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L. Gallino, Con i soldi degli altri, Einaudi, Torino 2009

Da oltre dieci anni a questa parte Luciano Gallino si è dedicato con volontà indefessa a contrastare i luoghi comuni di carattere economico e politico sullo sviluppo della società, del lavoro e dell’economia, quasi sempre nel silenzio generale dei media e con il successo, più o meno, in termini di recepimento da parte dell’ establishment che ebbe Cassandra rispetto ai suoi concittadini troiani circa il triste destino finale della rocca di Ilio.
Non che i testi di Gallino siano dei samizdat semiclandestini o che il loro autore sia personalità marginale rispetto al mondo delle opinioni che contano: non si potrebbe dire così di un professore emerito dell’Università di Torino, di una delle figure più eminenti della sociologia italiana, in particolare della sociologia del lavoro, di uno degli ultimi superstiti della covata di Adriano Olivetti,  di un autore i cui libri sono regolarmente pubblicati da case editrici quali Laterza ed Einaudi, di un ex collaboratore della «Stampa» ed attuale editorialista de «La Repubblica». Eppure, intorno alla sua opera è venuta a crearsi una cortina di silenzio e di indifferenza che, se non corrisponde ad un ostracismo vero e proprio, è comunque la migliore controprova di quella censura più o meno soft che il sistema cosiddetto del «pensiero unico» è riuscito a creare intorno a coloro che esprimono opinioni sgradite, tanto più sgradite se non provengono da sindacalisti di base, teorici dell’antiglobalismo e da altre figure marginali per definizione, ma da un membro rispettato dell’accademia e del mondo scientifico di sterminata erudizione e sorprendente, ancora in età avanzata, capacità di lavoro.
Ma quali sono queste opinioni così ostiche alle delicate orecchie dell’establishment? Innanzitutto, ed è la più eversiva, che il lavoro non è una merce che si può gestire con indifferenza rispetto alla sorte delle persone che concretamente tale lavoro esercitano e che ne traggono sostentamento per la loro vita; che una crescita economica drogata dalla mancanza di vincoli e di controlli prepara un presente di corruzione e crescenti diseguaglianze ed un futuro di dissesto ed instabilità; che una società incapace di puntare sulla ricerca e sullo sviluppo e che si lascia costantemente alle spalle le eccellenze industriali di cui era capace fino a pochi decenni fa è condannata al declino; che la radice dell’insicurezza non sta in problemi di ordine pubblico ma è espressione del disordine costituito in termini economici, politici e sociali.
L’ultimo anello della catena di queste opinioni che ormai non sembrano più così «eretiche» è il libro Con i soldi degli altri1 che, come dice il sottotitolo, si propone di esaminare come «il capitalismo per procura» sia sostanzialmente «contro l’economia».

Dalla «bolla» al crollo

Ovviamente il punto di partenza del testo sta nella constatazione della gravissima crisi dell’economia globale apertasi nel 2007 con il crollo dei tassi Usa ed esplosa nell’autunno del 2008 con il collasso di venerande istituzioni bancarie, trasferendosi poi sull’economia cosiddetta reale in termini di venir meno dei crediti, pesanti tagli al personale e fallimenti veri e propri.
Da qui prende l’avvio la riflessione di Gallino, il quale non perde tempo a inquadrare la situazione nei suoi termini reali, rilevando come nelle stime dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) tre miliardi di persone al mondo, su di un totale di 6,5 miliardi della popolazione globale, abbia un lavoro, e che tuttavia 1,5 miliardi di essi appartiene all’economia informale, e quindi è priva di garanzie e sicurezze di sorta circa il proprio avvenire, mentre altri 1,3 miliardi, ivi compresi molti appartenenti all’economia formale, non guadagna abbastanza per superare la linea di povertà globale fissata in due dollari al giorno di reddito.
