Appunti 6_2010

Le primarie sono previste dallo statuto del Pd per la scelta dei leader e dei candidati locali e nazionali. Ma tutti, nel Pd, hanno la stessa idea di primarie? E se sì, qual è? Come si concilia la logica delle primarie con la cultura, che nel Pd è prevalente, delle scelte importanti affidate solo alla segreteria del partito? Proponiamo una riflessione sulle incertezze e sulle contraddizioni delle “primarie all’italiana”.

Primarie? Considerazioni    pertinenti e impertinenti
Fulvio De Giorgi

Al momento in cui scrivo non si sa se ci saranno elezioni politiche anticipate e se perciò gli elettori del centro-sinistra saranno chiamati a votare per scegliere il loro leader, con il meccanismo delle primarie.
Si sa che Vendola è candidato alle primarie, ma non si sa bene di quali primarie si parli e di quando si debbano svolgere. Si sa pure che il segretario del Pd pro-tempore è pure candidato, per statuto. Si sa infine che Bersani pensa a primarie per eleggere il leader del centro-sinistra (Pd, Sinistra e libertà, Italia dei valori e forse altri?), ma pare di capire che questo non sarebbe il candidato premier perché il centro-sinistra dovrebbe stabilire un’alleanza elettorale – e forse di governo – con il centro (Udc e altri raggruppamenti minori).
Non si tratta di un processo semplice e lineare, ma tant’è! L’Italia e la sua politica sono complicate ed è inutile stare a lamentarsi.
Dunque parliamo di primarie di coalizione: ma solo se non c’è alcuna riforma elettorale e si rivoti col porcellum. Un eventuale cambiamento della legge elettorale, infatti, modificherebbe tutto lo scenario e, a seconda della strada seguita, potrebbe perfino rendere inutili le primarie. Insomma siamo in un campo se non incerto, indubbiamente ipotetico.

Far emergere (politicamente)  il sommerso

Tuttavia non mi pare inutile svolgere qualche riflessione, partendo da quello che credo sia l’obiettivo serio che, per responsabilità civile, dobbiamo assumere: portare al governo del paese quella che da anni è la maggioranza degli elettori, cioè tutti coloro che non hanno votato Berlusconi. È giusto, è democratico, è civilmente sopportabile che per un lungo tempo la maggioranza degli italiani sia all’opposizione? Perché così indubbiamente è: si controlli sul sito del ministero dell’Interno. In tutte le ultime consultazioni elettorali, gli elettori dei partiti oggi al governo non superano mai il 50%: sono cioè la minoranza.
Naturalmente ciò si verifica per motivi politici, cioè perché tale vera maggioranza di italiani è internamente divisa e non ha un progetto politico unitario. È chiaro che la road-map disegnata da Bersani tiene conto di questo e cioè della necessità di mettere insieme, per approssimazioni successive di alleanze, tutti i pezzi del puzzle che oggi è all’opposizione. Ma, ancora una volta, si segue una logica puramente formale da raccordo di pezzi di classe dirigente. Sia chiaro: non dico che Bersani abbia torto. Riconosco che la sua proposta è frutto di un serio ragionamento politico: ci vedo dietro la lucida logica del ragionatore D’Alema, ma non mi disturba. Il problema, tuttavia, è che non basta solo un ragionamento interno al sistema politico, quasi fosse una partita a scacchi o uno «schema» togliattiano. È necessario, ma non è sufficiente: forse non è neppure la cosa più importante. Altrimenti si rischia, alla lunga, di avvitarsi in logiche arroganti e di puro potere che conducono allo sfascio. Anche De Mita – chi può negarlo! – è stato un lucido ragionatore di politica (ricordate l’intellettuale della Magna Grecia di agnelliana memoria?): ma da lui è partita la fase terminale della Dc. Oggi D’Alema corre gli stessi rischi di De Mita… Un De Mita togliattiano? Siamo nella taratologia politica comparata…
Allora quello che ci vuole non è solo un ragionamento interno al sistema partitico, alle sue logiche, alle sue classi dirigenti, alle sue frantumazioni. Ci vuole una considerazione più profonda. La esprimo in termini semplici: quale cultura politica è – non dico migliore, non è un problema di giudizio di valore – la più adeguata a porsi, insieme, come collante dell’area di attuale opposizione e come sintesi alta che parli alla mente e al cuore della maggioranza degli italiani che non ha votato per i partiti che sostengono l’attuale governo? Problema formidabile. Forse senza risposte?

