tasse in quel modo ai cittadini presuppone la distruzione del sistema delle tutele di oggi. Ai problemi indicati da Gorrieri se ne aggiungerebbero molti altri e drammaticamente. Badate che poi non salta soltanto l’idea della solidarietà ma con la distruzione di una politica solidale è inevitabile che si creino differenze sul piano dell’acquisizione delle protezioni tra diversi percettori di reddito. E che prevalga l’individuo rispetto alla collettività perché la funzione della collettività viene meno. Questo monito, nel libro, è più volte ripetuto e credo che non solo si debba condividere ma dovrebbe far parte di uno dei pilastri della riflessione da fare proprio in vista del programma futuro dell’Ulivo. Senza timori senza imbarazzi. Non si possono avere delle titubanze di fronte ad ipotesi che indicano la diminuzione della pressione fiscale come la panacea di tutti i mali e non si dice che quella forma di diminuzione mette in crisi tutti gli strumenti della coesione e produce danni rilevanti sulla parte più povera del paese. Così come per quanto concerne qualche altro aspetto delle critiche che sono contenute nel libro come il tema della spesa sociale e dunque della sua efficacia, non solo della quantità. Se si vuole includere e si vogliono superare le disuguaglianze è evidente che la quantità di risorse da usare e l’efficacia delle politiche sono temi che si connettono e sono temi di grande importanza. Noi dobbiamo incrementare la spesa sociale. Dico noi perché è un problema di questo paese. Il valore della spesa sociale italiana è tra i più bassi in Europa. Sensibilmente tra i più bassi in Europa. Conteneva una distorsione nota a causa di una dinamica previdenziale fuori controllo qualche anno orsono. La riforma del sistema previdenziale è stata fatta e io credo che non sia utile tornare in alcun modo sul tema da parte del centrosinistra. Soprattutto se non si tiene conto come può capitare di obblighi anche di carattere sociale che la riforma ha dovuto affrontare e risolvere. Ce ne sono due consistenti. La tipologia del mercato del lavoro italiano, compresa la difficoltà del passaggio dal vecchi al nuovo assetto, presenta alcuni problemi per cui si rischia, ad esempio, di penalizzare persone che sono andate a lavorare giovanissime e che hanno nell’approdo previdenziale l’unica forma possibile di sostegno al reddito. Non sono in grado di modificare le loro condizioni con altri strumenti. È evidente che il transitorio di quell’assetto ha un costo ma il costo risponde a questo delicatissimo problema sociale. A tal punto che poi nell’assetto nuovo del sistema previdenziale vi è un problema che si porrà fra qualche decennio: la spesa in Europa tende a salire e quindi anche la spesa media italiana crescerà rapidamente, forse troppo rapidamente. Ad un certo punto si renderà necessario qualche aggiustamento perché la quota di solidarietà nel sistema a capitalizzazione, tra qualche decennio, potrà rivelarsi insufficiente. Dunque siamo di fronte a due velocità ma soprattutto a due direzioni diverse della spesa nostra rispetto a quella degli altri paesi.
Modificare lo Stato sociale?
Uno dei vincoli che ha reso difficile anche la ripartizione fra la spesa previdenziale in senso stretto e quella assistenziale è dato dal pregresso. E torno ad uno degli argomenti che Gorrieri ha introdotto. Si discute con un po’ di disinvoltura qualche volta di modifica dello Stato sociale e si usano slogan ed esemplificazioni, che secondo me non sono sempre efficaci. Occorre passare – si dice – dal risarcimento alla promozione. Una società deve sapere che il risarcimento è una politica sociale necessaria se vuole esercitare solidarietà. Noi abbiamo a che fare con una platea molto consistente di persone anziane, percettori di quote a volte non esaltanti di tutela previdenziale, che sopportano l’onta del tempo passato. Sono persone che hanno lavorato e alle quali non sono stati pagati contributi per la pensione. E dunque la platea consistente di queste persone, seppure decrescente per ragioni anagrafiche, pone al sistema un obbligo solidale che non può essere ignorato. Attenti quindi a non accettare come ovvia la semplificazione del passaggio dal risarcimento alla promozione. Di risarcimento c’è ancora bisogno. A tal punto che il risarcimento oggi, come dice Gorrieri numeri alla mano, è spesso una delle poche fonti di reddito delle famiglie povere.