A ciò si aggiunga che ogni anno circa 2,2 milioni di persone muoiono per incidenti sul lavoro, e molte altre vengono ferite più o meno gravemente, che la qualità dell’abitare è pessima per oltre un miliardo di persone, che un altro miliardo di persone soffre regolarmente la fame, che la diseguaglianza economica globale non ha fatto altro che crescere (fra i paesi più ricchi e quelli più poveri il differenziale è ormai 120:1) , mentre nel contesto dei paesi più ricchi, compreso il nostro, il differenziale fra gli stipendi dei top manager e gli stipendi degli impiegati di medio livello è cresciuto esponenzialmente senza che a ciò, rileviamo noi, sia corrisposta una crescita in capacità gestionale ed intelligenza dei top manager stessi, come la cronaca quotidiana dimostra.
Questo sguardo a volo d’uccello sulle condizioni economiche globali serve a Gallino per dimostrare come la crescente deregolazione dei mercati finanziari e la concentrazione delle risorse economiche in poche mani, fra cui quelle di pochi tycoon che ancora più o meno direttamente gestiscono i loro imperi globali, e quelle dei cosiddetti investitori istituzionali, su cui ci soffermeremo fra poco, abbia condotto ad una situazione insana in cui la crescita economica viene finanziata dal moltiplicarsi di castelli di carta finanziari che regolarmente dimostrano di essere «infettati» e quindi incapaci di mantenere all’infinito la promessa di remunerazione che contengono al loro interno e che in fondo è la loro ragion d’essere.
In questo senso una particolare responsabilità la assumono gli investitori istituzionali, termine generico con il quale si indicano quegli enti che operano professionalmente nell’investimento di denaro altrui sui mercati finanziari, e che hanno assunto nel corso degli ultimi vent’anni un peso sproporzionato nell’ambito dell’economia globale. Il fenomeno in verità non è nuovo, e Gallino ricorda di aver tratto il titolo del suo libro da quello di una raccolta di saggi del noto giurista statunitense Louis Brandeis, che nel 1914 (due anni prima che il presidente Woodrow Wilson lo chiamasse alla Corte suprema, scelta doppiamente contestata da destra, sia per le idee di Brandeis sia perché si trattava del primo giudice di origine ebraica a far parte del supremo tribunale costituzionale dell’Unione) aveva denunciato il ruolo di quelli che adesso vengono appunto definiti investitori istituzionali, rilevandone da un lato la capacità di concentrare un potere economico abnorme non solo in ragione delle loro fortune personali ma anche per la loro influenza sistematica sul ruolo di altri soggetti mediante le concentrazioni ed i cartelli finanziari, e dall’altro la loro sostanziale irresponsabilità rispetto agli esiti delle loro speculazioni sulla vita delle persone.
D’altro canto, la descrizione minuziosa che Gallino fa delle strategie degli investitori istituzionali per produrre denaro a mezzo di altro denaro, con le varie forme e modalità di strumenti finanziari che sono stati costituiti a tal fine, delinea un quadro amplissimo di responsabilità in cui non manca un ruolo specifico — ahimè in negativo — degli stessi sindacati Usa i quali fin dalla fine degli anni Settanta, sulla scorta delle esortazioni di autorevoli economisti fra cui Jeremy Rifkin, decisero di impegnarsi nella gestione dei fondi pensione come un mezzo strategico per la riacquisizione di un’ influenza sociale ormai declinante. E tuttavia la logica interna al meccanismo della finanza globale ha preso il sopravvento, anche in presenza di una polverizzazione del capitale sociale che teoricamente avrebbe reso possibile quel «socialismo pratico» che alcuni autori indicavano come una delle conseguenze del diffondersi di modelli di proprietà distinti da quelli del capitalismo tradizionale.
In realtà, non solo il modello del comando capitalistico non è stato in alcun modo infranto, semplicemente spostandosi dai capitani d’industria tradizionali ai manager, ma è soprattutto la logica di base che non è cambiata, ed è andata anzi peggiorando in quanto il modello redistributivo tradizionale basato sul ruolo dello Stato sociale e delle organizzazioni dei lavoratori è stato infranto dalla globalizzazione, che da un lato ha messo in discussione in modo crescente il ruolo stesso dello Stato e dall’altro ha favorito la maggiore capacità del capitale di operare nella nuova logica transnazionale assai più delle forze sindacali.
