Appunti 6_2009
Focus: Cattolicesimo democratico che fare?
L'associazione Città dell'uomo intende promuovere un confronto aperto sulla categoria del «cattolicesimo democratico», cara alla nostra memoria e alla nostra formazione. In tempi di crisi, per certi versi di «apocalittica» rivelazione delle difficoltà di una civiltà, non si può dare niente per scontato. La ripetizione vuota degli schemi del passato non ci aiuta. Occorre riprenderli, verificarli sempre, vagliarli nel fuoco della storia. Non possiamo permetterci il lusso della nostalgia o dell'anacronismo. Nella Chiesa, nella società, nella cultura, nella politica, una verifica seria sull'esistenza, i confini, le prospettive, le scelte, di un'identità spiritual-cultural-politica, va compiuta con serietà e urgenza. I due contributi che qui presentiamo sono originati proprio da un seminario interno di un gruppo di riflessione che si è svolto il 3 ottobre scorso. Ora si rilanciano a un pubblico più vasto con l'intenzione di provocare, raccogliere, orientare un dibattito che speriamo all'altezza delle necessità dei tempi.
Le scelte urgenti per i «cattolici democratici»
› Guido Formigoni
Il credente sa che la storia non è luogo del successo, ma della prova continua, di una condizione di transizione e di pellegrinaggio da vivere come strutturale, non come contingente e casuale. Inoltre, attraversando la polvere della storia il credente si contamina, si impasta, si coinvolge: insomma è illusorio — ce lo siamo detti molte volte — dirsi «cattolici senza aggettivi». Forti di queste due consapevolezze, siamo sempre in ricerca, sfidati dalle urgenze dell’oggi, che cambiano continuamente. Forse allora vale la pena porsi il problema di verificare se un’espressione che abbiamo spesso usata per identificarci — quella di «cattolici democratici» — abbia ancora un senso, come si debba intenderla e quali problemi nuovi incontri.
Senza pessimismi o lamenti. La prova è infatti strutturale. La crisi è categoria della verifica continua, non della depressione senza uscita. Molte cose non sono andate come avremmo voluto, perché nascondercelo? Le vicende politiche ed ecclesiali degli ultimi decenni hanno congiurato in modo convergente a togliere progressivamente ossigeno e spazio alla nostra sensibilità. C’è stata una linea ecclesiastica di vertice che ha consapevolmente tentato di emarginarla. Le tendenze della politica si sono rivelate contraddittorie, dilacerate tra risvegli identitari più o meno rozzi e banali compatibilismi che riducono la politica a mera amministrazione: ambedue istanze agli antipodi rispetto alla nostra formazione. Poi ci sono state le debolezze interne, nostre e specifiche, su cui fare esami di coscienza potenzialmente infiniti (la mancanza di «senso del gruppo» con un rischio sempre forte di individualismo, proporzionale all’alto valore attribuito alla coscienza personale; la presenza di infinite sfumature nel giudizio sui fatti che hanno portato a lacerazioni e inefficienze; l’assenza di spirito battagliero a causa del senso della complessità delle cose e forse di una certa logica intellettualistica…).
Esiste un «mondo» dei cattolici democratici?
Se su tutto ciò si può discutere, è utile però concentrarsi sul «che fare» e sul futuro. Parto da un punto: l’esistenza di «una prospettiva spiritual-cultural-politica», di una sintonia tra persone diverse basata su alcuni elementi essenziali. La definirei in prima battuta su due lunghezze d’onda intrecciate: in primo luogo, un forte sentire ecclesiale vissuto nella laicità e nella libertà; in seconda battuta una scelta politica per l’uguaglianza, la pace e la giustizia, innervata peraltro da un senso acuto delle mediazioni. Potremmo anche definirla, all’ingrosso, una sensibilità «conciliare» riferendoci al Vaticano II (nella sua ispirazione essenziale, prima di tutti i distinguo possibili tra i diversi documenti, tra arretratezza e modernità dei diversi passaggi ecc.ecc.). Una sensibilità fortemente ecclesiale, ma che non dipende dalla Chiesa come soggetto storico: vive la mediazione come dimensione della fede, non come interlocuzione con l’istituzione ecclesiastica. Una sensibilità gelosa della propria coerenza tra fede e politica, tanto quanto cosciente della sua parzialità e del proprio essere in campo aperto, nell’opinabile.