Dunque bisogna creare occasioni uniformi di tutela, in una condizione oggettivamente diversa dal passato. Nessuno nega l’importante processo di risanamento al quale molti hanno contribuito. Però, quando si sono create le condizioni per una ripresa e dunque per un ritorno all’accumulazione. Noterei che questo governo sta rischiando di cancellare quelle premesse, perché non ci sono soltanto politiche sbagliate: c’è il rischio della distruzione oggettiva di molti dei vantaggi che con tanto sacrificio si erano costruiti come vantaggi potenziali. Anche qui ritorna il tema dell’uguaglianza e della solidarietà.
Infine, ho trovato molto opportuno che venisse richiamata nel libro la presenza nel mercato del lavoro italiano e nella economia italiana di quel fenomeno che si pensava sostanzialmente lontano da noi, tipico delle società più dinamiche dove il mercato tutto fa e tutto disfa: il lavoro povero. Saltano anche alcune categorie di valutazione, perché nella nostra cultura la povertà ha sempre corrisposto alla mancanza di lavoro. Il povero è il disoccupato, chi non ha un’occasione di reddito. Oggi non è più così! Ci sono forme di povertà che il lavoro e la sua remunerazione non riescono a risolvere. Sono circoscritte, ma non per questo devono essere ignorate, riguardano in prevalenza le donne e le statistiche dicono che si tratta di spirali chiuse. La lavoratrice o il lavoratore povero quando perde quell’occasione di reddito ne trova soltanto un’altra povera perché non ha accesso alla formazione, non ha strumenti di aggiornamento, di crescita culturale, professionale. Dunque la qualità dell’offerta non è un tema peregrino. È uno straordinario tema dell’oggi. Quando si discute di mercato del lavoro e quando si pensa anche all’utilizzo dello stesso stato sociale come somma di strumenti per promuovere le persone, bisognerebbe collegare sempre questa ipotesi alla qualità dell’offerta che si vuole creare. Diversamente, io non so dire se il lavoro povero registrato oggi potrà estendersi o resterà circoscritto. Ma anche in questa seconda ipotesi è una piaga sociale. Ci troviamo di fronte a condizioni di povertà che possono cambiare la percezione delle persone coinvolte e del loro rapporto con una società. Lavorare e non avere dal proprio lavoro quanto è necessario per poter superare la soglia della povertà: credo che siano anche queste zone che vanno affrontate e aiutate con politiche di inclusione e con forme di protezione. Ma insieme a queste bisogna dare consistenza, come diceva prima Enrico Letta, ad uno strumento che ancora consistente non è: la costruzione di sistemi di percorsi formativi in grado di aiutare tutti ad entrare potenzialmente più forti nel mercato del lavoro, ma anche di stare nel mercato del lavoro adeguatamente.
Sono giorni difficili ed il tema della formazione e la carenza di politiche formative tornerà ad essere un tema drammatico. La crisi industriale della Fiat non è l’unica. C’è una parte rilevante del sistema produttivo italiano in sofferenza. Consentitemi questa operazione un po’ ardita: facciamo finta che non ci sia la Fiat. La dimensione della Fiat è una dimensione tale che la sua crisi mette paura a tutti anche per la dimensione dei rapporti che l’azienda ha con le banche. La mancata soluzione del problema Fiat determina una drammatizzazione dei problemi delle maggiori banche italiane. C’è la Fiat, ma anche l’indotto, che vale quattro volte la Fiat. Conviene saperlo. Ma anche se ciò non fosse, le condizioni fisiologiche di crisi produttiva che incidono sulla occupazione non sono gestibili al meglio con gli strumenti dell’oggi, perché il governo si è rifiutato di riformare gli ammortizzatori sociali. E non è disponibile la connessione tra l’integrazione al reddito, dove viene meno il lavoro, e l’obbligo formativo. Diceva prima Enrico Letta che ci sono state tante persone che se ne sono andate in pensione a 45/50 anni, con tutto il danno che questo ha prodotto sul mercato del lavoro.
