Appunti 6_2009

Meditare nel cuore

Angelo Casati

Riflettere sul tempo che trascorre è impegno comune davanti un altro anno che se ne va. E’ possibile farlo con lucidità evangelica, prova a suggerire questo contributo sapiente che abbiamo voluto chiedere a un grande amico spirituale della rivista: cogliere i segni della tragedia umana e dell’imbarbarimento di una civiltà, senza trascurare il dovere della speranza per quello che di nuovo germoglia, lontano dai riflettori e dalle luci della notorietà effimera. Un simile approccio ci chiede quindi di essere più vigili, attenti, aperti, creativi.

È tradizione che nel passaggio da un anno all’altro ci si senta come autorizzati a fare bilanci. Bilanci e previsioni. E voi mi perdonerete se confesso la mia incapacità, il mio sentirmi inadeguato a fare bilanci e previsioni.

I verbi piccoli

Nel capitolo 40 di Isaia trovo scritto ed è parola che sempre mi colpisce profondamente: «Chi ha misurato con il cavo della mano le acque del mare e ha calcolato l’estensione dei cieli con il palmo? Chi ha misurato con il moggio la polvere della terra, ha pesato con la stadera le montagne e i colli con la bilancia?» (Is 40,12).
I bilanci, non solo quelli economici, soprattutto quelli della storia, i bilanci della vita, non sono alla mia portata. Davvero mi ritrovo con un palmo a calcolare l’estensione dei cieli, con un cavo di mani a misurare le acque del mare, con il moggio a misurare la polvere della terra, con la bilancia, la mia piccola bilancia, a pesare montagne e colline.
Non mi ritrovo nelle grandi analisi, nelle seducenti previsioni. Non sono i verbi che mi appartengono, mi ritrovo più a mio agio nei verbi piccoli, quelli ricordati da Luca nei vangeli della nascita, i verbi dei pastori, di Maria: udire, vedere, stupirsi, raccontare, meditare nel cuore, glorificare, lodare Dio.

La luce di Maria

Facciamo il passaggio da un anno a un altro, ancora illuminati da un’icona. Quella di Maria che contemplava quel suo cucciolo d’uomo, in una mangiatoia, visitato da pastori e — racconta Luca — «serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore».
Mi augurerei, che, nel trascorrere da un anno all’altro, questo fosse il nostro atteggiamento: meditare nel cuore. Non siamo chiamati a dimenticare, per cancellare, per bruciare ciò che è stato, e così vivere la fine di un anno come «un voltar pagina». Sarebbe un’operazione di una ingenuità imperdonabile. Come se ciò che è stato non ci avesse profondamente segnato nel cuore e nella carne e non fosse diventato parte incancellabile di noi stessi. Si pensi anche solo a chi tra noi ha perduto nell’anno una persona cara o a chi ha visto sgusciare dai nove mesi il volto di un neonato o a chi, lungo l’anno, ha avuto la gioia di aver intuito qualcosa del volto di Dio o a chi ha sperimentato il fremito di un’amicizia… ditemi voi se si può voltare pagina!
Siamo chiamati invece, come Maria, a trattenere tutte queste cose e a meditarle nel cuore.
E forse varrà la pena di ricordare a noi stessi che meditare non vuol dire certo capire, capire tutto, capire totalmente. Anche Maria, che pur meditava, non capiva, non capiva totalmente, essa custodiva nel cuore una Parola più grande di lei. Anche Maria non si spiegava tante cose: perché le era toccato quel lungo viaggio negli ultimi giorni della sua gravidanza, perché a lei, proprio a lei, era toccato di far nascere un figlio fuori da una casa e di deporlo in una mangiatoia? Ed era il figlio dell’Altissimo, così le era stato detto. Eppure tratteneva, meditava. Anche noi, lo confessiamo non ci spieghiamo tante cose dell’anno che sta ormai scivolando via. Eppure vorremmo trattenere, meditare.