E’ comunque l’intreccio di quelle due dimensioni essenziali che distingue tale sensibilità da altri cattolici. Proprio incrociando su immaginari assi cartesiani il rapporto identità/laicità con quello destra/sinistra si ricavano quattro posizioni fondamentali, in qualche modo «sovratemporali» dei cattolici nella storia contemporanea: i cattolici democratici, i cattolici intransigenti, i cattolici liberali, i cattolici sociali. Ma tale intreccio distingue anche dai cattolici del dissenso, dagli antimoderni di destra e di sinistra, dagli entusiasti del fondamentalismo evangelico. Si potrebbe analiticamente applicare lo schema sopra esposto per chiarire queste distinzioni, ma qui non è il momento di farlo.
A questo mondo, a questo sentire, a questa tendenza, non trovo definizione migliore di quella, nobilmente usata in passato, di cattolico-democratico. Assolutamente consapevole della frammentazione reale e della complessità interna di questo mondo, penso tuttavia che esista una sensibilità comune. Se però non si condivide l’analisi sull’esistenza di un qualcosa di comune, si può anche smettere di leggere qui.
Se si condivide invece questo punto di partenza, qual è il problema? A me pare che i singoli e i gruppi che si riconoscono in tale prospettiva e «sentire comune» hanno un interrogativo semplice di fronte: si tratta di vita o di morte. Le sintesi culturali sono plessi storici che condividono la sorte di tutto quello che passa sotto il cielo, nascono, crescono, cambiano, a volte si riproducono, possono anche morire. Un’ispirazione essenziale può sopravvivere spontanea e sotterranea nelle coscienze anche solo di pochissime persone, ma comunque se non avesse più visibilità sociale, sarebbe considerata ininfluente. Hic Rhodus, hic salta! A mio parere, la «scelta decisiva» per la vita o la morte che ci sta di fronte si imposta meglio se si distinguono radicalmente i due aspetti del problema: quello politico e quello culturale.
Il versante politico
Qui si tratta di vedere se l’espressione «cattolicesimo democratico» identifichi ancora una posizione «politica» di qualche riconoscibilità, nell’orizzonte della ridislocazione complessiva del panorama italiano, completata con la nascita del Pd, la vaga ipotesi di resurrezione di un centro attorno all’uscita dell’Udc dall’alleanza di destra e la crisi profonda dell’area a sinistra del Pd. C’è chi sostiene di sì e coltiva l’eredità con una certa tenacia. Ma qui escluderei subito l’Udc e i «centristi» di ogni risma, non solo perché il loro passato parla chiaramente, ma perché la loro idea della moderazione è tutt’altra rispetto a quella cattolico-democratica. Nel Pd fino ad ora l’immagine dei cattolici-democratici appariva coincidere con la lobby popolare-mariniana. Il rimescolamento attuale delle correnti con i giochi congressuali sembra aver spiazzato questo residuo «ridotto politico».
Alcuni tengono però in vita nel Pd l’idea di una «sensibilità culturale», come l’annunciata Fondazione «Persona comunità democrazia», promossa da Castagnetti, o la rivista «Quarta fase». Ci sono poi i Cristiano-sociali, che coltivano una prospettiva analoga di fermento nel partito. Meno «identitaria» appare l’area, pur fortemente connotata in chiave cattolico-democratica, che si raccoglie intorno a Rosy Bindi. Vedremo anche il nuovo profilo e la collocazione della cosiddetta Area democratica di Franceschini, in movimento dopo la battaglia congressuale. Fuori dal Pd, Raniero La Valle ed altri hanno lanciato una più radicale «Sinistra cristiana» (con intenzioni almeno apparentemente non partitiche): vedremo che prospettive costruirà.
Ogni contributo può essere utile, ma questo non è un quadro che possa appassionare chi pensa da tempo che il cattolicesimo democratico non rappresenti una posizione politica determinata nello scenario contemporaneo, e che occorra invece «da cattolici democratici» partecipare alla dinamica politica con la capacità di trovare collocazioni originali e sintesi nuove con altri «affini» provenienti da culture diverse. Anzi, che l’uso del nome e dell’immagine continui a essere diffusa, è in qualche misura una complicazione del quadro, per chi eventualmente non si riconosca in questi spezzoni politicamente attivi. Ma su questo tema rimando all’articolo parallelo di Franco Monaco.