Ma nello scenario di oggi, quel processo rischia di riattivarsi in misura rilevante, e senza la possibilità di mantenere una parte del valore complessivo del sistema. Faccio notare che quando vengono allontanate persone di cinquant’anni, gli effetti negativi sono molteplici. Vi sono persone che rientrano nel mercato del lavoro in nero, altre che gravano sul sistema previdenziale. C’è una perdita di valore da parte delle imprese, perché le persone hanno un livello di apprendimento interno all’azienda, di crescita professionale, che è proporzionale alla loro età anagrafica. Alcune professionalità non si ricreano rapidamente. Siamo di fronte al paradosso che se si va a guardare in trasparenza come alcune imprese italiane hanno gestito i loro processi di riorganizzazione negli anni passati, si scoprono delle cose singolari. Hanno allontanato delle persone professionalizzate, hanno ripreso le stesse persone con rapporti di consulenza, e alla fine non è chiaro se ci abbiano guadagnato o perso.
C’è speranza? Sì, se si prova davvero a far tesoro dei limiti che vi sono nel campo dell’Ulivo e del centrosinistra. Si erano create le condizioni perché il meccanismo di accumulazione riprendesse: resto convinto che se allora fosse stata chiara una linea di cambiamento precisa, riferita a condizioni oggettive e a valori, forse le cose sul piano elettorale non sarebbero andate come sono andate. Resto convinto che qualche eccesso imitativo delle intenzioni degli altri abbia prodotto dei guasti. Sono in buona compagnia poiché anche Gorrieri lo ha scritto a conclusione del suo libro.
Se non si ripete più quell’errore, se si prova a far vivere nelle proposte una vera e propria alternativa alle posizioni degli avversari, perché è nell’ordine delle cose concrete che ci si contrapponga. E insisto, insieme a quelle linee di politica sociale si provi a dare una rispolverata a valori solidi. Gorrieri si chiede se il tema dell’eguaglianza non ha più cittadinanza. Io penso che la debba avere, eccome! Esattamente come sono convinto che la parola solidarietà deve avere qualche contenuto concreto. Se si prova declinare in concreto qualcuno di questi vecchi termini che hanno definito l’appartenenza ad un campo o all’altro, forse qualche risultato lo si ottiene. Se l’ipotesi di Tremonti è la filantropia, io penso che sia necessario dire con la stessa forza che l’ipotesi nostra è la solidarietà. Come vedete non c’è bisogno di cercare strumentalmente una collocazione alternativa. E’ di una solare evidenza. Basta pronunciare la parola. Però bisogna farlo, perché altrimenti sta in campo soltanto il capitalismo compassionevole e la filantropia dei ricchi verso i poveri: e questa tesi paga anche nell’immaginario collettivo, non perché sia un’idea forte ma semplicemente perché rischia di essere l’unica in campo. E noi qualche idea sensata continuiamo ad averla e se abbiamo anche il coraggio di riproporla possiamo fare bene a tante persone: in primo luogo a noi stessi per i livelli di rappresentanza che ciascuno di noi ha sulle spalle.
Michele Salvati
Sono usciti a cura della casa editrice Il Mulino, quasi in contemporanea, due libri importanti: uno è quello di Gorrieri che presentiamo oggi, che ha per titolo una bellissima frase di Don Milani, “Parti uguali tra disuguali”; l’altro è il libro di Boeri e Perotti, che ha un titolo giusto ma molto meno accattivante: “Meno pensioni più welfare”. Quest’ultimo è un libro importante ed è una lettura essenziale per chi oggi si occupa di problemi di riorganizzazione di quel welfare, che ha perso ogni slancio e che non ha le proprietà redistributive che dovrebbe avere. Sono due libri molto diversi. Il primo è fatto da due economisti con alle spalle un rapporto di collaborazione con la fondazione Rodolfo De Benedetti. Un libro molto professionale. Quello di Gorrieri è un libro – lo dico nel miglior senso del termine – “artigianale”, fatto sostanzialmente da solo, sulla base dell’esperienza. Però è un libro pieno di passioni, un libro di idee lucide, un libro che rivela una minuziosa conoscenza dei fatti. E’ un libro che parla con dettaglio di molti istituti effettivi del nostro welfare. Dal redditometro, all’Ise, all’assegno al nucleo familiare, alle agevolazioni fiscali. È un libro, anche, necessariamente polemico. Le polemiche sono garbate ma ci sono. Ci tornerò brevemente dopo.