Ma proviamo a rispondere

A me pare che la risposta ci sia: il cattolicesimo democratico di sinistra. Quello, per capirci, che è stato ben rappresentato da Prodi e che infatti ha già battuto due volte le Destre. Attenzione: certo Prodi è una figura di grande statura, che perciò ha sempre avuto la nostra ammirazione e il nostro appoggio. Ma forse ha vinto non solo e non tanto per le pur indiscutibili doti personali, bensì perché rappresentava – al meglio – il cattolicesimo democratico. E il cattolicesimo democratico viene percepito, in generale, come serio e affidabile sul piano del governo (qualcuno direbbe della moderazione) ma anche fermo e radicato nei valori di giustizia sociale, libertà, laicità e pace (in grado, cioè, di dire «cose di sinistra»).
I cattolici democratici hanno fatto, nel secolo scorso, due scelte fondamentali: contro il fascismo prima (Sturzo, Ferrari, Olivelli e i partigiani cattolici), contro il comunismo poi (De Gasperi). Hanno costruito il welfare State italiano (Dossetti, La Pira, Fanfani, Moro), con le sue debolezze certo: ma anche facendo fare a questo paese la sua «grande trasformazione». Hanno sviluppato una cultura sindacale, ma anche una cultura dello Stato. Sono stati dunque democratici, sempre. Cioè, per dirla con Moro, hanno cercato la democrazia in senso politico, in senso sociale e in senso «largamente umano». La Costituzione della Repubblica ha (si pensi all’art. 3) un importante timbro egualitario, personalista e solidarista, soprattutto grazie all’impegno dei costituenti cattolici democratici, che escludevano sia l’individualismo liberista sia il totalitarismo comunista.
Questa è la storia italiana. Ora, se il Pd di Bersani, D’Alema, Veltroni e di Bindi, Franceschini, Marini e Follini (cito solo alcuni) vuole, come ha la responsabilità di fare, porsi alla testa delle opposizioni, con quale linguaggio potrà parlare a Di Pietro e a Vendola, prima, e a Casini poi?
Non si vuole, con questo, fare un meschino e gretto discorso di esaltazione di un «segmento politico» (né tanto meno di pezzi di ceto dirigente: oggi i cattolici sono dispersi in tutte le componenti interne del Pd) e non si vuole negare il contributo alla storia democratica della Repubblica delle altre grandi tradizioni popolari: quella laica-socialista e quella comunista. Ma chi si può salvare di tali storie? Proprio coloro che cercarono il dialogo e l’incontro con i cattolici democratici: tra i laici e i socialisti La Malfa, Nenni, Giolitti, che con Moro vararono il centro-sinistra, non certo Craxi, che vedeva come fumo negli occhi il cattolicesimo democratico; tra i comunisti Berlinguer, che cercò con Moro e Zaccagnini di aprire una pagina nuova nella storia d’Italia, non certo Togliatti e Longo. Si badi, a questo proposito, che Berlinguer non ricercò – come voleva Ingrao – l’incontro con le «masse» popolari cattoliche, né – come voleva Amendola – l’accordo con i politici «socialisti» e laici: ricercò l’incontro e l’accordo con i «politici cattolici democratici».

Un linguaggio democratico condiviso

Non è, il mio, un discorso nostalgico, vetero-novecentesco: un discorso, diciamo, ideologico. Al contrario. A parte che difficilmente, anche per il Novecento, il cattolicesimo democratico può essere considerato un’ideologia (come liberalismo, socialismo, comunismo) quanto, piuttosto, una sensibilità, una cultura politica, una costellazione di valori etico-civili. Ma, soprattutto, il cattolicesimo democratico è oggi l’unica koinè popolare unitaria che possa far parlare un linguaggio politico, anzi etico-politico, a tutta l’opposizione. Se c’è una sensibilità civile e un costume intellettuale che sono l’esatta antitesi delle Destre (e che possono essere facilmente percepite come tali dagli elettori) sono quelle espresse dalla tradizione cattolico democratica. Se ne è accorto, con notevole fiuto, lo stesso Berlusconi. Ricordate come appellava Prodi? Catto-comunista di scuola dossettiana. Era il modo per esprimere – con un lessico insieme rozzo e povero di cultura politica nonché volutamente polemico – una viscerale e totale antitesi al cattolicesimo democratico.
C’è da dire che la segreteria Veltroni aveva compreso questo, ma per un limite (forse di ascendenza ingraiana?), evocava don Milani e Dossetti monaco, cioè le espressioni religiose e spirituali a cui il popolo cattolico democratico era affezionato, ma non parlava dei politici cattolici democratici: i riferimenti dovevano essere De Gasperi, Moro, Zaccagnini.
Questo, allora, cosa vuol dire? Posto che la stagione di Prodi è conclusa, chi può rappresentare questa cultura politica che si fa vocabolario comune, lessico condiviso per l’alternativa di governo alle Destre? Bersani? Mi pare che sia chiaro che tale rappresentazione non sarebbe né naturale né credibile.

