Appunti 4_2011

FOCUS:  150 ANNI DI UNITÀ NAZIONALE; 140 ANNI DI MOVIMENTO CATTOLICO

Unità d’Italia e Movimento cattolico: l’iter di un lungo percorso della memoria, tra luci e ombre di problemi di fondo non risolti, di contraddizioni non superate, di tensioni e risoluzioni che hanno inciso sull’attuale tessuto economico, sociale e politico del nostro paese. Attraverso le interviste, Giorgio Vecchio, Daniela Saresella e Paolo Pombeni fanno luce, in particolare, sugli aspetti politici della presenza dei cattolici nella vita civile e sulla situazione attuale.

Interviste a: Giorgio Vecchio, Daniela Saresella, Paolo Pombeni
La Chiesa e il Movimento cattolico organizzato, che 140 anni fa erano schierati contro l’unità nazionale nello Stato-Nazione, oggi sembrano quasi gli unici difensori – sul piano «ideale» ed etico-civile – di quella stessa unità. Cosa significa questo cambiamento di posizioni?
Giorgio Vecchio – Rispondo in modo provocatorio. Non vorrei che il cambiamento di posizioni sia soltanto la conferma dell’incapacità della Chiesa-istituzione di cogliere per tempo i segnali di cambiamento nella storia. Centocinquanta anni fa, la Chiesa non comprese che alla nascita di uno Stato unitario e laico, prima o poi, si sarebbe comunque arrivati e che il Risorgimento si sarebbe fatto, con o senza il suo assenso. Oggi la Chiesa si fa paladina dello Stato unitario e io – che sono ancora fautore dell’Unità italiana – ne sono contento. Ma non sono così sicuro che lo Stato unitario sia destinato a reggere per tanto tempo ancora, almeno se non cambieranno sostanzialmente le cose in Italia.

Daniela Saresella – Il rapporto tra Stato italiano e Santa Sede dalla Breccia di Porta Pia è profondamente mutato. Il mondo cattolico italiano, che già con la guerra di Libia e poi con quella d’Etiopia aveva mostrato interesse per la «grandezza italiana», nel secondo dopoguerra, è stato un elemento fondamentale della vita politica nazionale e non a caso il suo partito di riferimento, la Democrazia cristiana, è stata definita da Agostino Giovagnoli «il partito italiano». La Chiesa italiana ha dunque via via abbandonato la contrapposizione nei confronti dello Stato «laico e usurpatore» che l’aveva caratterizzata alla fine dell’Ottocento e ha voluto interpretare il nostro Paese come «culla del cattolicesimo» e il cattolicesimo come elemento coagulante e unificante di realtà locali assai diverse: questa è una delle ragioni che l’hanno indotta alla difesa dell’unità nazionale negli anni Novanta, di fronte alle ipotesi disgregazioniste della Lega di Umberto Bossi.

Paolo Pombeni – La posizione dei cattolici italiani mi pare più complessa di quella del Vaticano (e per derivazione dei suoi vescovi). Innanzitutto i cattolici sono, inevitabilmente, cittadini di una… storia, per cui, a parte tutto, hanno fatto sempre fatica ad astrarsi dalla dimensione «nazionale» che allora e a lungo è stata una dimensione della storia. Parlo, ovviamente, delle classi «educate», perché l’educazione era tendenzialmente un’educazione «nazionale». Fuori di queste il discorso era diverso, ma lo era al di là della questione di appartenenza alla confessione cattolica. Per il resto il cattolicesimo come «dottrina sociale» è sempre stato «legalitario» e «filo-istituzionale», per cui diventava difficile mettersi in antagonismo con il risultato «istituzionale» dello Stato-nazione, che era poi il modello dominante in Europa (se si eccettua l’impero asburgico, che però proprio per questo aveva difficoltà, o l’impero russo che non faceva testo). I cattolici quindi avevano solo bisogno di chiudere la ferita della diversa posizione della gerarchia rispetto al fenomeno dello Stato nazionale. Avvenuto questo, prima con il fascismo e il concordato, poi con la repubblica che ha visto la lunga egemonia del «partito cattolico», non c’era più motivo per i cattolici di essere in travaglio rispetto allo Stato-nazione. Non meraviglia di conseguenza che oggi i cattolici reagiscano in maniera abbastanza decisa alla crisi dello Stato-nazione, a cui in fondo hanno partecipato da protagonisti nella fase della sua ricostruzione. Sparpagliati nel declino dello Stato-nazione essi non avrebbero nulla da guadagnare e tutto da perdere, perché quella fine sarebbe vissuta come una riprova di quel «relativismo» contro cui tuonano le gerarchie, a volte come lotta contro i mulini a vento, ma non sempre in maniera infondata.

