Appunti 5_2010

Si torna a discutere di legge elettorale. Questione delicata e importante quant’altre mai nello scenario politico, ma anche questione dai risvolti tecnici ardui e oscuri, che appassiona un piccolo gruppo di tecnici delle regole e dei numeri. Questione poi che, come spesso succede in politica, riveste spesso caratteri proclamatori e retorici che vanno ben al di là della sostanza dei problemi. Questione di cui bisogna quindi occuparsi, per decodificare la situazione attuale e le sue radici storiche, vincendo qualche resistenza e qualche pesantezza provocata da una sensazione di «déjà vu» stanco e trito che accompagna il (modesto) dibattito finora avviato.

Riparliamo di legge elettorale

Guido Formigoni

Come è riemerso il problema della legge elettorale? Causa diretta è la crisi ormai palese del berlusconismo, con conseguente rottura della maggioranza e l’ipotesi pendente di accelerazione della crisi politica. Lo spettro di possibili nuove elezioni anticipate ha coagulato una posizione che rifiuterebbe di andare a votare senza un cambiamento delle regole, e quindi ipotizza un governo tecnico di transizione, che avrebbe appunto come punto predominante del programma la riforma della legge elettorale. Cioè del cosiddetto «porcellum» (il copyright della definizione è di Giovanni Sartori), legge elettorale del 2005, cucinata dal ministro Calderoli per conto della maggioranza di destra e del suo capo, Silvio Berlusconi. Ne ricordiamo la sostanza: liste di partito, distribuzione proporzionale dei voti con vistosa correzione maggioritaria alla coalizione vincente (nazionale alla Camera, regionale al Senato), soglie di sbarramento diversificate per chi è coalizzato e chi no, liste bloccate senza vincoli alle candidature multiple. Legge che certo raccoglie molteplici aspetti del tutto negativi, sdegnosamente condannata a suo tempo dalle opposizioni (dagli allora Margherita e Ds fino alla sinistra radicale), le quali però si sono ben guardate dal fare della sua modificazione una priorità, durante la travagliata legislatura del 2006-2008, contraddistinta dalla vittoria elettorale dell’Unione di Prodi.
Il problema è che l’ipotetica riforma del «porcellum» è per ora poco più che una ipotesi di scuola, perché gli eventuali sostenitori in parlamento di un governo di transizione post-berlusconiano (diciamo, da Fini al Pd) non hanno finora – scriviamo ai primi di ottobre – espresso uno straccio di tendenza comune in materia. E quindi si continua a discutere in via molto teorica. E facilmente non si approderà a niente. Ma tant’è.