Comunque, la politica attuale appare un’area di libera sperimentazione, in cui chi avrà più filo tesserà, ma in cui non ne va della sopravvivenza di un intera prospettiva culturale. Questo discorso si accompagna naturalmente a un’analisi politica abbastanza scettica sulle attuali forme-partito (Pd compreso) e sulla loro possibilità di divenire soggetti di cambiamento reale. Su quel terreno è bene che qualcuno lavori e «contenga il male» se ci riesce: ma senza illusioni soverchie.
Il versante culturale
A me sembra molto più urgente il problema culturale, soprattutto in chiave di rivitalizzazione e trasmissione di una sensibilità, che rischia la totale delegittimazione sul fronte ecclesiale, recidendo fili di continuità con il Vaticano II (cosa già capillarmente avvenuta, ahimé, ma che tra breve potrebbe diventare irreversibile). Una cultura che rischia d’altro canto la totale sottovalutazione dal punto di vista civile e degli interlocutori «esterni», dato che non viene identificata come una realtà né da stampa e media, né dagli interlocutori istituzionali o culturali.
Naturalmente, potrebbe essere che questa difficoltà sia frutto di limiti interni, di una caduta di elaborazione e di originalità. Di una contraddittorietà di impostazione o di un’asfittica ripetizione del passato. Di un esaurimento culturale. Ma la sintesi di istanze diverse, sopra additata, non configura un approccio ideologico, statico, ripetitivo, quanto una istanza metodologica, mobile, flessibile, continuamente in grado di evolvere e crescere. Quindi, di tutto si può discutere, ma se si è convinti che una sensibilità comune esista, il problema è svilupparla, farla reagire con l’attualità, tirarne fuori le conseguenze più profonde, aggiornate, incisive. Non fermarsi alla sterile recriminazione sulla mancanza di chiarezza o sull’invecchiamento del modello.
Sotto questo profilo, occorre ragionare in modo spassionato e urgente del problema di come ridare visibilità e spessore, specificamente culturali ed ecclesiali, a questo mondo. Se ci sarà rilancio e capacità imprenditiva su questo fronte, poi tutte le possibili ricadute politiche saranno sperimentabili. Per essere precisi: questo discorso non coincide con l’antica tentazione di «ripartire dal basso», perché solo quando avremo riconquistato pian piano tutte le anime individuali potremo proporre una politica nuova. Tale schema mentale, spesso presente nei nostri dibattiti, è illusorio, auto-consolatorio e alla fine assolutamente perdente. La cultura è infatti un mondo analogo alla politica, in cui ci vuole capacità di proposta, visibilità, imprenditorialità, soprattutto ad opera di minoranze attive. Poi, se ha capacità di fruttificare e di aiutare le donne e gli uomini reali a capire il proprio tempo, anche la cultura può e deve anche allargare la propria influenza e porsi il problema di allargare il circuito vitale tra le persone. Ma se non si comincia dalla proposta incisiva non si va da nessuna parte.
Un quadro frammentato ma ricco e vivace
Al momento, a questo proposito il quadro reale come appare? C’è un associazionismo cattolico tradizionale ispirato sostanzialmente a posizioni cattolico-democratiche (Acli, Ac, Meic ecc.), ancora abbastanza ampio e capillare, pur se sempre più fragile a livello locale e sempre più «normalizzato» al vertice (per ragioni di vario tipo). Con questo mondo le interlocuzioni non possono che essere vitali, nell’accompagnamento di fatiche e tensioni, ma coscienti che il suo carattere istituzionale non lo rende oggi una realtà in grado di essere soggetto attivo di trasformazione. C’è in secondo luogo il mondo magmatico del volontariato, delle Caritas e del «terzo settore» cattolico, che esprime nei fatti esperienze in (almeno parziale) sintonia con la prospettiva cultural-politica cattolico-democratica in termini di contenuti, ma manca talvolta di spessore di riflessione metodologica e di sensibilità sia specificamente «politica», sia sui nessi Chiesa-società-politica. Quest’area sfuma poi verso esperienze connotate in senso terzomondista e pacifista, anche questa con sensibilità vicine a quelle sopra descritte, dotata di maggior senso politico della precedente, ma spesso più allergica