Uguaglianza di punti d’arrivo e metodi della redistribuzione
Prima vediamo che cosa dice il nostro autore Le idee base di Gorrieri sono semplicissime ed io le condivido completamente. La prima è che l’obiettivo delle politiche sociali non può essere soltanto quello di creare la maggior vicinanza possibile nei punti di partenza. Cosa già spaventosamente difficile. Esso deve essere anche quello di impedire eccessive divaricazioni nei punti di arrivo. Ovvero, quello di impedire una miseria ed una esclusione sociale degradanti (e, perché no, controllare con imposte progressive, la formazione di ricchezze smisurate, se queste non servono allo sviluppo economico). Sono tutti e due obiettivi difficili, ma non impossibili. Questa è la prima idea di fondo del libro. Il nome un po’ vecchiotto di giustizia sociale mi piace ancora e mi piace sempre di più.
La seconda idea base è relativa all’unità di intervento cui deve rivolgersi una politica sociale degna di questo nome. Questa, oggi, deve essere la famiglia, di diritto o di fatto che essa sia. Gorrieri non si spinge fino alla famiglia omosessuale, forse qualcun altro si spingerà anche a questa: i tempi cambiano, vedremo cosa succederà. Dev’essere (sostanzialmente) la famiglia non per ragioni filosofiche e di principio: una qualsiasi teoria della giustizia non può che avere una fondazione individualistica. Dev’essere la famiglia per ragioni eminentemente pratiche, di efficacia alla luce degli obiettivi prima ricordati. E’ su questa base che Gorrieri critica un affidamento eccessivo delle politiche redistributive a strumenti fiscali, che per loro natura hanno il singolo come punto di riferimento. Lo strumento fiscale ha dei limiti intrinseci, perché non può che avere la singola persona come unità di intervento. Anche i tentativi di superare questi limiti attuati in alcuni paesi, in Francia, in Germania, non hanno dato buoni risultati. Quindi bisogna sviluppare una critica a qualsiasi idea che voglia utilizzare soltanto questo strumento. Gli strumenti devono invece essere una pluralità. Sia redistributivi in termini monetari, sia mediante provvedimenti amministrativi, ad esempio attraverso l’istruzione, i servizi sociali ecc. Una grande gamma di strumenti. Anche perché i problemi sono tanti e gli strumenti devono essere adeguati ai problemi.
La terza idea di fondo del libro, che io condivido, è che non esiste solo un problema di limitazione di risorse – presente per definizione in economia, anche quando le risorse sembrano abbondanti – ma esistono anche problemi di incentivo: le misure di welfare devono essere disegnate in modo da indurre comportamenti “virtuosi”, evitare comportamenti controproducenti, e così produrre il massimo raggiungimento degli obiettivi di eguaglianza a parità di risorse investite. E’ su questa base, e non per astratte questioni di principio, che Gorrieri critica le politiche universalistiche, di cui l’esempio tipico è costituito dal reddito di cittadinanza. Ad esempio, quel dividendo sociale che era stato proposto nell’ultima fase del centrosinistra da parte di Enzo Visco e Nicola Rossi. Politiche di questo genere, specie in una situazione come quella italiana, sono politiche che rischiano di sprecare risorse, distribuendole su una platea di persone che non ne hanno bisogno, invece di concentrarle su quelle che ne hanno bisogno. Questo non vuol dire tornare a politiche per i poveri, perché le politiche devono essere le più universalistiche possibili. Ma come dice Gorrieri, con un ossimoro molto efficace, deve trattarsi di un “universalismo selettivo”. Quindi devono essere politiche che implicano la prova dei mezzi.
Qualche riserva sulle critiche
Queste sono le tre idee di base di Gorrieri, che io condivido profondamente. Come sono d’accordo in dettaglio con la critica culturale che Gorrieri rivolge a tutti gli istituti redistributivi oggi esistenti, sia quelli fiscali (cui ho già fatto cenno), sia quelli previdenziali e assicurativi, sia quelli assistenziali in senso proprio.