Lo sfondo del problema: l’alibi delle regole

A me sembra però che la discussione sia molto condizionata da alcune torsioni particolari che la questione ha assunto negli ultimi vent’anni. Per capire qualcosa occorre quindi fare un passo indietro e accennare ai problemi incistati su questo dibattito.
In primo luogo, abbiamo un sistema politico che ha caricato sulle regole di ogni tipo, più o meno strumentalmente, tutto il peso delle difficoltà di gestione della politica nei tempi della post-modernità o della globalizzazione. Siccome non è facile esprimere posizioni chiare, raggiungere capacità di traino dell’opinione pubblica, mediare tra istanze sociali, economiche e territoriali diverse, costruire sintesi capaci di indirizzare la soluzione di problemi complessi e a volte sfuggenti, si cercano gli alibi per le difficoltà nel malfunzionamento delle regole, e parallelamente si carica di valenze salvifiche una qualsiasi modificazione delle stesse. L’esempio più chiaro è quello dell’attuale presidente del Consiglio, che attribuisce ogni suo fallimento, rinvio, logoramento, inefficienza, ai lacci e lacciuoli del sistema, dei giudici, dei partiti, dei professionisti della politica, del presidente della Repubblica, del parlamento e via di questo passo. Le regole perverse non lo fanno governare…
Qualcosa di analogo avviene quando si parla della legge elettorale come toccasana di tutti i mali, strumento che finalmente può indurre alla modificazione del sistema politico, gabbia di ferro che può sanare le storture di un paese altrimenti irreformabile. Questa retorica si è introdotta in Italia fin dalla crisi della prima stagione politica repubblicana, negli anni ’80. I mali dei governi instabili, della partitocrazia, della mancanza di alternanza, furono messi in capo in buona parte al proporzionalismo storico (trascurandone o almeno sottovalutandole pericolosamente altre motivazioni altrettanto pesanti, quali il blocco dell’alternanza), e la riforma maggioritaria divenne il talismano della felicità. Trascurando una banale considerazione: le leggi elettorali nella storia sono sempre stati strumenti che esprimevano e rafforzavano un dato assetto socio-politico emergente, prima che modificarlo, e che ottenevano casomai risultati di ulteriore assestamento del sistema solo lentamente e in misura modica. Il proporzionalismo affermatosi nel 1919 in Italia e poi – dopo la sconfitta del 1923 e la parabola totalitaria fascista – tornato incontrastato sulla scena nel 1946, non era una ricetta teorica: era l’espressione diretta di un fenomeno maturato decenni prima nella società italiana, la crescita di partiti di massa a forte radicamento sociale e con connotati ideologici chiari, che intendevano spazzare via il notabilato, i personalismi e gli élitarismi della politica liberale ottocentesca. Oggi quindi, prima che affidarsi al taumaturgo delle regole, occorrerebbe chiedersi se e come sia possibile avviare, sostenere o assecondare un percorso di modificazione della realtà paragonabile a quello, per poi mirare a darsi uno sbocco di regole coerenti ed efficaci nell’incanalare l’eventuale spinta nuova della politica.
Del resto, che le regole non bastino a ingabbiare i sistemi ce lo dicono anche gli esempi stranieri. Le recenti elezioni britanniche sono un caso da manuale: la patria della stabilità di governo e del bipartitismo, da tutti i teorici di questa materia spiegato in gran parte con il sistema elettorale maggioritario uninominale a turno secco (chi vince un collegio prende il rappresentante, senza alibi né ripensamenti, il che conduce a un parlamento diviso tra due grandi partiti che si contendono il governo), non solo è stata condotta dal risultato elettorale a un inedito governo di coalizione tra due partiti, come il conservatore di Cameron e il liberal-democratico di Clegg. Ma ha visto addirittura la costituzione dopo le elezioni di un’alleanza largamente imprevista prima di esse: l’aspettativa precedente – che quindi aveva orientato l’elettorato nella sua scelta – era infatti piuttosto quella di un’alleanza liberal-laburista. Altro che elettore sovrano! E si potrebbe continuare con altri miti da sfatare, come quello secondo cui il proporzionalismo non sarebbe compatibile con il bipolarismo: il caso della Germania sta a mostrare in larga parte il contrario.
Quindi, la prima domanda che occorre fare a chi propone una riforma elettorale è: ma quale trend politico reale si vuole accompagnare e favorire? Oppure ci si illude di crearne uno nuovo senza considerare la pesantezza delle tendenze di fatto presenti nel sistema? Perché se l’approccio è il secondo, è palese che l’obiettivo è illusorio.