Nell’Ottocento i maggiori democratici italiani (Mazzini, Cattaneo, Garibaldi, Crispi, Cavallotti ecc.) erano laicisti, anti-clericali e, spesso, massoni. Nel Novecento i maggiori democratici italiani (Sturzo, De Gasperi, Gronchi, Dossetti, Moro, Fanfani, La Pira, Zaccagnini ecc.) erano cattolici. Cosa sarà nel XXI secolo?
Giorgio Vecchio – Intanto speriamo che nel XXI secolo possano esserci tanti autentici democratici. Anche su questo punto avanzerei qualche dubbio, a costo di sembrare pessimista. Comunque, credo che i democratici del XXI secolo saranno piuttosto eclettici come formazione: di certo, ben pochi arriveranno dalle grandi «madri» del XX secolo (Chiesa, ideologie, partiti di massa). Mi immagino persone maturate democraticamente sui grandi temi dei diritti umani, dell’ambiente, della critica alla pervasività dei media. La vera sfida epocale sarà, tuttavia, quella di trasmettere i valori della democrazia novecentesca ai popoli dell’Europa centro-orientale (vedi Ungheria attuale, oltre a Russia e dintorni) e a quelli del mondo arabo-maghrebino: sia che restino a casa loro sia che costruiscano un melting pot nella penisola italiana. Qualcuno sta pensando a formare democraticamente i futuri milioni di cittadini italiani provenienti, in prima o seconda generazione, dal Sud di Lampedusa?
Daniela Saresella – Innanzi tutto non sono d’accordo che i maggiori democratici italiani siano stati solo cattolici: non si può infatti dimenticare nel Novecento anche la funzione della cultura liberale, socialista, azionista e anche comunista, perché gli intellettuali e i politici che appartennero a quelle «grandi famiglie» diedero significativi apporti alla nostra democrazia. Anzi, noto come gli esponenti cattolici citati siano stati tra coloro che maggiormente seppero confrontarsi e dialogare proprio con le altre culture del Novecento. Per quanto riguarda il futuro, nessuno ha la sfera di cristallo. Dipenderà da che tipo di cattolicesimo si affermerà nel nostro Paese, se un cattolicesimo dialogante con la cultura laica e aperto alle sollecitazioni della modernità, o un cattolicesimo chiuso nella difesa dei propri valori e dei propri precetti. Io penso che solo un cattolicesimo disponibile a farsi carico dei bisogni dell’uomo, bisogni spirituali ma anche di giustizia sociale, saprà dare un apporto alla politica italiana. Dunque spero che quella tradizione «cattolico-democratica», che grandi intellettuali come Scoppola e Giuntella hanno saputo interpretare e che oggi si ritrova in alcune anime del Partito democratico, sappia imporre alla politica la propria visione solidale ed etica del cristianesimo, recuperando dalla tradizione maritainiana l’opzione della laicità della politica.

Paolo Pombeni – Rispondere è impossibile, perché non capiamo ancora (o, almeno, non lo capisco io) cosa si intenderà per democrazia in questo secolo. Nell’Ottocento democrazia era prima di tutto il rifiuto che vi fosse una «autorità» che poteva prescrivere i comportamenti dei singoli e giudicarli. La gerarchia pretendeva di fare questo in maniera, diciamo la verità, ottusa e coloro che non accettavano la prospettiva ritenevano inevitabile rompere con la Chiesa. Certo avrebbero potuto rivolgersi alle sette protestanti, ma in Italia non c’era un contesto favorevole per questo e del resto la cultura «alta» dominante vedeva nella religione una superstizione raffinata dalla storia. Nel Novecento il concetto di democrazia cambia: al centro ci sono la solidarietà e la tensione verso un miglioramento collettivo, cioè due valori squisitamente «ecclesiali». Nel XXI secolo, almeno per ora, ogni autorità è tramontata, del resto neppure la Chiesa riesce a resistere a questo declino (le sue prescrizioni sono più tonanti che capaci di trovare seguito), ma al tempo stesso il discorso della solidarietà, che presuppone la capacità di sacrificare sé per gli altri, se ne sta andando. Domina nella percezione della «democrazia» il discorso dei «diritti» come forme di difesa degli egoismi personali. Difficile per un cattolico stare in questa compagnia.