Raccogliere i ricordi

Da tempo mi accompagnano nel passaggio da un anno all’altro le parole di un vecchio prete, mio amico, morto alcuni anni fa, uomo delle montagne, occhi chiari, don Michele Do: «Non dimenticherò mai» diceva «un Natale passato nell’eremo di sorella Maria, dove, in quel periodo, sulla grande madia, nella grande sala, venivano esposte tutte le fotografie degli amici lontani: le presenze vive di quelli ancora pellegrinanti e di quelli che erano già andati oltre, nel Regno! Come è bello raccogliere i ricordi. Io ho bisogno di ritrovare questi volti. Credo che questo sia un momento sacro». E aggiungeva, a scanso di fraintendimenti: «La memoria cristiana, la memoria religiosa, non è la struggente nostalgia del tempo perduto, ma sono tutte le ricchezze del nostro passato: tutte le ricchezze degli affetti, delle presenze, delle cose vissute, le cose belle e — lasciatemi dire — anche le ore oscure, le ore di smarrimento, le ore di peccato, non dobbiamo rifiutare nulla. Non dobbiamo cancellare niente, dobbiamo assumere tutte le cose perché sono diventate sostanza della nostra vita… I mulini di Dio macinano ogni cosa, anche il nostro peccato… anche i nostri momenti di pochezza, di povertà, di oscuramento, di travolgimenti».
Meditare non è dunque voltarsi indietro. Il Signore ci dice: non voltatevi indietro. Gesù, accogliendo creature consunte e sfigurate, diceva loro: «Alzati e cammina». Il Signore ci dia il coraggio di guardare sempre oltre. In questi tempi di mediocrità e di indifferenza occorre non cedere mai l’anima, non cedere alle delusioni, alle amarezze, alle tentazioni del ripiegamento su se stessi, alla tentazione della fuga. Ci sono delle cose morte ovunque, nella chiesa, nella società civile, nel nostro ambiente. Non cediamo l’anima a queste cose morte.
Ma ci sono delle cose vive e queste dobbiamo farle vivere. Cerchiamo di far vivere le cose che meritano di esistere e di vivere.

I segni dell’imbarbarimento

Non possiamo certo negare i segni dell’imbarbarimento. Penso che molti di noi ne portino l’animo ferito. Penso che molti di noi si siano più volte domandati lungo l’anno come sia potuto accadere lo scempio cui stiamo assistendo, questa sconvolgente deriva. Siamo finiti in mano ai venditori: ci hanno venduto una civiltà che è inciviltà, un benessere che è malessere, un progresso che è regresso. E hanno avuto anche la spudoratezza di chiamarla civiltà, di chiamarla civiltà cristiana.
Ci hanno rubato l’anima. Sì, mentre mettevano in prigione ladri da quattro soldi, ci hanno rubato l’anima. Dentro un clima — e noi dovremmo ricevere avviso di reato per mancata vigilanza! — dentro un clima di assuefazione generale. Dentro il sonno della ragione, dentro l’afasia assordante delle gerarchie, interessate ad altro. E si fa scempio dell’anima. E non abbiamo udito, forse per sordità dello spirito, l’urlo dei profeti, dei profeti di tutti i tempi, levarsi a notte, a monito, dalle tombe. Per questo sfregio, per questo scempio d’anima. D’anima e di dignità. Scempio d’umanità e di istituzioni. Di istituzioni che sono costate passione e sangue di resistenti. Un panorama desolante. Dove la fatuità, l’artificio, la menzogna, la corruzione, la furbizia dei disonesti, lo scempio dei sentimenti, lo svilimento della donna, la devastazione del suo corpo, la seduzione dell’adolescenza per miti di carta colorata, fanno scuola, nei salotti del vuoto, dalle tribune e dai palchi di satrapi e sultani di turno. E la corte a incensare. A incensare il vuoto, il vuoto d’anima. Come mai siamo finiti in mano ai venditori?
Per mancanza — così penso — di sussulti di pensiero. Ci ha rovinati la mentalità della delega, quella che ci insegna che il dono di pensare l’hanno altri, a noi tocca seguire. Ciecamente. Supinamente. Quasi mai, o raramente, molto raramente ci è stato ricordato e commentato l’invito di Gesù a giudicare. Molto commentato, e giustamente, l’invito a «non giudicare», nel senso di non emanare sentenze di esilio o di morte nei confronti di qualcuno. Ma poco, o quasi mai, ricordato l’invito a giudicare. E da noi stessi! E non per imbeccate dall’alto! A giudicare ciò che è giusto. Rimprovero severo: «e perchè non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?» (Lc 12,57).
Di qui l’appiattimento. Ingoiamo tutto. O pensando che non è poi così male o non rendendoci nemmeno conto di ciò che ci viene propinato. Ingoiamo, nella sovrana indifferenza. Non meditiamo né abbiamo cuore. Ritorna l’icona di Maria che meditava nel cuore, ritorna la preghiera di Salomone che, chiamato a governare un popolo numeroso, non chiede a Dio ricchezze o la vita dei suoi nemici, ma in controtendenza a quanto ancora oggi succede tra i «grandi», chiede a Dio «discernimento nel giudicare» e «un cuore saggio e intelligente».