C’è qualcosa su cui sono in disaccordo con Gorrieri? Nella sostanza direi di no. Ho solo due riserve. La prima riguarda la parte polemica del libro. Quella che percorre tutto il libro e vivacizza anche gli elementi tecnici e istituzionali. Una critica sia verso lo stesso mondo da cui Gorrieri proviene, il mondo cattolico, e poi, naturalmente, verso il mondo socialista ed ex comunista. Su questo ho qualche piccola riserva. Io mi considero sia un uomo di sinistra sia un liberale. E quindi non mi riconosco nella critica ai neo-liberisti che egli fa quando parla in un capitoletto di “deriva neoliberista”. Io trovo che le proposte di D’Alema, Nicola Rossi, Vincenzo Visco sul dividendo sociale erano criticabili anche dal mio punto di vista, che è un punto di vista liberale, proprio perché sono d’accordo con le idee di base e gli argomenti di Gorrieri, che sono perfettamente difendibili proprio da un punto di vista liberale: per convincersi, basta leggere le Lezioni di politica sociale di Luigi Einaudi. Bisogna stare attenti a mettere etichette. Ci sono delle persone di orientamento liberale che pensano esattamente come Gorrieri, che hanno le sue tre idee di base e che si considerano a giusto titolo dei liberali. Questa è la prima osservazione.
La seconda non è una riserva ma la constatazione di una mancanza. Caro Gorrieri, si capisce o meglio si intuisce quale sia il disegno di riforma che tu desideri, il progetto di welfare che dovrebbe stare nel progetto dell’Ulivo. Ma questa intuizione che tu hai non basta a disegnare un programma, che sia insieme entusiasmante e realistico. Bisogna identificare obiettivi desiderabili e condivisi e bisogna poter rispondere ad obiezioni di fattibilità. Perché altrimenti il programma non è credibile. Mi limito a porre due problemi. Uno relativo all’obiettivo del sistema di welfare che dovremo proporre. L’altro relativo alle risorse.
Gli obiettivi di un nuovo Welfare state
Tra gli obiettivi vorrei segnalarne uno sul quale Gorrieri non insiste particolarmente e che invece dovrebbe essere il perno di un programma di ridisegno del welfare. C’è un aspetto importante che differenzia la nostra povertà rispetto alla povertà degli altri paesi. Negli altri paesi c’è povertà molto spesso nelle persone anziane, noi ne abbiamo molto di meno proporzionalmente, perché abbiamo un sistema pensionistico che ha distribuito parecchie risorse. Quel che abbiamo in maggior misura è la povertà da disoccupazione perché non abbiamo un sistema protettivo universale contro la disoccupazione (i famosi ammortizzatori sociali), e povertà legata a famiglie con uno solo reddito da lavoro e con due o più figli.
Se noi dobbiamo porci un obiettivo cruciale in questo paese è che siano ridotte al minimo le famiglie povere con figli piccoli. Perché se così non avviene riproduciamo la povertà e l’esclusione nel futuro. Noi dobbiamo concentrare al massimo le risorse sulle famiglie e sulle donne con figli piccoli. È un problema di efficienza anche economica, oltre che di giustizia sociale.
Si dice che siamo entrati in un’epoca in cui la conoscenza, le competenze diffuse nella popolazione, sono i più grandi fattori di crescita. Ne sono convinto. E allora come mai sprechiamo tutte le potenziali competenze dei bambini e dei ragazzi che vivono in situazioni famigliari impoverite e degradate? Perché non diamo soldi, tanti soldi, alle loro famiglie perché possano vivere dignitosamente e mandare i bimbi a scuola? Qui abbiamo un caso tipico in cui la giustizia sociale dell’oggi e lo sviluppo economico del domani sono in perfetta sintonia. Non assistere queste famiglie con provvedimenti mirati, e dipendenti dalla frequenza scolastica dei figli, significa riprodurre l’ineguale distribuzione di risorse e di competenze che affligge i loro genitori.