Dopo la «stagione alta» legata a quei cattolici democratici eminenti, come si spiega – fatte salve alcune apprezzabili eccezioni, che tuttavia eccezioni restano – la timidezza delle gerarchie e di buona parte del laicato cattolico italiano a fronte dell’attuale, oggettiva restrizione degli spazi di democrazia e del vistoso degrado etico della vita pubblica e politica?
Giorgio Vecchio – Ricordiamo, per cominciare, che tutti quegli «eminenti» sono stati sistematicamente bastonati dalla gerarchia: non ne conosco uno che abbia avuto vita facile con i papi e i vescovi del proprio tempo. La timidezza della gerarchia dipende dalla scarsa personalità di molti prelati (in Vaticano e nelle diocesi), scelti spesso con il criterio del «quieto vivere». Inoltre, il pontificato di Giovanni Paolo II non ha certo favorito l’autonomia dell’episcopato. Quanto al laicato e anche al clero, molti parlano e si espongono. Purtroppo ogni voce dissenziente dà fastidio e non trova spazio e simpatie nella stampa cattolica «ufficiale» e, men che meno, nelle tv, a meno che sia collocato su posizioni estremiste e pertanto contribuisca a «fare audience».

Daniela Saresella – Ogni tanto, quando leggo i giornali o guardo la televisione, compio una comparazione tra il rapporto Chiesa-fascismo e Chiesa-berlusconismo. Non sto ovviamente affermando che Mussolini sia uguale a Berlusconi, anche perché uno storico non può permettersi simili banalizzazioni, ma noto che l’uso strumentale del rapporto con il potere politico che ebbero Pio XI e Pio XII lo ritroviamo per alcuni aspetti nella Chiesa attuale. Se si intende la Chiesa come un potere politico-religioso che deve ottenere vantaggi dallo Stato italiano, si capisce perché non ci si siano posti in passato e non ci si pongano ora problemi a concedere credito a personaggi come Mussolini e Berlusconi. Se si ritiene che per la Chiesa sia importante l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole, il riconoscimento degli istituti privati, l’esenzione da oneri fiscali, chi più dell’uomo forte del momento (oppur detto «uomo della Provvidenza» o «unto del Signore») può concedere tutto ciò, in cambio, ovviamente, di un appoggio cattolico alla loro politica? Così la Chiesa, in nome della salvaguardia di «valori non negoziabili» si trova ad avallare governi assolutamente privi di un minimo di decoro e di morale.

Paolo Pombeni – Per essere contro lo «spirito del tempo» bisogna avere o molta fede nel passato o molta fede nel futuro. Mi pare che oggi manchino entrambe. Il passato ha perso ogni attrattiva modellistica in una società che vive nel mito dell’evoluzione continua che fa perdere di significato a ciò che era prima. Nessuno di noi si rammarica di non conoscere un programma informatico superato o di non avere un’automobile fuori produzione. Il futuro è diventato una dimensione misteriosa, perché non crediamo più che sia un’evoluzione in positivo del presente. Di qui il venir meno della nozione di «servizio» che sta alla base di qualsiasi etica pubblica. Se non conta quello che voglio fare io, ma conta come posso essere fruttuosamente al servizio dei miei simili, vuoi con un occhio al passato (le virtù dei padri), vuoi con un occhio al futuro (le virtù per cambiare in meglio la realtà), allora posso chiedere un’etica dei comportamenti perché ho uno strumento di misura. Se non c’è idea di servizio, l’unica misura è un astratto rinvio a un’ascesi personale, ma questa, temo, finisce per esser percepita come una virtù da chiedere ai «santi», mentre per la generalità non può valere più che qualche piccola morale strettamente personale (non a caso una morale «mitica»: indissolubilità dei vincoli matrimoniali, ma con facoltà di chiudere qualche occhio, difesa del principio della vita sin dal concepimento ecc.).