In questo senso Gallino è assai critico nei confronti di ogni tipo di strategia volontaristica di autolimitazione delle brame degli operatori finanziari, pur riconoscendo l’importanza di iniziative internazionali come quelle legate ai cosiddetti «principi dell’investimento responsabile» o ai «principi Equatore»: al netto della comprensibile volontà di alcune grandi società multinazionali di ripulire un po’ la propria facciata promuovendo a tamburo battente codici etici magari ispirati a principi di responsabilità ambientale o di tutela del lavoro minorile, pare al nostro autore che tutti questi principi, anche qualora fossero effettivamente applicati, non solo metterebbero molto tempo ad assumere efficacia, ma non metterebbero in discussione un sistema che, per sua stessa natura «ha promosso e consolidato il dominio della finanza sull’economia reale» e «redistribuisce in misura mai vista nella storia la ricchezza dal basso verso l’alto. Erode sistematicamente i sistemi pubblici di protezione sociale per farne, tramite le privatizzazioni, un terreno su cui mietere sempre maggiori rendite e profitti. Ha trasformato le imprese da istituzioni sociali in cui si intrecciano gli interessi dei lavoratori, dei proprietari, delle comunità territoriali, dello Stato, dei fornitori, in meri flussi di cassa» (pagg. 78-79).

Una classe sociale transnazionale e le sue strategie politiche

Ma non è da credere che questa «maionese impazzita» a cui sembra ridotta l’economia globale sia semplicemente il prodotto di azioni dissennate, di errori anche criminali, di calcoli sbagliati: al contrario essa si inserisce in un percorso logico e sistematico che ha avuto i suoi teorici, i suoi strateghi, i suoi intellettuali organici, i suoi ausiliari politici e, prima di ogni altra cosa, una capillare strategia di egemonia culturale, almeno in quelle parti (non maggioritarie) del nostro pianeta in cui l’opinione pubblica conta qualcosa, volta ad inculcare nelle menti delle persone che quello presente è il migliore dei mondi possibili e che l’oggettivo peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro non era che il temporaneo prezzo da pagare alle magnifiche sorti e progressive della nuova era del capitalismo globalizzato.
Una strategia esiste, ed è stata perseguita lucidamente, anche se non razionalmente, e viene da lontano, dallo choc petrolifero del 1973 che segna la fine di quelli che in Francia sono stati definiti i trentes glorieuses, i trent’anni di crescita generalizzata dell’economia che succedettero alla seconda guerra mondiale e che si tradussero anche nell’allargarsi del potere d’acquisto e dei diritti civili e sociali delle classi lavoratrici fino ad allora subordinate, grazie anche agli sforzi congiunti dei sindacati e delle forze politiche riformiste e democratiche, le quali concorsero a far diventare senso comune il principio per cui le pubbliche istituzioni dovevano farsi carico dei problemi assistenziali, sanitari, previdenziali e scolastici delle persone.
La seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso rappresenta il giro di boa, il tornante in cui parte, già ben oliato da una propaganda tambureggiante e ricca di denaro — come dimostrano fra gli altri i recenti saggi di Paul Krugman2 e Susan George3 sull’egemonia culturale della destra negli Usa — il percorso di rivincita delle classi dominanti che viene simboleggiato, alla fine di quel decennio, dalle vittorie elettorali di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli Usa.
Il senso comune cambia, e ogni tipo di limite allo sviluppo dell’economia capitalistica nelle sue forme più innovative (innovative quanto ai mezzi, perché lo spirito rimaneva quello già analizzato da Brandeis sessant’anni prima) viene percepito come un intollerabile ostacolo sulla strada del progresso e della prosperità. Il colpo di grazia, in termini ideologici e di immagine, viene dal crollo del muro di Berlino, dal «meraviglioso 1989» che, insieme a regimi retrogradi ed autoritari, abbatte anche ogni idea di cambiamento radicale della società capitalistica, costringendo non solo i comunisti (maggioritari a sinistra solo in Italia), ma anche i socialdemocratici a ripensare radicalmente le proprie posizioni avendo smarrito i loro termini di riferimento tradizionale.