Ricominciare dalla sapienza del cuore

Alla domanda da dove ricominciare, in tempi di emergenza, dentro questo bisogno avvertito e sofferto di aria nuova, la parola di Dio sembra indicare la strada preziosa della sapienza del cuore, che ci faccia sfuggire al fascino triste dell’idolatria e della maschere vuote e sia per noi acqua chiara e dolce, in cui lavare i nostri occhi. Oggi ce li sentiamo sporcati. Tutti, chi più e chi meno, ce li sentiamo sporcati. Se la sapienza di Dio laverà i nostri occhi, se le beatitudini del monte torneranno, lungo l’anno, a illimpidirli, scopriremo tracce e fessure di speranza là dove i nostri occhi, ammaliati e sedotti dai miti mondani, non sarebbero mai andati a scovarli. Li scopriremo in basso, nelle vene più quotidiane della storia, perché proprio tra i piccoli, per uno dei sorprendenti dirottamenti di Dio, ha cercato rifugio la speranza. Lì, in basso, dove solitamente non guardiamo, accade un germogliare tenero e silenzioso. Noi purtroppo guardiamo altrove.
Può capitare dunque di avere occhi e non vedere, di avere orecchi e non ascoltare, di essere sedotti solo dal luccichio delle grandezze mondane, di avere un cuore che non sa meditare. «Donaci, Signore, la saggezza del cuore». E la saggezza del cuore non ci fa ricercare i segni di speranza in alto, ma in basso.
Anche ai tempi di Gesù c’era chi guardava ai grandi numeri. Avevano pure inventato un censimento. E nel grande sondaggio era sfuggito o era parso irrilevante un nome, quello di un cucciolo d’uomo nato in una mangiatoia. Anche ai tempi di Gesù ricercavano la salvezza in alto e la salvezza, il salvatore, era quel bambino nato in basso, più basso di così! E Giuseppe lo chiamò, secondo l’ordine dell’angelo, «Gesù», cioè con un nome che dice «salvezza», lui, piccolo cucciolo d’uomo, circonciso di otto giorni come tutti, lui il salvatore.