L’intreccio tra rappresentanza e governabilità

In seconda battuta, al fondo di ogni legge elettorale c’è un intreccio tra il problema della rappresentanza e quello della governabilità. Il meccanismo di trasformazione dei voti – e quindi del consenso ottenuto dall’offerta politica, apparecchiata dagli attori della scena – in seggi, e quindi in rapporti di forza in parlamento, attraversa queste due dimensioni. Struttura la realizzazione della rappresentanza, che è sempre ben più di una delega del popolo sovrano a qualcuno che «rappresenti» i propri interessi (questione legittimamente individualistica-pluralistica): è sempre anche scelta di come «rappresentare», mettere in scena, la forma unitaria della democrazia (questione sistemica quant’altre mai). E contribuisce nel frattempo a orientare la scelta della governabilità, aiutando il consenso espresso a realizzare maggioranze parlamentari (rappresentative) e quindi basi reali del governo di una democrazia. Quando queste due dimensioni sono in equilibrio, potremmo ritenere la situazione fisiologica, quando invece l’equilibrio si spezza, la crisi è alle porte.
A me sembra che recentemente tutto il dibattito sulla legge elettorale si è caricato di uno squilibrio notevole, quando il discorso sulla governabilità ha cominciato a spazzar via ogni altra considerazione (certo, anche per reazione a tempi in cui la rappresentanza era ritenuto l’unico aspetto cruciale). La legge elettorale, si proclama da più parti, deve servire a esprimere una «democrazia governante», cioè a dare ai cittadini la possibilità di decidere su due (o più) ipotesi di governo e mettere in grado chi vince di governare al riparo da sorprese, per tutta una legislatura. Badate bene, l’istanza di «restituire lo scettro al principe», per usare la metafora coniata da Gianfranco Pasquino, o di ridare al cittadino il ruolo di «arbitro della contesa politica», come sosteneva Roberto Ruffilli, cioè l’istanza di portare di fronte agli elettori alternative di governo chiare ed evitare una delega in bianco ai partiti, come succedeva fino agli anni ’80, era un’istanza corretta e importante.
Ma si è passato ampiamente il segno, accompagnando senza correttivi una personalizzazione e verticalizzazione crescente dell’offerta politica e di conseguenza svalutando l’aspetto rappresentativo delle elezioni. Tale insistenza, se ben ricordate, era presente fin dal dibattito che nel 1993-’94, sull’onda dei referendum abrogativi di Segni, portò al cosiddetto «Mattarellum» (la legge per tre quarti maggioritaria uninominale e per un quarto proporzionale con cui si votò dal 1994 al 2001). Ma vi ricordate qualcuno che in seguito sproloquiava di eleggere il «sindaco d’Italia» (come se fosse allargabile la modalità di gestione di un comune a quella di uno Stato)? Ora, questo discorso configura una concezione della democrazia ben povera, in cui il popolo è sovrano solo una volta ogni cinque anni per l’istante in cui mette la scheda nell’urna (democrazia di «investitura», la chiamano i tecnici), mentre poi meno si occupa di politica meglio è…
Chiarito questo sfondo complesso e nient’affatto secondario, veniamo alle ipotesi in gioco. A me pare che, come linea di tendenza preferenziale e generalissima, sono sostanzialmente due, ambedue con punti di forza e speculari limiti. Di questi pregi e difetti occorre sobriamente indagare.