alla mediazione: il che l’allontana invece dalla sensibilità cattolico-democratica. Ci sono alcune riviste dalla nobile storia, ancora incisive: «il Regno», «Aggiornamenti sociali», «Adista», «Jesus», «Rocca», «Servitium», «Studium», «Humanitas», «Il Foglio» di Torino, «Il Tetto» di Napoli, «Il Gallo» di Genova, «Dialoghi» degli amici ticinesi; più strettamente ecclesiale-pastorale, ma sempre in sintonia, «la Rivista del clero italiano». C’è l’area dell’ex «dissenso», spesso giunto su posizioni simili a quelle precedenti, anche se caratterizzata da un approccio programmaticamente polemico e fortemente intra-ecclesiale (Cdb, Noi siamo Chiesa). Ci sono alcuni circuiti monacali-religiosi molto sintonici, anche se ovviamente ispirati a una logica che non può essere primariamente cultural-politica (basti indicare Bose, ma anche Camaldoli e affini…). Ci sono, infine, i cenacoli specificamente spiritual-cultural-politici, amicali, comunque molto personalizzati: oltre alla nostra Città dell’uomo, la Rosa Bianca — «il Margine», Agire politicamente, Argomenti 2000, i Circoli Dossetti, Eguaglianza e libertà di Carniti, gli Amici di Camaldoli, e altri gruppi attivi in varie città (Agorà Marche, Laboratorio per la polis, l’Istituto Rezzara di Vicenza, Polis 2000, Cittadinanza attiva, il Centro Rizzatti di Gorizia, il Centro San Domenico di Bologna, Polis di Legnano, Circolo Moro di Genova, la Cooperativa cattolico-democratica di cultura di Brescia, Il Borgo di Parma, la Fondazione Gorrieri a Modena, la ventina di circoli che si sono richiamati al nome di Giorgio La Pira, gli altri gruppi che si rifanno al nome di Lazzati o a quello di Moro… e l’elenco potrebbe continuare moltissimo; anzi, mi scuso con chi non cito per dimenticanza o per mia troppo parziale conoscenza della mappa del paese).
Come si vede, anche da questi rapidissimi cenni, si tratta di un arcipelago in cui c’è ricchezza di esperienza, spiritualità e cultura, ma che appare sfrangiato e disperso. Un arcipelago che ha conosciuto anche stagioni di accentuata differenziazione e talvolta veri e propri conflitti interni, con morti e feriti, e quindi cicatrici da consolidare. Ma in cui le ragioni della frammentazione mi sembra siano oggi drammaticamente ridotte, di fronte alla condizione critica comune, da tutti condivisa. Un arcipelago molto più ricco, più vitale, più reale della rappresentazione mediatica che se ne ha (e financo della sua autorappresentazione, a tratti lamentosa, sfiduciata e pessimista).
Urge un’impresa comune
Il problema allora è: per rendere visibile questo mondo, per provare a rilanciare circuiti di ricerca e di approfondimento culturale, per far reagire le sensibilità comuni sui temi imposti dall’agenda pubblica, occorre trovare forme nuove di convergenza e di impegno, non solo e non tanto banalmente organizzativa, ma spiccatamente culturale e comunicativa. Anche se l’aspetto organizzativo non è secondario. Ciascuno a sé non conta niente, infatti. Come fare? Le strade teoriche possono essere diverse.
La prima è quella di moltiplicare i momenti di incontro reale e diffuso, promuovere l’abitudine di incontri organizzati assieme, mettere in comune energie convergenti tra circuiti diversi su singoli eventi, far muovere le persone (cosa peraltro sempre più difficile, perché la globalizzazione è una cosa strana e ciascuno alla fine resta a casa sua se non ha un motivo fortissimo per uscirne). Ancora, firmare assieme testi o diffondere documenti co-prodotti. Costruire «forum» e «consulte» per confrontarsi e discutere. Strada già in parte avviata, che si può migliorare, ma che purtroppo è relativamente debole per effetti.
La seconda prospettiva potrebbe essere «federare» le diverse realtà esistenti, nazionali e locali, in una sorta di «super-associazione» o in qualche centro federativo comune: potrebbe portare risultati efficaci, ma sembra difficilissimo, perché non c’è chi abbia autorevolezza per imporlo, non c’è un leader visibile pronto da usare (e in tempi di personalizzazione questo elemento conta tantissimo) o un punto di riferimento spontaneo. E infine non sembra esserci assolutamente «domanda», cioè capacità di spontaneo superamento del pluralismo e della dispersione.