Ha ancora senso, oggi, parlare di Movimento cattolico, in riferimento al laicato cattolico organizzato? Nel tempo, tale organizzazione ha avuto tante forme: oggi sembrerebbe prevalere quella del laicato «regolare» (movimenti), a scapito del laicato «secolare» (di parrocchia, organizzato o no nell’Azione cattolica). Cosa si può auspicare per i nostri tempi? E cosa è ragionevole e realistico aspettarsi?
Giorgio Vecchio – Il «movimento cattolico» è stato tanto variegato da risultare contenitore di gruppi e di singoli anche opposti tra loro (a meno che per «movimento cattolico» si vogliano intendere soltanto i cattolici ultra-ubbidienti e disciplinati). L’eterogeneità e il pluralismo sono sempre stati forti. Il problema mi appassiona piuttosto poco, per l’oggi. L’eterogeneità continua a esistere e nessuno può cancellarla. Non vedo neppure grandi possibilità di incontri e dialoghi intra-associativi, tante sono le divergenze anche sul piano ecclesiologico, oltre che su quello politico (anche sulle grandi questioni etiche e su come affrontarle in termini politici, cioè realistici). Sarei già contento se nessuno si facesse giudice della fede altrui, conservando un minimo di rispetto reciproco, e se la gerarchia riconoscesse in questo pluralismo una ricchezza per tutti, evitando emarginazioni e ascoltando tutti. Lo chiese a gran voce un altro papa Benedetto, il XV, nella sua enciclica Ad Beatissimi1. Quant’acqua è passata sotto i ponti del Tevere…

Daniela Saresella – Anche in questo caso, nessuno ha la sfera di cristallo. Certo è che lo sviluppo dei movimenti nasce dal bisogno degli uomini e dei fedeli di sentirsi protetti in un gruppo, che ti sorregge e ti protegge nelle varie fasi anche difficili della tua vita. Se si fa riferimento a Comunione e Liberazione, non si può dimenticare la logica di lobby con cui si muove, sia nell’università che nel mondo del lavoro. Se sei uno di loro, hai meno difficoltà a trovare un lavoro e a ottenere spazi in vari settori (non ultima l’università). Il mio maestro, il professor Giorgio Rumi, sosteneva che l’adesione a quei gruppi fosse testimonianza di una debolezza personale, perché è più difficile confrontarsi da soli con la propria fede, con la propria fragilità e con le difficoltà del mondo piuttosto che essere organici a un progetto da altri elaborato. Io la penso come lui e aggiungo che auguro a ogni essere pensante il piacere del dubbio e della scoperta piuttosto che la banalità delle certezze.

Paolo Pombeni – Il laicato di parrocchia era legato alla dimensione diffusa della identificazione, anche vaga, nel cattolicesimo come forma di partecipazione alla vita sociale. Questa dimensione è in crisi e dunque torna l’immagine «settaria» della religione, quella del «mondo a parte» che è tipica dei movimenti. I loro membri non possono stare nella società come ci stavano i cattolici di parrocchia, cioè come uomini fra gli uomini, che poi si riuniscono più o meno tutti nelle «festività» in quel luogo, per cui alla fine era solo una forma di servizio particolare alla propria comunità che era al tempo stesso civile e religiosa. I cattolici dei movimenti stanno nella società in quanto inquadrati, ci vanno come i pionieri nelle colonie e di conseguenza appaiono o come aspiranti «conquistadores» che vogliono profittare del loro inquadramento per trasformare una posizione di minoranza in una posizione di dominio, oppure ci stanno come «estranei» che approfittano del «multiculturalismo» per farsi i fatti loro senza grandi pretese di convertire gli altri. Ciò che si potrebbe auspicare è che i cattolici possano ritrovare il gusto di essere «lievito», cioè una cosa che di suo non ha senso se non si mischia alla pasta, ma che alla fine sa che il prodotto che esce dall’incontro non sarà mai etichettato come «lievito» e forse la maggior parte degli utilizzatori non farà neppure la riflessione che, senza di esso, semplicemente non godrebbe di quel prodotto.

Oggi si leva qualche voce (è il caso di Lorenzo Ornaghi, rettore dell’Università cattolica) che auspica un protagonismo cattolico nel segno di un nuovo guelfismo. Risuona in tali voci il mito dell’Italia cattolica, la malcelata pretesa-illusione di una egemonia politica che passa attraverso un depotenziamento anziché una valorizzazione della laicità delle istituzioni e dell’autonomia del laicato cattolico rispetto al ruolo direttivo delle gerarchie. Mentre dalle celebrazioni dell’Unità d’Italia non è lecito attendersi, semmai, una rivalutazione del patrimonio del cattolicesimo liberale e democratico rispetto al vecchio e nuovo intransigentismo?