La prima ipotesi: precedenza alla scelta sul governo

La prima parte dal valore della scelta diretta del governo da parte dei cittadini, che secondo alcuni va difesa, costi quello che costi. Se si sceglie questa priorità, occorre andare verso leggi elettorali che incentivino l’aggregazione di partiti diversi prima del voto (ineliminabilmente attorno a una figura di candidato alla guida del governo), premiando le coalizioni vincenti con qualche forma di correzione maggioritaria. Si tratta di leggi prevalentemente uninominali come appunto il «Mattarellum» del 1993, oppure di leggi proporzionali con premio di maggioranza alla coalizione che prenda più voti (i referendari del 2009 – vi ricorderete – pur di scardinare il «porcellum» arrivarono addirittura a sostenere indirettamente di attribuire il premio al partito più votato).
Si può sostenere che la differenza tra i due modelli è un certo maggior peso del singolo candidato nel primo caso, rispetto ai simboli di partito nel secondo: ma con tutta la cautela necessaria. Ricordate infatti quando ci volevano vendere l’uninominale dicendo che finalmente ci sarebbe stato un riavvicinamento tra cittadini e politica, con candidature locali e deputati che si sarebbero preoccupati del proprio collegio? La storia andò diversamente: la logica di coalizione imponeva di eleggere candidati delle forze minori, oppure consiglieri del principe, oppure pezzi grossi del partito, nei collegi «sicuri» per ragioni di trend territoriali o sociali, oppure per ragioni di aspettative da sondaggio, mentre nei collegi perdenti si potevano candidare anche carneadi. E tutti i partiti, di destra e di sinistra, hanno fatto ampio uso di queste pratiche: si poteva candidare anche il cavallo di Caligola in alcuni collegi, certi del risultato. Il che dimostrava quanto poco contava la persona del candidato. Certo, con il premio di maggioranza e le liste bloccate, i candidati non hanno nemmeno il bisogno di girare il paese per farsi vedere: possono tranquillamente andare in vacanza invece che in campagna elettorale, e tutta la contesa passa in televisione negli scontri tra leader.
Qui va però smentito un altro luogo comune: la frammentazione partitica del periodo successivo al 1994 non è stata frutto della residua quota proporzionale che teneva in vita alcuni partiti (peraltro relativamente pochi), a scapito delle coalizioni. Era piuttosto l’aspetto maggioritario che imponeva di creare coalizioni ampie e quindi valorizzare anche piccole componenti marginali. Infatti, c’è poco da sfogliar verze: se la coalizione si deve formare prima delle elezioni è immensamente più facile formarla che farla poi durare dopo, quando il consenso si è ormai espresso, l’agenda politica si complica e gli appetiti dei singoli partiti e gruppi riemergono. Se ne accorse Prodi a più riprese, ma non è che Berlusconi non ne sia consapevole. Ma credete che Obama non lo sappia, di fronte alle composizioni interne sfrangiate di un grande partito come i Democrats americani? Insomma, si sceglie un governo, ma non è detto che si garantisca la sua stabilità.
Il problema che accomuna questi modelli è però a mio parere un altro: lo definirei il rischio di scivolare surrettiziamente verso una modificazione di fatto del sistema costituzionale. Da una forma di governo parlamentare si va verso un forma di elezione diretta di un capo del governo, che configura una specie di presidenzialismo di fatto, se non di nome. L’attuale legge elettorale lo manifesta bene: formalizza la presenza di un «capo della coalizione» che solo l’assenza di una modificazione della Costituzione scritta ha impedito di chiamare candidato-premier. Da lui, verticisticamente, discende non solo la costituzione e la tenuta della coalizione, ma anche la nomina diretta dei parlamentari, dato il meccanismo delle liste bloccate. In questo senso, il «porcellum» ha semplicemente portato a coerenza un modello, la cui deriva era iniziata molto prima. È la rappresentazione più chiara dalle verticalizzazione populista della politica, che ha preso il posto della crisi dei partiti di massa, tipici della prima stagione della repubblica.
Ecco che a questo proposito la vera domanda precedente a qualsiasi discorso sulla riforma è: intendiamo accelerare e completare la deriva verticalista e populista di questa riforma istituzionale surrettizia, oppure metterci in qualche modo un freno, oppure ancora correggerla radicalmente, difendendo un modello di governo parlamentare, seppur razionalizzato e riordinato?