Una terza e diversa prospettiva potrebbe essere creare uno strumento di riferimento comune tra alcuni di questi soggetti, che possa affermarsi spontaneamente poco per volta come un punto di aggregazione a livello nazionale e offrire quindi anche visibilità esterna e soprattutto capacità di ampliamento ulteriore e irraggiamento dell’analisi e delle proposte. Ogni associazione, gruppo o gruppetto, ogni casa editrice, rivista o centro culturale, potrebbe continuare a vivere e fare le proprie cose, offrendo contemporaneamente sostegni parziali ma solidi all’impresa comune (persone e finanziamenti, articoli e idee, risorse per girare il paese; soprattutto, direi, disponibilità a metterci la faccia!).
Che forma potrebbe avere tale impresa? Ho l’impressione che debba essere un punto di coagulo di ricerche e ragionamenti culturali di vario tipo, ma che debba soprattutto avere una dimensione comunicativa molto forte: far circolare quello che c’è, più che non illudersi di rifondare il mondo a forza di seminari per addetti ai lavori. Una Fondazione? Una rivista, un portale web, un blog? Sono tutte ipotesi plausibili, ma deve essere una e una sola (non ci possiamo permettere di disperdere energie); deve essere uno strumento visibile e forte anche imprenditorialmente, pena appunto l’irrilevanza; deve diventare un punto di riferimento riconosciuto e autorevole anche al di fuori (ma per diventarlo all’esterno deve esserlo primariamente all’interno, va da sé).
Concludendo: apriamo un dibattito?
Sarebbe bene far circolare riflessioni, se si ritiene che l’analisi abbia un senso. Identificare i punti critici, verificare le convergenze sull’analisi. Proporre modalità per affrontare i problemi. E cercare assieme un punto di caduta operativo il più possibile comune. Il tempo ormai s’è fatto breve.
Cattolici democratici oggi
› Franco Monaco
Quella di cattolicesimo democratico è sigla e nozione «consacrata» dalla storiografia e dal linguaggio corrente. Tuttavia, il suo significato e la sua latitudine non sono univoci. Proprio Guido Formigoni ha scritto pagine limpide mirate allo scopo di una più puntuale concettualizzazione del cattolicesimo democratico. In prima approssimazione, svolgendo la sigla, possiamo intendere, con essa, quel complesso di idee, di esperienze, di soggetti che hanno messo a tema il rapporto tra cattolicesimo e democrazia. Più specificamente: che si sono applicati alla conciliazione, teorica e pratica, del cattolicesimo con la moderna democrazia, a sua volta più precisamente intesa come «regime», come forma politica imperniata sul metodo e sugli istituti della libertà. Se non erro, Formigoni, nella sua descrizione/concettualizzazione, ha fissato due caratteristiche/acquisizioni peculiari del cattolicesimo democratico in senso proprio e in senso stretto: quella dell’autonomia e laicità della politica e quella dell’indole sociale-riformatrice, direi così, naturaliter di centrosinistra. Una visione sostanziale e progressiva della democrazia, che non si contenta di assicurare le regole e le garanzie proprie della democrazia liberale.
A quelle due caratteristiche, si può forse aggiungere la «cultura della mediazione» di scuola maritainiano-montiniana.
Su queste basi, si possono ricavare due prime conclusioni: 1) il cattolicesimo democratico è solo parte del più vasto cattolicesimo politico, parte che è stata spesso storicamente minoritaria in quel più esteso contesto; 2) così anche dentro la stessa vicende della Dc, ove non sempre i cattolici democratici in senso proprio sono riusciti ad imprimere il proprio segno o comunque a realizzare una ben intesa egemonia. Per intenderci, il cattolicesimo politico ha conosciuto altre, molteplici declinazioni: l’opposizione cattolica, il clerico-moderatismo, il cattolicesimo liberale, il clerico-fascismo, il moderatismo di marca dorotea, esperienze cristiano-sociali minoritarie dentro la sinistra italiana…
A queste puntualizzazioni se ne possono aggiungere un paio meno formali: 1) in sede storica, si può sostenere che il cattolicesimo democratico è cultura e tradizione che ha positivamente concorso, con altri, all’instaurazione e allo sviluppo della democrazia costituzionale e, segnatamente, a imprimervi un’ispirazione personalistica e solidaristica; 2) tale cultura/tradizione, in Italia, più che altrove, ha preso corpo in esperienze politiche organizzate che, ancorché in misura diversa e a fasi alterne, hanno rappresentato un inveramento di essa.