Di questo smarrimento delle forze riformiste approfitta la nuova classe capitalistica globale, la quale, secondo l’analisi di Gallino, si articola in quattro soggetti fondamentali:
–  i 10 milioni di persone che al mondo possiedono almeno un milione di dollari di attivo finanziario, e che sono concentrati quasi per intero nel Nord del mondo (anche se incominciano ad affacciarsi sulla scena miliardari indiani e cinesi);
–  i soggetti del capitalismo familiare, che è ancora ben lungi dall’estinguersi in Italia come nel resto del mondo, come dimostrano le vicende dei Walton, Gates, Cargill, Pinault, Albrecht, Lagardere, Agnelli, Ferrero, Berlusconi e così via, che Gallino stima all’incirca, in tutte le loro derivazioni, intorno ai 2,5 milioni di persone;
–  gli alti dirigenti assunti dagli azionisti per governare le grandi corporations, i cui poteri, almeno finché continuano a produrre utili, sono pressoché sconfinati, come sconfinato è il livello delle loro retribuzioni, e la cui entità numerica viene quantificata all’incirca in 3 milioni di componenti in tutto il mondo;
–  gli amministratori e dirigenti degli investitori istituzionali, banche incluse, che rappresentano la frazione meno numerosa (circa 120 mila persone in tutto il mondo) e meno ricca di questa «nuova classe» che è andata consolidandosi nel tempo.
Le interconnessioni politiche di questa élite sono evidentissime, e per questo basta semplicemente vedere in che modo i suoi componenti saltino con grande disinvoltura da posti di comando in imprese transnazionali a posti di comando politici. Esemplari in questo senso sono stati i due gabinetti presidenziali di George W. Bush, a partire dallo stesso presidente, rampollo (per la verità alquanto degenere) di una dinastia di petrolieri, e poi il vicepresidente Cheney, ex consigliere d’amministrazione di società come la Halliburton (ancora petrolio) e la Union Pacific, il segretario di Stato Rice, ex cda della Chevron (sempre petrolio), il segretario alla Difesa Rumsfeld e molti altri. Ciò spiega, peraltro, come le guerre in Afghanistan e soprattutto in Iraq siano state una tale sagra di ruberie, corruzione, favoritismi e scandali.
Ma il problema non è ristretto solo ai repubblicani, se si pensa alla presenza di molti ex dirigenti della Goldman Sachs nell’amministrazione Clinton, e soprattutto al fatto che la maggior parte dei componenti del Congresso, quando lascia la carica elettiva, si dedica alla ben più remunerativa carriera del lobbista presso i suoi ex colleghi al soldo delle grandi corporations (e niente fa pensare che costoro di fatto non esercitassero tali funzioni anche mentre erano ancora dei rappresentanti del popolo). Numerosi altri esempi in questo senso sono riscontrabili in tutti i paesi occidentali, compresi quelli governati da forze di sinistra, come hanno dimostrato le ottime relazioni fra il New Labour di Blair e gli esponenti del big business (alcuni dei quali, come lord Sainsbury, padrone dell’omonima catena di grande distribuzione, entrarono a far parte di gabinetti laburisti), ovvero il legame strutturale fra Nicolas Sarkozy e le maggiori famiglie del capitalismo francese. La vicenda italiana della coincidenza del potere politico con quello economico e mediatico nella persona di Silvio Berlusconi è un caso a se stante, ed è da vedere se non segni una nuova tappa nella presa di potere di questa classe sociale transnazionale in modo da trasformare definitivamente i governi democratici, per dirla con Marx, nei suoi comitati d’affari.