Chi non è rimasto impressionato da quell’articolo di Marco Lodoli su “La Repubblica” dell’ottobre scorso a proposito della demenza incipiente dei suoi studenti? Sarà anche esagerato, ma mi ha impressionato molto perché non si tratta di una critica ideologica. Lui non dice che questi ragazzi hanno dei valori sbagliati. Li avranno anche, ma non è questo il punto È l’incapacità di ragionare la cosa su cui insiste. Questi ragazzi saranno dei futuri esclusi, inutilizzabili in una società della conoscenza.
E poi naturalmente ci sono i vincoli, c’è il problema delle risorse e delle compatibilità. Una volta che abbiamo disegnato il welfare che vogliamo, quello che soddisfa i requisiti si solidarietà di una società decente, e che lo fa con il minimo dispendio di risorse e senza indurre comportamenti opportunistici e scoraggiare il “fai da te” e la ricerca di lavoro da parte dei destinatari delle misure di assistenza, bisogna fare i conti. Il welfare che piace a Gorrieri, quello che piace a Boeri-Perotti, quello che dovrebbe essere sostenuto dall’Ulivo, questo welfare, anche tirato all’osso, anche se l’universalismo è selettivo, è un welfare che costa. Che costa parecchio di più della congerie di misure assistenziali che abbiamo adesso.
Dove si trovano i soldi? Altre tasse? Contro le tasse non ho alcuna obiezione di principio, se ai cittadini si dà l’impressione che i loro proventi sono ben spesi: l’inseguimento che la sinistra ha fatto della destra sulla riduzione della pressione fiscale come un obiettivo desiderabile in se stesso è stato una prova patetica di subalternità culturale. Ma per ogni paese, per ogni cultura civica, per ogni livello di efficienza e onestà dell’amministrazione pubblica, ci sono dei limiti di consenso alla crescita della pressione fiscale e ho l’impressione che ci siamo abbastanza vicini. Dunque i soldi dobbiamo trovarli riducendo altri impieghi. Quali? Altri impieghi fuori dalle spese sociali? Possiamo superare il muro del 50% del bilancio pubblico (25% del Pil) destinato alla spesa sociale? Ne dubito: dalle infrastrutture alla difesa, dall’istruzione alla ricerca, siamo agli ultimi posti in Europa, in una vera situazione di emergenza. E allora bisogna cercare nella stessa spesa sociale ed in particolare nell’unico settore in cui ci sono veri quattrini, dove siamo al di sopra della media europea, nella previdenza. Anche qui con grande cautela: tra una trentina d’anni, quando la riforma Dini sarà a pieno regime, la situazione sarà molto diversa da adesso e tra i pensionati si troveranno parecchi poveri, a meno che l’occupazione non riprenda e aumentino di molto, in numero e valore, le pensioni integrative. In ogni caso, oggi è nel comparto previdenziale dove esistono ancora molte sperequazioni e c’è del grasso che cola. Che si sta esaurendo, ma ancora c’è.
Queste sono sciabolate impressionistiche, che tiro solo per dare un’idea. E l’idea è che tutto si tiene, che non si può disegnare un welfare ideale senza dire come ci si arriva, come si ottengono le risorse per realizzarlo. Ecco, questo pezzo manca nel bel libro di Gorrieri. C’è già di più nel libro di Boeri-Perotti, ma è incompleto anche lì perché, giustamente, gli autori ritengono che sia compito dei politici proporre scelte distributive. Com’è evidente, i politici hanno poca voglia di farle: sulle pensioni il primo governo Berlusconi era partito con una proposta eccellente, ma ha dovuto mollarla per defezione della Lega, più che per la protesta del sindacato. I governi dell’Ulivo non hanno avuto il coraggio di aggiustare la proposta Dini (di per sé non irragionevole, buona per il lunghissimo periodo, ma che per trent’anni lasciava spalancate le porte delle stalle). Memore che chi tocca le pensioni muore, il secondo governo Berlusconi per ora traccheggia.
Insomma, dovrebbero essere i politici a proporre scelte distributive, a subirne i costi di popolarità nel breve periodo ma guadagnarsene anche i meriti. Siccome non lo fanno, credo che tecnici, intellettuali e anche “onesti artigiani”, come Gorrieri ama autodefinirsi, debbano assumersene il costo e alimentare un dibattito pubblico razionale, oggi fortemente oppresso dalle menzogne o mezze verità dei politici e dei gruppi di interesse.
