Appunti 2_2010

Guardia alta sulle riforme   costituzionali
Franco Monaco


Dopo l’aggressione al premier, con l’avvio del nuovo anno, la pressione per avviare il cosiddetto dialogo per le riforme si fece ossessiva. In quel frangente Franco Monaco stilò un piccolo pro-memoria, qualche regoletta per non smarrire la bussola. Un pro-memoria confortato dal messaggio di capodanno del capo dello Stato, il quale non si era limitato a incoraggiare il confronto, ma ne aveva fissato autorevolmente e lucidamente criteri e limiti, cioè i binari di un virtuoso riformismo. Viene riproposto qui di seguito quel pro-memoria, già di suo molto guardingo, ma dentro coordinate che, anche solo a distanza di pochi mesi, dopo il passaggio delle elezioni regionali, hanno sensibilmente acuito preoccupazioni e scetticismo circa il percorso riformatore e i suoi esiti. Non un buon viatico per una riforma di cospicue proporzioni.


Né ignari né ingenui

Come si può credere che d’improvviso possa esplodere la pace e le riforme bipartisan attese da oltre vent’anni siano ora a portata di mano? Ragione ed esperienza suggeriscono cautela, ponderazione, vigilanza. Non siamo né ignari né ingenui. Troppo estemporaneo un tale afflato dialogico dopo mesi ed anni di tensioni e polemiche al calor bianco, troppo vistosi gli elementi di ambiguità connessi alle urgenze giudiziarie del premier, che sembrano la priorità delle priorità e che dunque suggeriscono loro un’enfasi sulle riforme in realtà motivata dalla ricerca di un appeacement.

Confronto è meglio di dialogo
Ha ragione Bersani a diffidare del dogma, del mito, della retorica del dialogo. Parola malata, egli ammonisce. Parola da bonificare. Meglio la parola confronto che si nutre di chiari sì e di altrettanto chiari no, come si conviene alla politica, cui non si confà il codice dei buoni sentimenti ma piuttosto quello di una franca discussione tra punti di vista. Senza opposti complessi: né paura del confronto, né ossessione di attestare la propria apertura riformatrice a prescindere.

Le regole si scrivono insieme
Lo scrivemmo a chiare lettere nella tesi n. 1 del programma del primo «Ulivo». Mentre si imboccava la strada del bipolarismo e di una democrazia competitiva e dell’alternanza, profittando della presenza di un virtuoso «velo di ignoranza» sull’esito di una partita maggioritaria che dava grande potere al vincitore, si sentì il dovere di rassicurare tutti gli attori politici: le regole di un gioco finalmente aperto e dall’esito non scritto sarebbero state condivise. Poi, noi e gli altri, derogammo a quell’impegno, ma abbiamo fatto ammenda di quell’errore e di quella forzatura.

Le riforme sono necessarie
Dopo sessant’anni, l’architettura dello Stato disegnata dalla Costituzione esige adeguamenti e riforme. Sia perché essa meglio corrisponda alla nuova domanda sociale – domanda di governo e di rappresentanza – sia per «rimettere in asse» un sistema che pure ha conosciuto puntuali riforme, fuori da un’ottica di sistema. Penso alla riforma del Titolo quinto o all’elezione diretta dei vertici degli esecutivi regionali e locali.

I limiti alle riforme
La disponibilità riformatrice non deve essere senza limiti. Tre in particolare: la salvaguardia dei principi supremi, la cura per i diritti fondamentali di persone e formazioni sociali, gli equilibri e i bilanciamenti di cui si nutrono tutte le democrazie costituzionali. Nella consapevolezza della distinzione ma anche dei nessi tra la prima e la seconda parte della nostra Carta. Un certo assetto dei poteri può favorire o, all’opposto, pregiudicare i principi e i diritti scolpiti nella prima parte. Si pensi, a caso, al principio dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura o a quello dell’unità indivisibile della Repubblica. Napolitano, per esempio, ha fatto esplicito riferimento all’equilibrio tra governo e parlamento e a quello tra sovranità popolare e poteri di garanzia.

Il parlamento, sede del confronto
La delicatezza della materia costituzionale (la «legge fondamentale») prescrive il massimo di trasparenza e di responsabilità. Esse possono essere assicurate solo dalla sede propria e naturale del confronto e cioè il parlamento. Sia per evitare manovre tattiche e accordi opachi, sia perché resi edotti dall’insuccesso di strumenti straordinari quali le Bicamerali. Il presidente della Repubblica ha raccomandato la via ordinaria alla revisione costituzionale contemplata dall’art. 138.

L’oggetto: inclusioni ed esclusioni
Dentro l’opposizione c’è chi è più scettico e chi lo è meno sulle riforme, ma su due punti di sostanza c’è accordo: l’esclusione di leggi ad personam, specie se proposte di fatto come condizione e premessa non negoziabile del confronto, che al contrario lo pregiudicherebbe in radice; l’inclusione delle riforme economiche e sociali, materia distinta e tuttavia non meno centrale nella agenda politica di riforme finalmente pensate a beneficio degli italiani. A tali esclusioni e inclusioni se ne dovrebbero aggiungere altre due sulle quali l’opposizione e segnatamente il Pd farebbero bene, qui sì, a chiarirsi le idee: l’inclusione di una legge elettorale che sostituisca il porcellum e restituisca ai cittadini il potere di scegliere i propri rappresentanti in parlamento e l’esclusione, in tema di forma di governo, del passaggio da una democrazia parlamentare a una di stampo presidenziale. Soluzione, questa, sulla quale sembrano convergere Berlusconi e Fini pur tra loro spesso divisi un po’ su tutto.

