Appunti 4_2009


L’immigrazione irregolare: retorica e realtà

› Maurizio Ambrosini

L’immigrazione è salita di rango nell’agenda politica di molti paesi riceventi. Quasi ovunque ha risentito dell’alternanza delle maggioranze, ma ha in genere combinato una tendenza restrittiva, richiesta pressoché ovunque dalla maggioranza degli elettori, con aperture verso l’integrazione degli immigrati residenti, l’accoglienza (sia pur selettiva) dei rifugiati, la concessione della cittadinanza, al fine di evitare una segmentazione della società e una potenziale secessione degli esclusi. L’Italia ha enfatizzato le restrizioni e i respingimenti alle frontiere, ma ha quasi abbandonato ogni sforzo di integrazione degli immigrati regolarizzati.


Il sistema di sorveglianza delle frontiere «Frontex», finanziato con 42 milioni di euro, ha prodotto nel 2007 163.903 respingimenti alle frontiere europee, la maggior parte in Grecia, e principalmente sulle frontiere terrestri (73.000 casi); segue la Spagna (27.900), poi l’Italia (21.650), impegnate soprattutto a contrastare l’immigrazione africana. Malgrado questo impegno sempre più consistente (e costoso), i numeri apparentemente ragguardevoli, le polemiche sulle vite perdute in mare, si tratta, come vedremo, di un’esibizione di fermezza verso alcuni tipi di migrazioni irregolari, quelle che cercano di varcare le frontiere senza le debite autorizzazioni. Il controllo delle frontiere è uno dei simboli della sovranità nazionale, che in tempi di incertezza generalizzata su tanti aspetti della vita personale e sociale viene caricato di significati e di attese. Ma l’immigrazione irregolare è fenomeno ben più vasto, intrecciato con molte convenienze dei paesi riceventi, famiglie comprese. Tenere sotto i riflettori gli sbarchi consente di concentrare gli sforzi su un segmento limitato e relativamente controllabile della questione, disegnando un’immagine di fermezza e lasciando in ombra gli aspetti meno confessabili e più difficili da contrastare.
In questo scenario europeo si inserisce l’azione del governo italiano, indubbiamente più enfatico nel sostenere l’equazione tra immigrazione «clandestina» e insicurezza dei cittadini e più unilaterale nel condurre una campagna di chiusura senza dare spazio a misure di integrazione. Basti ricordare, a questo proposito, che il fondo per le politiche di integrazione degli immigrati è stato quasi azzerato, trasferendo le risorse alle politiche di controllo. Sono rimasti 5 milioni di euro, contro i 300 della Spagna e i 750 della Germania.

I quattro punti principali delle politiche italiane

La prima ha riguardato la definizione della questione rom nelle aree metropolitane come «emergenza», e la nomina dei prefetti come commissari, utilizzando le disposizioni legislative riferite alle grandi calamità naturali. Il primo compito affidato ai commissari è stato quello di procedere all’identificazione degli abitanti degli insediamenti tzigani, autorizzati e spontanei, con particolare riferimento ai minori, anche mediante il prelievo delle impronte digitali. In questo clima, scoppiano i fatti di Napoli: una sorta di sollevazione popolare, a cui non sembra estranea la regia della camorra, prende d’assalto e dà alle fiamme un campo rom in una periferia degradata, in seguito ad un presunto tentativo di rapimento di un neonato. Il governo si deve difendere di fronte alle istituzioni europee dall’accusa di discriminazione, insiste nel sostenere che in Italia non c’è razzismo né ostilità verso le minoranze etniche, e ridefinisce l’identificazione dei minori come un intervento sociale volto ad assicurarne la scolarizzazione. Di fatto i prelievi delle impronte sono stati pochissimi. Sono intanto proseguiti i consueti sgomberi di alcuni insediamenti abusivi, e gli altrettanto consueti riallestimenti a poca distanza.
La seconda iniziativa è consistita nell’introduzione dell’aggravante di clandestinità, in caso di condanna penale, che ha suscitato molti dubbi tra i costituzionalisti, insieme alla definizione dell’immigrazione irregolare come reato, peraltro punibile, al termine di una lunga negoziazione politica, soltanto con un’ammenda.
In terzo luogo possiamo ricordare l’accordo con la Libia, e il connesso sdoganamento del regime di Gheddafi, fino a poco prima considerato uno stato-canaglia, fiancheggiatore del terrorismo internazionale. Un evento celebrato da una visita di stato dello stesso Berlusconi, restituita dal leader libico, accolto con tutti gli onori nelle massime sedi istituzionali. Il governo ha annesso grande importanza alla collaborazione della Libia nella sorveglianza della frontiera marittima più calda, quella del canale di Sicilia, anche mediante l’internamento di migranti e rifugiati in campi di detenzione sottratti al controllo internazionale. Il respingimento dei natanti carichi di migranti e potenziali richiedenti asilo verso le coste libiche, in spregio alle convenzioni internazionali e alle critiche dell’Onu e del Consiglio d’Europa, è stato il frutto di questa collaborazione. Come hanno dichiarato i rappresentanti dell’agenzia dell’Onu per i rifugiati, circa i tre quarti degli sbarcati presenta domanda di asilo, e la metà ottiene qualche forma di protezione, perché si tratta (in misura crescente) di minori, donne incinte, persone in fuga da paesi in guerra, come l’Eritrea e la Somalia (per es., renitenti alla leva). Respingerli verso la Libia prima che entrino nelle acque territoriali italiane ha dunque lo scopo preciso di impedire che avanzino delle richieste di tutela ai sensi delle nostre leggi e delle convenzioni internazionali che il nostro paese ha sottoscritto, consegnandoli ad un destino oscuro e inquietante. Negli accordi sottoscritti, non vi è cenno alla tutela dei respinti sul territorio libico.
La quarta espressione dell’iniziativa governativa consiste nel cosiddetto «pacchetto sicurezza». Anche in questo caso, è la Lega Nord a dettare la linea governativa sull’argomento, nonostante qualche distinguo fra i parlamentari del Pdl sulle questioni più controverse.