Sempre ricorrendo alla terminologia marxiana, Gallino si chiede se questa classe esista solo in sé, nel senso di essere delimitata da alcune caratteristiche comuni ma non interamente probanti, ovvero se non debba essere considerata come una classe sociale per sé, ossia provveduta di una propria coscienza specifica e di una chiara visione dei propri interessi e degli strumenti per perseguirli. Il nostro autore propende per la seconda tesi, poiché l’esperienza di questi anni dimostra come si siano sviluppate reti d‘interconnessione fra i diversi (e nemmeno tanto numerosi) soggetti che compongono questa classe transnazionale da permettere loro di riconoscersi gli uni gli altri sotto tutte le latitudini e, soprattutto, da avere chiari quali siano i loro interessi al punto tale da costituire delle organizzazioni specifiche per sostenerli come la Camera di commercio internazionale di Parigi, la Commissione trilaterale e, soprattutto, il Forum economico mondiale che annualmente si raduna a Davos. Queste organizzazioni hanno un tale peso che anche nel colmo della crisi originata dalle strategie dissennate degli organismi che hanno dato loro vita riescono ancora a determinare il punto di vista dei governi: come Gallino dimostra (pagg. 181- 185), le conclusioni del cosiddetto G 20 convocato a tamburo battente da George W. Bush a Washington nel novembre 2008 (e al quale il presidente appena eletto Barack Obama si astenne saggiamente dal partecipare) ricalcavano in sostanza un documento redatto pochi mesi prima dall’Institute of International Finance, un centro di ricerca promosso dalle più potenti istituzioni finanziarie del mondo. La volpe a guardia del pollaio, si potrebbe dire…

L’alternativa possibile

Le conseguenze della finanziarizzazione dell’economia ed in particolare dell’impresa sono sotto gli occhi di tutti, e Gallino le enumera brevemente: promozione dei contratti di lavoro flessibili, e, in sostanza, della precarietà del lavoro; pressione sui sindacati per politiche di moderazione salariale che nel caso specifico del nostro paese ci hanno portati ad avere la media retributiva più bassa d’ Europa senza che ciò sia stato remunerato in termini di servizi o di garanzie; mancata distribuzione ai lavoratori dei guadagni di produttività; chiusura delle unità produttive i cui livelli produttivi, pur elevati, siano inferiori a quelli di unità analoghe di imprese concorrenti (il recente caso dell’impresa milanese Innse, che tanto clamore mediatico ha suscitato, è istruttivo in tal senso).
Il portato di tali politiche non è misurabile solo alla luce del crollo delle borse e dei miliardi di dollari bruciati dal 2007 ad oggi, ma ha un’immediata ripercussione sul tenore di vita di miliardi di persone, manifestandosi essenzialmente nella crescita di uno stato di insicurezza e di malessere che spesso viene indirizzato più o meno coscientemente contro bersagli fasulli, come gli immigrati, talvolta con la giustificazione veramente ipocrita e stomachevole della «difesa dell’occidente» o dei «valori cristiani», il che qualifica questi argomenti retorici per quello che sono, armi di distrazione di massa secondo la bella espressione del già citato Krugman.
D’altro canto, come ebbe a scrivere Gallino in una sua opera precedente, il mercato è un’istituzione di Stato, nel senso che le condizioni in cui gli operatori economici svolgono la loro attività è definito da un quadro di leggi e di regolamenti che dipendono dalla potestà legislativa e da quella esecutiva dello Stato, e se è vero che nel corso degli anni la globalizzazione dell’economia ha ridotto lo spazio di intervento dei singoli Stati è altrettanto vero che ciò non sarebbe stato possibile se non vi fosse stata una costante pressione nei confronti della politica perché adattasse la legislazione agli interessi delle grandi corporations.
Istruttiva in questo senso è la vicenda, che Gallino riferisce (pagg. 146- 149), dei coniugi Gramm: lei, Wendy, presidente della Commissione federale per il commercio dei contratti a termine (i cosiddetti futures) sotto Reagan e Bush senior, operò efficacemente insieme ad altri burocrati e parlamentari per esentare i derivati attinenti all’energia dal controllo della Commissione stessa, agevolando gli interessi di alcune potenti società fra cui la famosa (e poi famigerata) Enron, che a tal fine distribuì qualcosa come 3.5 milioni di dollari fra i parlamentari democratici e repubblicani. Pochi giorni dopo questa cruciale deliberazione la professoressa Gramm si dimise dal suo incarico federale, e in capo a qualche settimana divenne parte del Consiglio direttivo della Enron, con stipendio più che onorevole. Nello stesso tempo la Enron fu il massimo finanziatore della campagna del marito, Phil, senatore repubblicano che fu uno dei massimi portavoce degli interessi di Wall Street in Campidoglio, al punto che a lui si deve la legge del 1999 che abolisce la norma Glass – Steagall del 1933 (uno dei primi atti del New Deal rooseveltiano) che distingueva nettamente fra le banche di deposito e quelle di investimento, proibendo alle prime di avventurarsi in attività speculative. I risultati si sono visti negli ultimi due anni. Svestiti nel 2003 i panni del legislatore Gramm ha poi indossato quelli del lobbista, e nel 2008 è stato uno degli esperti economici dello staff di campagna elettorale del candidato repubblicano John Mc Cain.