Ermanno Gorrieri
Ovviamente ringrazio i nostri amici milanesi per l’iniziativa e gli interlocutori per gli apprezzamenti e le riserve che sono state esposte. In verità più apprezzamenti che riserve. Non credo di dovere a questo punto soffermarmi su tutte le osservazioni. Vorrei dire a Michele Salvati, che è un liberale, che forse anche liberismo e liberalismo sono due cose diverse ed io ho parlato di “deriva neoliberista”. Forse lei può dire di “deriva individualista”. Questo è veramente il punto della critica che io ho tentato di fare all’ultimo periodo del centro sinistra. E devo dire che questa “deriva individualista”, consistente nell’esclusione di ogni altro strumento redistributivo e nell’utilizzo del solo strumento fiscale, indica la mancanza di una scelta di fondo: operare non soltanto per combattere la povertà, perché nel mio libro uno dei punti fondamentali è proprio il tentativo di dimostrare che in Italia non c’è solo la povertà.
Tutti sono d’accordo nel riconoscere che bisogna assistere i poveri. Ma ci sono diseguaglianze anche al di sopra della soglia di povertà, che sono diseguaglianze nel godimento di un complesso di beni che non sono solo relativi al reddito; ad esempio essenziale è il godimento e l’accesso all’istruzione. Il godimento di un livello più alto di istruzione per tutti e quindi la scuola dell’obbligo, secondo me, prima di tutto. Ci sono poi le diseguaglianze. Contro le diseguaglianze l’esclusiva leva fiscale lascia il tempo che trova. A volte anzi aumenta queste diseguaglianze.
Sono stati fatti molti riferimenti al governo Berlusconi e a quello che sta facendo. Quello che io tento di stimolare è però la riflessione per la sinistra e per il centro sinistra. La riflessione sulle basi di politiche culturali e programmatiche. Allora io debbo dire che quei miei giudizi un poco severi nei confronti dell’ultimo governo di centro sinistra si basano sul fatto che, per apprendere l’ultima manifestazione di questa linea, che è stata recepita in parte anche nel programma presentato per le elezioni, è stata la scelta del governo quella di usare solo le detrazioni fiscali e alla fine di prevedere una riforma fiscale basata su due aliquote, proprio come Tremonti. E quindi questo mi sembra che sia un problema serio su cui riflettere.
La spiegazione l’ha data la commissione Onofri, insediata da Prodi, che presentando la sua relazione ha proposto l’universalismo per quanto riguarda i destinatari degli interventi dello Stato sociale. Ma resta l’esigenza di essere selettivi tenendo conto delle condizioni. Non si possono fare le parti uguali tra disuguali, lo ha insegnato don Milani. Quindi mi pare che su questo terreno ci sia molto da riflettere tenendo conto del parametro famiglia. Ma io lo chiamo parametro per dire che non c’entra il giudizio che si può dare sulla validità, sulla funzione, sulla crisi della famiglia. Se si vuole tener conto delle condizioni economiche dei destinatari, bisogna tenere conto delle loro condizioni familiari. Riprendo allora anche un cenno sui bambini. La commissione d’indagine sulla povertà ha trovato che mentre negli anni passati l’incidenza della povertà era maggiore fra gli anziani, negli ultimi due tre anni è diventata sempre maggiore fra i minorenni con tutte le conseguenze che sono state prima accennate.
Mi sembra quindi che trovare il consenso sulla non esclusività della leva fiscale, sulla necessità di utilizzare tutto un reticolo di interventi che tenga conto del tipo dei bisogni e della risposta da dare a questi bisogni, penso che possa essere un utile stimolo per quanto riguarda i compiti del centro sinistra nel prossimo futuro. Concludo dicendo che questa non è politica di serie B, come viene considerata dalla classe dirigente e politica. Questi sono problemi che toccano la vita quotidiana delle persone e delle famiglie e quindi mi sembra necessario che per accingersi ad un lungo lavoro di preparazione a come ci presenteremo alle future elezioni, questi temi debbano essere presi in seria considerazione nell’agenda della riflessione del centro sinistra.
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