Qui ti voglio

Ecco allora: mi aspetto che Bersani – recuperando lo spirito di Berlinguer non quello ingraiano-veltroniano ma neppure quello togliattiano-amendoliano di D’Alema – faccia un passo indietro e candidi alla guida della coalizione Rosy Bindi, che finora – peraltro – è sempre stata molto leale nei suoi confronti e che oggi, dopo Prodi, è l’esatto opposto di tutto ciò che incarna Berlusconi, come egli stesso – con il suo sarcasmo greve e maleducato – non manca di sottolineare.
Naturalmente mi rendo conto che, in una visione da apparati e nelle logiche di ceto politico, a questo punto il mio discorso viene automaticamente invalidato. Ecco che viene fuori! Ha costruito ad hoc tutto il discorso tagliandolo sulla Bindi! Non mi interessa però quello che si potrà pensare (e che potrà pensare la stessa Bindi). Credo che un ragionamento sulle candidature e sulle persone sia cieco senza un discorso più ampio di riferimento. Ma credo pure che un solo discorso generale sia vuoto se non si fa lo sforzo di indicare una possibile personalità che lo incarni. Perciò corro il rischio.
Ma a questo punto, divento spericolato e corro un nuovo e più grave rischio. Immaginiamo che Bersani, pur con tanti meriti (che – sia chiaro – gli riconosco), rimanga prigioniero del suo ragionamento politichese (e politicistico) e non acceda a considerazioni più ampie. Allora rivendico la coerente libertà per chi, come me, si riconosce nel Pd e partecipa alle primarie ma non è iscritto, di appoggiare – da elettore Pd – Nichi Vendola.
Chiediamoci onestamente: chi può essere più in sintonia con i sentimenti, i valori e la cultura cattolico democratica, Bersani o Vendola? A me pare che la risposta non sia dubbia.
Il cattolicesimo democratico pugliese ha dato all’Italia Aldo Moro. Ora, la personalità – anche politica – di Moro non si comprende storicamente se si prescinde dall’ambiente pugliese, da quella piccola borghesia intellettuale che allora si affacciava ad un certo protagonismo sociale, da personalità di sacerdoti che furono amici di Moro, come don Michele Mincuzzi, poi vescovo ausiliare di Bari (e, alle spalle di Mincuzzi, sarebbe pure da ricordare la pedagogia antifascista di Giovanni Modugno). Mincuzzi è stato poi trasferito nel Salento. In quel periodo (in cui, tra l’altro, partecipò a convegni promossi dalla Lega democratica) Mincuzzi valorizzò – fino a proporlo, con successo, all’episcopato – un giovane prete del basso Salento, don Tonino Bello, poi vescovo di Molfetta. Ebbene, non si comprende oggi – in modo non superficiale ma profondo – la personalità di Vendola se si prescinde dall’ambiente pugliese, da quella piccola borghesia intellettuale che ha attraversato una singolare parabola sociale e anche, lo dico con certezza, dall’humus spirituale che in terra di Bari (anche se non in diocesi di Bari) ha saputo radicare don Tonino Bello.

E perché no?

Dico, allora, non da comunista o da rifondante comunista, ma da cattolico democratico, elettore del Pd che vuole restare tale (e non votare per «Sinistra e libertà»): perché dovrei sentirmi più vicino, meglio rappresentato da Bersani e non da Vendola? Perché dovrei pensare che Bersani riesca meglio di Vendola ad arrivare al cuore e alla mente della maggioranza degli italiani che non vota per le Destre?
Certo se Vendola dovesse riferirsi al comunismo, allora sì che ci sarebbe poco da dire: film già visto – senza lieto fine – nel secolo scorso. Così pure non può bastare che Vendola si ispiri – come faceva Veltroni con don Milani – all’esperienza spirituale di don Tonino Bello. Anche lui dovrà fare il suo percorso di crescita, se vorrà porsi come leader di tutto il centro-sinistra. E allora mi aspetto che sappia fare i conti con i «politici» cattolici democratici: per riferirmi solo ai meridionali, ricordo Sturzo, La Pira e Moro. So bene che Vendola – giustamente – guarda al futuro e che questo discorso, lo dico ancora una volta, può apparire troppo condizionato dal passato.
Ma veramente crediamo che un grande partito, un grande progetto di governo, un grande leader possano venire dal nulla e non avere un radicamento storico profondo? Veramente il modello berlusconiano ci ha così contagiato? Veramente pensiamo che non ci sia una sedimentazione di cultura politica (che rappresenta peraltro un patrimonio da non dissipare)?
Se non si sa da dove si viene, non si sa dove si va. E si finisce, amici miei, per non andare da nessuna parte.

P.S. E se poi vogliamo proprio dirla tutta, perché dobbiamo privarci del ticket Bindi-Vendola? Non priviamoci, ma proviamoci!