Giorgio Vecchio – L’articolo di Ornaghi a cui si fa riferimento2 contiene molti spunti di discussione, su parecchi dei quali si può consentire.
Ma sull’ipotesi di un nuovo«guelfismo» – che Ornaghi fa discendere dalla convinzione che, nella storia italiana unitaria, «gli essenziali e più duraturi elementi sono religiosi, cattolici» e che i cattolici d’oggi hanno la responsabilità di garantire «la perennità dell’Italia cattolica e la sua esemplarità nei confronti di altre nazioni» – è lecito porre molti interrogativi, a cominciare da quelli sul presupposto di partenza. Siamo sicuri che «noi cattolici disponiamo di idee più appropriate alla soluzione dei problemi del presente»? Io direi che i cattolici possono oggi avere soluzioni efficaci su alcuni punti (penso ovviamente a tutto il tema del volontariato e della carità sociale, o sull’idea di uno Stato solidale e «sussidiario»), ma poi? E non vedo francamente in circolazione tante proposte «cattoliche» su economia, politica estera ecc. E ancora, possono esistere «soluzioni cattoliche» su questi temi? Infine: esiste davvero oggi una «posizione di vantaggio culturale» dei cattolici italiani?
In questo senso persiste quello spirito di autosufficienza che troppe volte ha portato la Chiesa a commettere errori di valutazione e peccati di orgoglio. Si era sperato che il Vaticano II avesse cancellato questa tentazione, ma non è così. Anche questa, dunque, è una di quelle persistenze della storia italiana cui Ornaghi fa riferimento.
La storia ci dimostra che il contributo dei cattolici è stato maggiore allorquando i valori della fede non hanno preteso l’autosufficienza nella traduzione pratica, ma hanno recuperato stimoli e idee altrui, dando vita a originali sintesi (il cattolicesimo liberale e/o democratico in politica, ma anche la presenza sociale, il pacifismo, l’emancipazione femminile…).

Daniela Saresella – È ovvio che sarebbe auspicabile un recupero di alcune sollecitazioni del cattolicesimo liberale, come anche delle riflessioni di pensatori come Maritain e Mounier. Ma la Chiesa, dopo le aperture di Giovanni XXIII e di Paolo VI, si è rinchiusa nella difesa del passato e nella rivendicazione della propria superiorità dottrinale ed etica. Con Giovanni Paolo II si è conclusa l’epoca del dialogo e del confronto e si è inteso riproporre una concezione che, chi ha sperato nel Concilio, sperava di non dover più veder riproposta. In particolare il neoguelfismo mi pare espressione di una cultura cattolica incapace di rapportarsi con le sfide di un mondo in rapido cambiamento. È un po’ come è accaduto alla fine dell’Ottocento, quando si è inteso riproporre una struttura economica imperniata sulle corporazioni medioevali. Murri si accorse subito che il proletariato italiano non avrebbe seguito tale prospettiva e cominciò a organizzare sindacati cattolici di classe. Il passato non si può riproporre e il presente è un’ineluttabile realtà.

Paolo Pombeni – Di per sé chiedere un nuovo protagonismo cattolico non è necessariamente una domanda di ritorno al vecchio «intransigentismo» o al nuovo guelfismo. La politica è fatta da gruppi che, sulle famose honourable connexions citate da Burke3, costruiscono la forza necessaria per contribuire al «ben-essere» della propria società. Non mi pare giusto negare che questa spinta possa venire anche dal riconoscersi in una comune matrice culturale. Ovviamente questa «offerta» di aggregazione andrà fatta erga omnes, perché il «movente» religioso in materia civile ragiona in un’ottica «umana» («Date a Cesare»). Però, ovviamente, non è detto che questo appello, in un mondo che ha difficoltà ad accogliere quella filosofia del «servizio» di cui dicevo, possa necessariamente trovare subito l’ascolto ampio che sarebbe auspicabile. Anche il cattolicesimo democratico dell’età della Costituente fece sì una proposta che in seguito è divenuta patrimonio comune, ma la fece a partire dalla forza di un’organizzazione che traeva origine dalla capacità «identitaria» del movimento cattolico. Quello che oggi non mi pare accettabile per ragioni di principio e sbagliato sul piano politico è che la gerarchia cattolica si metta lei a programmare il ritorno in campo dei cattolici in quanto tali. La titolarità dell’azione nello spazio pubblico è dei laici, perché è ad essi che si richiede quel particolare tipo di «servizio». La gerarchia ha altri servizi da espletare e se ci si dedica a fondo ne guadagna senz’altro.