Le basi teologico-culturali del cattolicesimo democratico
Il cattolicesimo democratico, nell’accezione pregnante sopra accennata, affonda le sue radici in un’elaborazione teologico-culturale che possiamo sinteticamente associare alla lezione di Giuseppe Lazzati: la distinzione tra Chiesa e politica, l’autonomia responsabile del laicato politicamente impegnato, la mediazione culturale, la laicità della politica, il legittimo pluralismo delle opzioni pratiche.
In questa luce, si può ancora sostenere che, per un verso, il cattolicesimo democratico è stato un laboratorio privilegiato dell’autonomia e del protagonismo di un laicato non più «minore» e, per altro verso, che esso ha attinto motivazioni, energie, linfa vitale a quella vasta gamma di esperienze associative di base che va sotto il nome di movimento sociale cattolico.
Un’eredità estenuata
Non possiamo dare conto qui dell’evoluzione recente. Avanzo solo tre tesi che sottopongo a discussione: 1) non c’è motivo di rimpiangere i bei tempi andati. Dopo un tempo nel quale si è sbrigativamente liquidata la vicenda democristiana sotto un segno negativo (a inizio anni Novanta), ora domina per converso una sorta di riabilitazione acritica, quasi la mitizzazione di una storia decisamente più controversa, intessuta piuttosto di luci e di ombre (si rammentino, al riguardo, i giudizi taglienti di Lazzati e Dossetti). Sono mancati cioé una elaborazione adeguata e matura, un bilancio franco e obiettivo di quella complessa esperienza e dell’eredità che ci ha lasciato; 2) ciò non impedisce di rilevare due vistose regressioni recenti, che incidono sullo stato di salute malferma del cattolicesimo democratico. Alludo alla regressione dello spirito conciliare nella Chiesa italiana e alle condizioni critiche in cui versa la democrazia italiana; 3) sinteticamente si può sostenere che le ultime due stagioni creative del cattolicesimo democratico sono legate ai nomi di Aldo Moro, di Nino Andreatta e di Romano Prodi, con l’ideazione dell’Ulivo. L’Ulivo, quantomeno nel suo progetto originario, ha rappresentato un laboratorio/cantiere privilegiato ove il cattolicesimo democratico ha potuto esercitare in concreto l’indole democratico-riformatrice e la laicità della politica, che abilita alla proficua collaborazione tra i cristiani e gli uomini di buona volontà di diverse matrici ideologico-culturali.
A valle di quelle due stagioni (di Moro e Andreatta), il cattolicesimo democratico ha scontato e sconta una vistosa sterilità e inerzia. Anche e soprattutto a motivo dei notevoli limiti di un partito, il Partito popolare (il giudizio è duro, ma potrei argomentarlo), che si è impadronito della risorsa simbolica e della sigla nobile del popolarismo. Alludo alla riduzione/snaturamento di essa, a dispetto dei propositi ma anche a causa degli errori politici di quel galantuomo di Martinazzoli. Penso al padre-padrone che ha ereditato quel piccolo partito, Franco Marini, che lo ha ridotto a ceto politico, a cordata sostanzialmente agnostica e sterile sotto il profilo politico, abile e disinvolta nel negoziare la propria quota di minoranza dentro l’Ulivo-Pd, sempre al carro dei processi politici volentieri delegati ad altri (D’Alema, Rutelli, Veltroni e forse ora Bersani). Con il risultato di rivestire con i panni del popolarismo la sostanza di una soggettività minoritaria e subalterna, sensibile più agli organigrammi che alla politica (tre o quattro personalità genuinamente cattolico-democratiche ivi impegnate non hanno avuto peso significativo nei passaggi che hanno contato dentro la lunga transizione seguita al collasso del sistema politico ai primi anni Novanta e alla fine della Dc).