La seconda ipotesi: preferenza alla scelta del rappresentante

L’altra ipotesi in gioco è virare verso un sistema che favorisca la dimensione rappresentativa del momento elettorale e l’identificazione dell’elettore con una proposta specifica e più definita, riduca quindi i rischi di coalizioni incongrue e affrettate, riconsegnando però maggior centralità ai partiti e quindi scontando qualche loro maggior margine di azione libera in parlamento dopo le elezioni. Si raggruppano in questa linea i sostenitori dei cosiddetti modelli tedesco e francese (o anche spagnolo). Li dividono alcune rilevanti technicalities su cui torneremo, ma li accomunano il fatto che a presentarsi di fronte all’elettorato è solo implicitamente una proposta di governo: di fatto sono i singoli partiti che chiedono il consenso (a volte promettendo certe alleanze postelettorali, a volte semplicemente tenendosi libero il futuro, nell’incertezza del risultato). Sia nel caso tedesco che francese si sono selezionati con il tempo alcuni partiti medi o grossi che conquistano rilevanti spazi di rappresentanza parlamentare e poi governano o da soli oppure in coalizioni, relativamente stabili, ma che possono anche cambiare a seconda delle sfide dell’agenda politica (e qui il giudizio degli elettori avviene generalmente ex post, alla successiva verifica elettorale).
Veniamo alle differenze. Il sistema tedesco (con voto a turno unico, in parte proporzionale su liste di partito con sbarramento al 5%, in parte in collegi uninominali), configura un modello che dà più incentivi alle unificazioni partitiche, realizza una buona rappresentatività tranne che per le piccole forze, ma ha una correzione maggioritaria minore. Il modello francese (uninominale a doppio turno, con passaggio al secondo turno solo dei candidati meglio piazzati al primo, ed eventuali trattative di accordo o desistenza tra primo e secondo turno) aumenta in modo più spiccato la rappresentanza parlamentare dei partiti più capaci di posizionamento relativamente maggioritario nell’elettorato, penalizzando piuttosto quelli medi, ma confida in un elettorato più affezionato e maturo (che sia disponibile a votare due volte in quindici giorni: la vicenda italiana dei ballottaggi amministrativi mostra che non è una quota prevalente nel nostro paese). Nel caso spagnolo, il sistema è proporzionale, ma la correzione maggioritaria è data dalla dimensione ristretta delle circoscrizioni (ciascuna elegge circa 7 deputati), senza recupero nazionale dei resti. Se si introducesse una severa riduzione del ridondante numero dei parlamentari, lo stesso effetto-soglia resterebbe probabilmente anche con le vecchie circoscrizioni italiane pre-1993.
Il problema di tutti questi modelli è che nel momento elettorale non c’è identificazione diretta e automatica dell’ipotesi di governo e del candidato alla guida di esso, e quindi si formerebbe maggior spazio per movimenti autonomi e trattative tra i partiti, dopo le elezioni. Per cambiare eventualmente presidente del Consiglio a distanza di tempo. O magari per cambiare alleanze in parlamento: non è detto che sia sempre un male. Ipotizziamo che un evento imprevisto, interno o internazionale, modifichi il quadro delle aspettative rispetto alle elezioni, perché non approfittare di una certa flessibilità? La logica dei governi parlamentari lo prevederebbe. Siccome però parliamo di Italia, sappiamo di dover fare i conti con partiti fragili e oligarchici, predisposti a scissioni e ricomposizioni azzardate, a volte ridotti a vere e proprie bande di professionisti del seggio, predisposte strutturalmente al trasformismo. Non che nelle altre democrazie i partiti non soffrano delle peculiari condizioni di crisi di ogni organismo collettivo, ma certo in Italia significa pur qualcosa considerare che il più antico partito presente in parlamento sia la Lega Nord! Se si scelgono questi modelli, quindi, occorrerà vigilare attentamente contro un ritorno di opacità e incertezza nelle scelte conseguenti al momento elettorale. Occorrerà porre con maggior forza il problema delle possibilità che hanno i cittadini di influire nei partiti con metodo democratico e partecipativo: questione difficile, ma cruciale per il futuro della democrazia. Non credo però che – data la situazione attuale in Italia – questi modelli implicherebbero (di per sé) l’abbandono del bipolarismo tendenziale che ormai si è realizzato e che rappresenta un positivo principio di ordine del confronto politico: si modificherebbero forse i confini tra i blocchi, ci sarebbe qualche maggior flessibilità, ma non penso sia facile un ritorno a schemi del passato e alle «paludi centriste» da qualcuno giustamente paventate.

Una scelta per il paese

Semplificando al massimo, queste mi sembrano quindi le scelte da soppesare e le opzioni reali in gioco, ognuna con i suoi meriti, i suoi rischi e le sue problematicità. Da nessuna parte esiste il talismano della felicità. Chiariamoci bene le idee e orientiamoci quindi verso una soluzione che elimini gli scandali maggiori dell’attuale situazione (davvero insostenibile), cercando un consenso il più largo possibile. Definiamo chiaramente quale priorità vogliamo difendere e predisponiamoci a tamponare i rischi delle inevitabili retroazioni problematiche di qualsiasi scelta si voglia compiere. Senza troppo caricare le virtualità taumaturgiche della soluzione trovata. Del resto, come scrisse già quasi vent’anni fa il compianto Leopoldo Elia: «Va visto con favore l’avvicinamento tra sistemi maggioritari che diventano meno maggioritari e sistemi proporzionali che offrono una base sicura ai Governi stabili e capaci di deliberare (ad esempio in Spagna). Anche così si costruisce l’Europa, riducendo la distanza tra sistemi elettorali ispirati a criteri diversi…»1.

1 Ora in L. Elia, Costituzione, partiti, istituzioni, Il Mulino, Bologna 2009, p. 413.