In questi 150 anni due svolte storiche sono state realizzate dalla Costituzione della Repubblica e dal Concilio Vaticano II. I cattolici laici «della Costituzione e del Concilio» sembrerebbero essere oggi una parte e non il «tutto» del laicato cattolico. È così? Perché? Con quali luci e ombre?
Giorgio Vecchio – Intanto quelli che vengono definiti i cattolici laici «della Costituzione e del Concilio» sono sempre stati minoranza nel grande corpo della Chiesa. Due esempi noti: De Gasperi era solo di fronte a Gedda e a Pio XII, Moro solo di fronte a Siri… L’azione di questi uomini si è scontrata con le resistenze di una gerarchia sorda a ogni reale forma di autonomia del laicato e preoccupata di conservare, anzitutto, le prerogative dell’istituzione. La capacità loro fu quella, a un dato momento, di costringere la gerarchia ad adattarsi, imponendo ai cattolici italiani un’egemonia pur provvisoria, ma efficace. Però oggi non vedo chi possa compiere tali operazioni. E, poi, su quale progetto? Con quali obiettivi? Esiste una reale povertà su questo terreno, la cui colpa non può però essere fatta ricadere sulla sola gerarchia.

Daniela Saresella – Chi studia l’Istituzione ecclesiastica nel suo sviluppo attraverso i secoli, si accorge che la Chiesa non è mai un blocco monolitico. Il fatto stesso che la Chiesa sia composta da congregazioni, che abbia avuto filosofie diverse, ma soprattutto che sia composta da uomini, ognuno distinto dall’altro, è garanzia di un pluralismo interno, di cui il pontefice dovrebbe rappresentare la sintesi. In effetti i «cattolici conciliari» sono ora marginali nella Chiesa e ciò a causa delle scelte compiute dagli ultimi due pontefici, che hanno preferito valorizzare i movimenti, in primis Comunione e Liberazione. Ma io penso che le buone ragioni abbiano sempre la possibilità di affermarsi e che nel futuro i cattolici «della Costituzione e del Concilio» avranno occasione per ritornare ad assumere un ruolo rilevante nella Chiesa e nella società.

Paolo Pombeni – Distinguerei i due termini della questione. Per un cattolico essere dalla parte della Costituzione non è un dovere. Si può andare in paradiso anche credendo a teorie politiche diverse da quelle affermate dalla nostra Carta: sul piano della realtà politica lo ritengo un atteggiamento poco intelligente, ma Dio giudica sui cuori e non sulle intelligenze (penso: per fortuna nostra). Il Concilio è cosa diversa, perché è un momento di ricerca del suo essere profondo, da parte della Chiesa al massimo livello, e metterlo in discussione richiede dei passaggi istituzionali a cui un credente è tenuto. Non penso ovviamente che i Concili siano infallibili in tutto quel che hanno detto (e di conseguenza non lo è neppure il Vaticano II), ma essi sono un’opera dello Spirito che risponde a esigenze particolari e difficilmente interpretabili, per cui devono venire elaborati all’interno della stessa dialettica dello Spirito. Detto questo, dal punto di vista storico ritengo che l’attuale marginalizzazione dei due «spiriti» (con la s minuscola) che hanno retto la fase costituente, quella conciliare e immediatamente post-conciliare sia frutto di una regressione: non perché mettono in discussione cose indiscutibili, ma perché privano i cattolici di due «tradizioni» che hanno consentito loro di inserirsi nel senso della storia senza che abbiano davvero a disposizione qualcosa di alternativo. Credo che questo avvenga per una mancanza di coraggio verso il futuro. In quei due momenti c’era una visione positiva, un’attesa di speranza verso quello che sarebbe venuto dopo, si riteneva che si sarebbero aperte delle «epoche nuove». Oggi di speranza non ne abbiamo più, il futuro è una incognita cupa e quindi quasi irrita ricordare che in altri tempi ci furono uomini che ebbero quel coraggio che a noi manca.