Parentesi minore (chiedo scusa per la caduta nella «prosa», utile però a suffragare il severo giudizio sopra formulato): ancora di recente, a fronte del primo congresso Pd finalmente competitivo e dall’esito non scritto, Marini (e con lui D’Alema) hanno dapprima provato per l’ennesima volta a sterilizzare il confronto, differendo il congresso e gestendo di nuovo consociativamente questo passaggio. Non essendogli riuscito, Marini, incurante della bizzarria, ha dichiarato di sostenere Franceschini pur riconoscendosi di più nella linea di Bersani e spingendo alcuni dei suoi a sostenere questo secondo candidato. Come a dire che la politica è l’ultima cosa. Tutto è relativo, tutto è negoziabile, conta non pregiudicare l’ennesimo patto da siglare a valle del congresso, chiunque lo vinca, nel quadro di una sempiterna gestione oligarchico-castale del partito.
Una novità virtualmente promettente, ma ancora da verificare, è un principio di autonomizzazione post-congressuale da parte di Franceschini, che è sembrato rifiutare la vecchia logica organigrammatica e contrattualistica puntualmente adombrata da Marini. Autorizzando così a sperare che finalmente si sia prodotto il tanto atteso passaggio generazionale cui corrisponda uno scatto in avanti culturale e politico verso la ripresa della più genuina vena cattolico-democratica, ancorchè non più rivendicata in esclusiva e praticata in campo aperto, associandosi politicamente ad altri.
Che fare?
Tale esperienza non brillante ci fa cauti e avvertiti rispetto alla tentazione di immaginare nuove formazioni politiche espressione organica del cattolicesimo democratico. Troppo alto il rischio di mistificazione, di uso strumentale di quel nobile patrimonio anche a sinistra. Per non parlare del centro, oggi presidiato da Casini, che mi è difficile inscrivere sotto la cifra del cattolicesimo democratico. Piuttosto un mix di moderatismo/doroteismo e di clericalismo (Buttiglione). Un centro troppo incline al trasformismo/opportunismo, che non giova alla positiva evoluzione verso un bipolarismo maturo che traguardi al dopo Berlusconi. Si veda non solo la pratica andreottiana dei due forni, come se Pd e Pdl pari fossero, e la recente evocazione di nuove maggioranze parlamentari, nella totale noncuranza per la volontà degli elettori e facendo leva sull’istinto di sopravvivenza del ceto parlamentare.
Non mi pare che operazioni centriste vagheggiate di recente, che vedessero protagonisti Casini, Riccardi, Montezemolo, operazioni contrassegnate dal mix di doroteismo, clericalismo, tecnocrazia, possano portare il segno del cattolicesimo democratico. E tuttavia, a conferire qualche plausibilità all’impresa potrebbe concorrere lo strascico del caso Boffo. Dopo la disillusione e il conflitto con il fronte berlusconiano, in settori della gerarchia, potrebbero fare breccia le sirene centriste. Essendo già la cultura cattolica media, e segnatamente quella degli ecclesiastici, ingenuamente incline all’ipostatizzazione del centro, inteso quale luogo per eccellenza della virtù, e ora tanto più a fronte di una sinistra debole e inaffidabile e di una destra rivelatasi ostile.
Ecco perché sarei parco e prudente nell’evocazione della sigla del cattolicesimo democratico, in questa stagione. Alimenterebbe equivoci, nostalgie, strumentalizzazioni, contraffazioni del cattolicesimo democratico stesso.
Piuttosto, si tratta di valorizzare quel patrimonio, di attingere a quell’ispirazione su tematiche etico-politiche cruciali e fondative sulle quali siamo tornati indietro, come comunità cristiana, come mondo politico e come paese nel suo insieme:
— la difesa della democrazia costituzionale;
— la mediazione culturale (specie sulla bioetica);
— la laicità dello Stato;
— il valore del partito politico e la sua democrazia interna (l’ultimo Scoppola).
A questi nodi, si dovrebbe aggiungere, anzi anteporre, quello genuinamente pastorale di una radicale correzione di rotta rispetto al politicismo che ha ispirato la stagione recente della Chiesa italiana. Stagione che si è rivelata fallimentare sia sul piano ecclesiale che su quello politico, con la sua programmatica mortificazione del laicato e con il sovvertimento del primato dell’evangelizzazione e del distanziamento dalla politica che invece contrassegnò il primo dopo Concilio in Italia.
In sintesi, più spiritualità e teologia, più creatività e pensiero politico affidati a cattolici diversamente dislocati nel Pd e nel centrosinistra, meno evocazione retorica del cattolicesimo democratico e resistenza alla insidiosa tentazione di fare un nuovo partito o una nuova corrente cattolico democratica. Abbiamo già dato…