Le ragioni delle riforme
Non nego che vi siano tutt’ora buone ragioni per mettere mano alle riforme. Ne menziono due: l’esigenza di dare compimento alla riforma del Titolo quinto circa l’organizzazione cosiddetta federale dello Stato, specie nella sua proiezione sul bicameralismo, e l’esigenza di razionalizzare la forma di governo soprattutto allo scopo di arginare e correggere con opportuni bilanciamenti e garanzie il «presidenzialismo di fatto» introdotto surrettiziamente nel passato recente. E tuttavia, come notavo in apertura, al momento dominano preoccupazione e scetticismo circa un percorso riformatore che si prospetta a dir poco impervio e scivoloso.
Intanto non sono così sicuro che la questione istituzionale sia una priorità tra le priorità. Mi spiego: quando, quasi trent’anni fa, se ne cominciò a discutere, il cuore del problema era quello della governabilità. In concreto la cronica instabilità/precarietà dei governi nazionali, che rappresentava un decisivo handicap nella competizione-integrazione con gli altri paesi europei e che aveva concorso a produrre il macigno del nostro debito pubblico e a inibire le riforme di struttura essenziali allo sviluppo economico e civile del paese. Ora non mi azzardo a sostenere che quel problema sia risolto, ma certo è meno pressante. Per altra via, quella politica e quella della legge elettorale, si sono fatti oggettivi passi in avanti nella direzione della governabilità.
Oggi mi sentirei di sostenere che le priorità sono altre. Esemplifico: la difesa e il consolidamento di una democrazia costituzionale degna di questo nome. In concreto: la vistosa mortificazione del parlamento, l’indebolimento degli istituti di garanzia, le insidie portate all’indipendenza e all’autonomia della magistratura. Sintomatica la stessa discussione che si è aperta sull’ipotesi di reintrodurre l’immunità parlamentare. Misura, beninteso, di cui si potrebbe discutere laicamente se fossimo dentro un contesto… normale, se la proposta non fosse caricata di una chiara valenza simbolica (rivalsa), se non avessimo alle spalle un palese, sistematico abuso di tali istituti di garanzia.

Idee chiare
Sulla base di queste osservazioni e soprattutto considerando che la divisione tra gli schieramenti politici verte appunto sulla concezione di una democrazia costituzionale (quella implicita nel secondo comma dell’art. 1 della nostra Carta), mi pongo la seguente domanda: se davvero ci si imbarcasse in un negoziato tra le parti e dunque si mettesse nel conto un compromesso (lo fu, alto e nobile, anche quello siglato dai padri costituenti) quale sarebbe il punto di caduta, quale l’approdo? Più vicino o più lontano ai capisaldi, oggi minacciati, di una democrazia costituzionale? La risposta mi pare scontata e non rassicurante. Di qui la mia preoccupazione e il mio scetticismo, la raccomandazione di alzare la soglia della vigilanza, di non imboccare con leggerezza una strada scivolosa.
Ben più autorevolmente di me ci ha ammonito Gustavo Zagrebelsky: è sommamente imprudente entrare in un percorso negoziale su materia costituzionale in vista di una riforma di grande portata senza chiarezza di visione e fermezza di propositi. Che è esattamente la condizione dell’opposizione e dello stesso Pd, allo stato privo di una posizione sicura e condivisa su più punti cruciali. Dalla forma di governo all’assetto della giustizia sino alla legge elettorale. Materia quest’ultima che proprio l’opposizione deve pretendere sia ricompresa nel disegno riformatore e che invece la maggioranza non ha alcuna intenzione di cambiare. A che pro dunque?
So bene che, grazie alla saggezza del costituente, se la risultante delle riforme non ci convincesse, disporremmo pur sempre del referendum costituzionale confermativo. Ma c’è modo e modo di arrivarci. Altro è se ci si arrivasse a valle di una battaglia condotta da posizioni nitide, ferme, risolute (come lo fu per esempio nel 2006), altro se dopo traccheggiamenti e pasticciati compromessi. Trasmetteremmo il messaggio che sì, magari il prodotto finito non ci convince, ma le differenze tutto sommato sono relative. La mia impressione è che, invece, la distanze siano grandi e vertano sui principi cardine di una democrazia costituzionale. Ne abbiamo avuto molteplici attestati. Tra gli ultimi, dopo lo tsunami di leggi ad personam, il decreto salva liste a partita delle regionali in corso.
Una vera bestemmia per chi ha cultura costituzionale o anche solo rispetto delle regole e della decenza.
Dopo aver letto questo illuminante contributo di Vincenzo Satta (scritto, come sempre, con mente fredda e cuore caldo) molti si chiederanno: perché? Perché il Partito democratico sente il bisogno di assecondare la maggioranza oggi al governo nel pericoloso tentativo di metter mano ai delicati equilibri istituzionali definiti in Costituzione, anziché proporre interventi alternativi che non rompano l'armonioso equilibrio tra pesi e contrappesi? Perché proporre un federalismo finto, uno strapotere del presidente del Consiglio, una ulteriore mortificazione del ruolo del Parlamento? Perché introdurre, sia pure in forma diversa, norme che sono state rifiutate col referendum abrogativo del 2006? Perché lavorare per «un’altra Italia», come dice il segretario del Pd, ma peggiore dell’attuale?