Il crollo del «materialismo teorico» novecentesco (ateismo filosofico e di Stato, neopaganesimo razzista, Stato etico) non ha coinvolto il « materialismo pratico» che anzi – con il neoliberalismo egemone – trionfa globalmente. Il cattolicesimo italiano è consapevole di questa sfida? Ne è all’altezza?
Giorgio Vecchio – Azzardo un giudizio drastico: raramente i cattolici italiani hanno capito per tempo quel che stava succedendo, dal significato dell’avvento del fascismo alle implicazioni insite nella comparsa della TV, dalla valutazione realistica di cosa avrebbe comportato la società dei consumi, agli effetti dell’irrompere del craxismo e del berlusconismo. A loro difesa, va detto che in questo sono sempre stati in buona e ampia compagnia. Concesso che è sempre molto difficile cogliere al volo i cambiamenti epocali, perseverare non è angelico… Il materialismo pratico è oggi dentro i credenti, come dimostra il rapporto schizofrenico sui temi della morale – pubblica e privata –, della ricchezza, della carità quotidiana. Su questi temi, già tanti anni fa, Scoppola aveva fatto pertinenti osservazioni su una Chiesa schierata in battaglia contro il comunismo e sorpresa alle spalle da un nemico tutto diverso: la società dei consumi.

Daniela Saresella – Purtroppo penso di no. La Chiesa italiana del periodo di Ruini ha posto attenzione solo sui cosiddetti «valori non negoziabili», concentrandosi sulle questioni della sessualità, della procreazione assistita, dell’eutanasia ecc. Ha perso, mi pare, la propria capacità di comprendere le contraddizioni della società, rappresentate dai problemi della marginalità sociale, del lavoro, dell’immigrazione. Quando faccio questa affermazione, devo ovviamente escludere i molti «cattolici conciliari», preti e laici, che non hanno mai smesso di impegnarsi sul territorio e a favore dei «poveri». Bisogna anche dire che, negli ultimi tempi, pare che anche settori della Chiesa abbiano cominciato a riconsiderare le posizioni assunte negli ultimi decenni e che interessanti articoli appaiono sull’«Avvenire», oltre ovviamente su «Famiglia cristiana» e «Jesus».

Paolo Pombeni – Temo che dopo la fine delle ideologie sia arrivata la fine dei valori. Naturalmente questa è una iperbole, come lo era la prima: le ideologie non sono finite e i valori neppure, ma si sono fortemente appannati. L’eterna domanda dell’uomo veramente religioso non è quella sulla morale, ma quella sul significato della vita, secondo la nota risposta dei discepoli al Maestro che chiedeva se volessero andarsene anche loro: «Da chi andremo Signore? Tu solo hai parole di vita eterna». Siccome la Chiesa oggi fa fatica a parlare della «vita eterna», si deduce che lo faccia perché gli uomini dei nostri tempi sono poco interessati al problema. Il cattolicesimo italiano è poco consapevole della sfida che lo riguarda e quindi è assai timido a considerare il tema di un regno diverso da quello in cui viviamo, interpretandosi solo come un agente di controllo e di «disciplinamento» delle possibili trasgressioni più socialmente dissolventi (o almeno che lui giudica tali). Il problema è che viviamo in un’epoca che non accetta la condizione di ambiguità dell’uomo, il suo essere al contempo legato alla sua dimensione «materiale» e a quella «spirituale». In conseguenza non sa come interpretare questa difficile condizione: gli manca un’antropologia forte e fa fatica ad essere all’altezza di una componente sociale realmente capace di dare delle risposte alle angosce dell’uomo d’oggi e alla sua scelta di drogarsi nella ricerca dei beni materiali come unica risposta possibile. Quest’analisi non stupisca: le risposte non sono quelle dei saputelli di turno che cercano le soluzioni in «formule» tratte da manuali buoni per tutte le stagioni, ma sono quelle di chi ha la capacità di condividere, di rispondere per angosce che hanno scavato anche il suo animo e inciso sulla sua pelle. Per rispondere ci vuole «sun-pathein», capacità di condividere il pathos, simpatia verso l’altro. Se manca, non si risponde, si recitano giaculatorie magiche.