Se lo stato dell’arte è questo, appare chiaro che la soluzione possibile ai problemi evidenziati dalla crisi sta in un recupero di responsabilità generale: la responsabilità dei grandi investitori, ma anche quella dei milioni di proprietari di fondi pensione, i quali, a giudizio di Gallino, dovrebbero organizzarsi razionalmente per far sentire la propria voce e per controllare se i manager che hanno scelto per utilizzare i loro soldi stiano operando nel pubblico interesse.
Vi è poi il problema degli obiettivi su cui indirizzare il risparmio così accumulato, che ovviamente deve essere accompagnato da scelte politiche acconce (e Gallino ne indica alcune, a partire dal ripristino della separazione fra banche di deposito e banche di investimento, adattato ai nuovi criteri della finanza globale, dall’obbligo per le banche di indicare nei loro bilanci il numero esatto ed il tipo di strumenti economici utilizzati…), e che tuttavia deve rispondere come criterio generale alla soddisfazione di interessi pubblici diffusi. In questo senso Gallino suggerisce l’inserimento di clausole nei fondi comuni di investimento che vincolino ad investire una percentuale più o meno rilevante degli attivi su attività come la ristrutturazione del trasporto ferroviario regionale, l’ampliamento delle linee metropolitane cittadine (120 km in tutta Italia, un quarto della sola rete urbana parigina), il risanamento di strutture scolastiche che nel nostro paese risultano essere per il 50% gravemente insufficienti e pericolose. Probabilmente, chiosa Gallino, uno Stato con un debito pubblico superiore al 100% del Pil ha qualche problema a trovare i soldi necessari, ma i soli fondi comuni registrati presso la Borsa italiana nel 2007 avevano 400 miliardi di euro in portafoglio, e somme di pari grandezza corrispondevano agli investimenti in Italia di fondi esteri.
Ecco, per far questo ci vorrebbe la politica. Certo, non quella di un governo il cui capo, pressato dalle vicende legate alla sua vergognosa vita privata, non sa che proclamare ad intervalli regolari finita una crisi che invece nel nostro paese deve ancora probabilmente produrre i danni peggiori. E neppure quella di un ministro dell’Economia che si bea della propria superiore dottrina e della sua capacità di previsione del passato, che mascherano essenzialmente la totale incapacità a fronteggiare in modo razionale la gravità della crisi in atto4.
Ma la politica appare mancante anche sul profilo dell’opposizione, anzi l’unica opposizione possibile, quella del Partito democratico (le altre forze sono troppo deboli o marginali per poter essere considerate) sembra completamente assorbita da un dibattito interno in sé non superfluo (un partito vero fa i congressi, anche se tali congressi debbono essere un momento di apertura sulla realtà del paese e non, o non soltanto, un’occasione per il regolamento dei conti all’interno del gruppo dirigente) per prendere in considerazione queste problematiche, non vedendo quali spazi potenziali si aprano in una pubblica opinione che sotto l’impressione delle cattive notizie sta prendendo atto dell’esaurirsi di un modello di sviluppo economico ormai insostenibile ed ingiusto.

1 L. Gallino, Con i soldi degli altri. Il capitalismo per procura contro l’economia, Einaudi, Torino 2009.
2 P. Krugman, La coscienza di un liberal, tr.it., Laterza, Bari-Roma 2008.
3 S. George, L’America in pugno, tr. it., Feltrinelli, Milano 2008.
4  Quando il fortunato saggio di Giulio Tremonti La paura e la speranza venne pubblicato nella primavera del 2008 la crisi del sistema finanziario statunitense era già in atto da circa un anno: che tale crisi avesse a produrre conseguenze disastrose sull’economia globale non richiedeva un particolare sforzo predittivo. La reputazione di genio superiore che Tremonti si porta dietro è solo l’espressione dell’inveterato provincialismo e dell’altrettanto inveterata cortigianeria che allignano nel nostro paese.