I segni di speranza

Se la salvezza comincia dal basso, sarebbe stoltezza intestardirci a cercare segni di speranza in alto. Sarebbe, ancora una volta, «confidare» — dice la Bibbia — «nei carri e nei cavalieri». Mentre noi — dice la Bibbia — «invochiamo il nome del Signore, nostro Dio» (Sal 20,8). In chi confidare? Nella corazza e nelle vanterie di Golia o nelle poche pietruzze del torrente nelle mani di un Davide disarmato?
I segni della speranza sono in basso, segni spesso piccoli, ma teneri, tenaci, come germogli. Lontani dal clamore, ma vivi nei solchi oscuri della storia.
Segno di speranza la Parola di Dio che lungo l’anno ci ha illuminato e il Pane che ci ha nutrito, i fratelli e le sorelle con cui abbiamo camminato.
Segno di speranza questo disagio patito, nel più profondo del cuore, da una moltitudine numerosa di credenti, nei confronti di una chiesa che, nella sua immagine prevalente, non rare volte appare più preoccupata di sé che del suo Signore e del suo vangelo, più preoccupata dei suoi cenacoli che non delle strade su cui farsi compagna di viaggio delle donne e degli uomini del nostro tempo.
Segno di speranza donne e uomini comuni, gruppi non censiti che, nonostante tutto, mettono in gioco la loro fede e la loro responsabilità a servizio di un piccolo seme che cresce nel silenzio e nell’invisibilità della terra e che si chiama «regno di Dio». Segno di speranza ogni volta che incroci il loro volto.
Segno di speranza sono gli occhi luminosi dei nostri bambini e quelli sereni dei nostri anziani. Sono le creature che tu ami, gli amici che ti sono fedeli.
Segno di speranza le donne e gli uomini in ricerca, lontani da intrighi e compromessi, le donne e gli uomini del gratuito in una società dove tutto si compera, dove, se ci si muove, è per un tornaconto, loro liberi da calcoli e da secondi fini, loro, vorrei dire, testardi nel riunire, nel «mettere insieme» in una società che vorrebbe contrapporre e dividere.
Segno di speranza le case e i luoghi educativi dove si generano e si educano donne e uomini resistenti, critici e solidali. Là dove si persiste a insegnare che l’onestà è ancora una virtù, che la giustizia è ancora una virtù, che il rispetto è ancora una virtù. E non nel senso del peso che ti affatica, ma della bellezza, tua e dell’umanità, della bellezza che rende luminosi i volti. Onestà, giustizia, rispetto che vanno onorati. Ci rendono belli. E luminosi. Rendono bella una terra. Là dove ancora si insegna che veramente grande e bello e beato è chi resiste all’involgarimento. E resisti perché tu della dignità hai una idea diversa, così come hai un’ idea diversa dell’altro, che sia italiano o marocchino. Della donna hai un’idea diversa, che sia italiana o slava o africana. Del corpo hai un’idea diversa, che sia di un uomo o di una donna. Del denaro e del lavoro, della società e della terra, del tuo popolo e degli altri popoli, della vita, hai un’idea diversa. E non la baratti. E non la cambi secondo che l’aria dei sondaggi spinga in un senso o nell’altro. Non la cambi. Perché tu il sondaggio lo fai nella coscienza. E a condurti è questa voce che ti parla dentro. A condurti, se sei un credente, è la parola del tuo Dio. Che non può benedire menzogna e falsità, corruzione e vanità. Perché tu hai un’altra immagine di umanità e hai, se credi, un’altra immagine di Dio. Che non muta al mutare dei sondaggi.

Uno sguardo positivo

A ridare fiducia in questo transito da un anno all’altro c’è la percezione di un sommerso che non appare, dove Dio è al lavoro. C’è bisogno di questo sguardo di Dio, positivo, che crede in una forza divina che abita le piccole cose, che abita il piccolo seme di senapa, che abita il piccolo grumo di lievito. C’è bisogno di questo sguardo positivo di Dio che sa dare tempo alle crescite dello spirito e della terra. Forse dovremmo ricordare più spesso a noi stessi che a dare forza al bene, in noi e nel mondo, non sarà mai uno sguardo che incenerisce, quello è solo distruttivo, ma uno sguardo positivo e incoraggiante che sa incantarsi oggi ai piccoli germogli.
A volte per eccesso di distrazione e pessimismo non li vediamo. Vengono allora a noi le parole custodite nel rotolo di Isaia: «Ma voi non avete occhi se non per i tempi gloriosi del passato, per i tempi dell’esodo, quando aprivo un sentiero in mezzo alle acque possenti. Ma non vi accorgete di quello che oggi — “oggi!” — sto facendo?» Rimprovero che ci tocca nella carne.
Ed ecco l’invito, da ascoltare, penso sia urgente: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non vi accorgete?» (Is 43,18-19). Non vi accorgete? Dove avete gli occhi?

Avere da un lato occhi all’azione di Dio nella storia e dall’altro fare la nostra piccola parte, dare il nostro contributo. Il contributo, in tempi di abbruttimento, a «salvare un piccolo pezzo di Dio in noi e a disseppellirlo nei cuori devastati». Lo prendeva come suo impegno, in tempi ancor più angosciosi dei nostri, Etty Hillesum. Spesso di questi tempi mi riviene alla memoria una pagina del suo diario, la sua preghiera a Dio, nella notte del lager. Sveglia al buio, con gli occhi che bruciavano, lei ragazza che sfuggiva ad ogni appartenenza religiosa, così parlava con Dio: «L’unica cosa» scriveva «che possiamo salvare di questi tempi, è anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini» (Diario 1941-1943, pagg. 169-170).
Parole che ardono sull’inizio di un anno.