La storia del cattolicesimo italiano mostra non solo che c’è sempre stato (in forma minoritaria o più diffusa) un pluralismo politico, ma anche che, spesso, alcuni settori ecclesiali (non solo laicali) hanno avuto rapporti difficili e contrastati con la gerarchia. Qual è oggi la situazione? In che misura e in che forma esiste un disagio nei confronti della «chiesa docente»? Di chi e perché?
Giorgio Vecchio – Il pluralismo politico è sempre esistito in Italia, fin dal Risorgimento. Perfino il 18 aprile 1948 non si raggiunse un’unità assoluta dei cattolici, anche se la si sfiorò. Il guaio è che la Chiesa, nel suo complesso, non è mai stata capace – o non ha mai voluto – ragionare seriamente sul tema del pluralismo politico. Così, dall’unità attorno alla Dc – proclamata anche fuori luogo e senza molto discernimento – si è arrivati a un pluralismo «diseducato» e accolto solo in quanto accompagnato da un impegno politico diretto della gerarchia. Ma il pluralismo dei cattolici rimane e bisogna pure interrogarsi sui suoi limiti: per un credente esiste o no un rapporto tra fede e prassi politica (sia pure soltanto nell’esercizio del diritto-dovere di voto)? Un credente può votare/sostenere un movimento razzista, stalinista, nazista (faccio solo gli esempi più estremi, per comodità)?
Anche al pluralismo politico bisogna educarsi.

Daniela Saresella – Rispetto agli anni Settanta la contestazione nella Chiesa, ora, sembra assente, non solo perché coloro che hanno il coraggio di discostarsi dalle indicazioni romane sono pochi, ma anche perché si è concluso nelle società occidentali il ciclo della «contestazione». La svolta in questo senso è stata rappresentata dalla salita al soglio pontificio di Giovanni Paolo II e dalle posizioni da lui assunte nei confronti della Chiesa latinoamericana e in particolare della Teologia della Liberazione.
Ciò che mi colpisce degli ultimi anni è che, nonostante il capitalismo abbia dimostrato con la recente crisi tutti i propri limiti e le ingiustizie che crea nel mondo, non sia nato un movimento globale di protesta. Né la Chiesa ha saputo, o voluto, criticare a fondo tale sistema e individuare strade alternative. Di fronte al problema del sottosviluppo dei Paesi del sud del mondo, Paolo VI elaborò la Populorum progressio4 che cercava di comprendere i problemi e di suggerire nuove prospettive. Ora il mondo mi sembra stordito e incapace di affrontare una crisi globale di cui non comprende i contorni e non riesce a individuare i rimedi. Non voglio sottovalutare esperienze interessanti come quelle di Noi siamo Chiesa, o dei movimenti per la pace, ma certo mi sembra che, nonostante la debolezza della Chiesa ufficiale, le proposte religiose e culturali alternative non abbiano una grande forza.
Paolo Pombeni – Una situazione dialettica all’interno del cattolicesimo è inevitabile, perché nessuno ha il possesso della verità, nessuno conosce davvero dove va la storia. La maggiore o minore tensione per la presenza del pluralismo inevitabile dipende dalla «modestia» di tutti verso la presunzione di conoscere la verità. Oggi siamo purtroppo sovrastati da tante presunzioni, incluse quelle di una parte della gerarchia che fatica a capire che la ricerca della verità è un’operazione collettiva e storica in cui tutti siamo a un tempo docenti e discenti. Questo vale specialmente per il campo politico dove è impossibile stabilire a priori cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, eccetto alcuni casi limite. Spesso ciò che appare giusto oggi si rivelerà sbagliato per domani e viceversa. La situazione attuale è quella di una transizione storica epocale che sta mutando tutti i nostri parametri e non sappiamo ancora come e quale sarà la loro stabilizzazione relativa (quella finale esiste solo dopo l’apocalisse). Di qui un grande disagio da parte di molti verso una «chiesa docente» che, invece di accompagnare l’uomo con il sostegno della fede nel suo tormentato passaggio verso il futuro, pretende di impartire ricette e di spiegare quel che essa stessa non sa. Per di più lo fa in un campo come la politica dove è costretta a mescolare le esigenze della gestione della propria presenza come istituzione pubblica (cosa non malvagia e anzi inevitabile) con l’ambizione di «dare lezioni» per stabilire e rinforzare il proprio potere mondano.

1 Cfr. Benedetto XV, Ad Beatissimi, 1914.
2 Cfr. L. Ornaghi, L’Italia e l’esigenza di un nuovo guelfismo, in «Vita e pensiero», 2011.
3 Cfr. E. Burke, Pensieri sulle cause dell’attuale malcontento (trad. dall’inglese), Ecig, Genova 1987.
4 Cfr. Paolo VI, Populorum progressio, 26 marzo 1967.