Una presunta «fortezza Italia»

Come esito finale, tutta una serie di norme della legislazione vigente (che non è altro che la legge quadro del ’98, già modificata con la cosiddetta Bossi-Fini) sono state o verranno emendate a senso unico, penalizzante per gli immigrati, senza nessun cambiamento nel segno dell’integrazione. Si può ricordare come esempio emblematico il cosiddetto «permesso di soggiorno a punti»: punti che gli immigrati possono solo perdere, mai guadagnare, per quanto bene si possano comportare. Neppure se salvassero delle vite umane, come è già successo.
Dobbiamo poi aggiungere le varianti locali di questo orientamento politico. A livello periferico, sono proliferate al Nord normative volte a togliere la possibilità di iscrizione anagrafica a persone indigenti, il cui bersaglio sono principalmente rom e immigrati. In alcune città, come Brescia, si è tentato di varare disposizioni che concedono determinato benefici (in quel caso il bonus-bebé) soltanto ai cittadini italiani. A Milano si è cercato di impedire l’iscrizione alle scuole materne dei bambini i cui genitori non dispongono di un permesso di soggiorno. Ora, a partire dalla regione Lombardia, sono entrati nel mirino anche gli esercizi che producono e vendono kebab, con un successo presso i consumatori che probabilmente non è estraneo alle proposte restrittive1.
Questo quadro normativo potrebbe far pensare all’istituzione di una «fortezza Italia», finalmente impermeabile all’irruzione dei temuti clandestini. «Abbiamo fermato l’invasione», proclamavano i manifesti elettorali della Lega Nord, che facevano seguito all’indimenticato «Mai più clandestini sotto casa» in occasione delle ultime elezioni politiche.
Benché l’immagine internazionale dell’Italia sia stata intaccata dai ripetuti attriti con le istituzioni europee, le organizzazioni di tutela dei diritti umani e la stampa indipendente sul trattamento di rom e immigrati, le critiche internazionali e le proteste delle organizzazioni umanitarie sono state recuperate dalla comunicazione governativa come prove di conferma della linea di fermezza finalmente adottata, rispetto alla quale la difesa dei diritti umani è screditata come «buonismo».

Queste politiche sono efficaci?

Se però esaminiamo alcuni dati, reperibili su fonti ufficiali, questa immagine di vittoriosa fermezza si offusca, e ne traspare un’altra.
Le espulsioni realizzate dall’Italia nel 2008 sono state poco più di 6.000 (fine ottobre), e non potrebbero essere molte di più. In tutta Italia, i posti nei centri di identificazione ed espulsione sono meno di 1.200. L’insistenza sui 18 mesi di trattenimento, poi ridotti a 6, è fuorviante: non si farà altro che intasare, con pochi malcapitati, i pochi posti disponibili.
In realtà, e non solo in Italia, il contrasto dell’immigrazione irregolare ormai entrata sul territorio nazionale si muove secondo logiche casuali e crudeli: si trattengono gli immigrati irregolari quando ci sono posti disponibili nei centri di detenzione, quando appartengono a paesi disposti a riaccoglierli, quando ci sono risorse per affittare gli aerei e c’è il personale per rimandarli in patria. In definitiva, gli immigrati effettivamente espulsi sono modeste percentuali, e non sono necessariamente i più pericolosi o parassitari. Ma questo modo di procedere, e soprattutto la previsione di trattenere delle persone per mesi, senza processo, solleva un’altra spinosa questione: un serio vincolo alla capacità di contrasto dell’immigrazione irregolare è rappresentato dai nostri ordinamenti liberali, ossia da quello che gli anglosassoni chiamano liberal constraint. Per essere più efficaci, dovremmo essere meno liberali, così come accade in parecchi paesi del terzo mondo, indubbiamente più incisivi di noi sulla materia. È quello che il governo italiano annuncia di voler fare. Ma deve essere chiaro il prezzo da pagare, così come le resistenze a cui sta già andando incontro nelle sedi internazionali.
Criminalizzare gli immigrati irregolari rischia poi di escluderli ancora di più dai circuiti della normalità, fossero pure quelli del lavoro nero e dell’assistenza, spingendoli per forza di cose ad avvicinarsi maggiormente agli ambienti dell’illegalità. Le nuove norme potrebbero diventare un esempio di profezia che si autoavvera: una volta definiti come criminali, gli immigrati irregolari potrebbero diventarlo in misura maggiore di quanto oggi avvenga2.
Occorre ricordare che con l’ultimo decreto flussi (2007) sono state presentate domande per l’autorizzazione all’ingresso di 740.000 immigrati, normalmente già di fatto presenti e occupati in Italia (come hanno apertamente ammesso in Tv gli ultimi due presidenti del consiglio). Tra di essi, oltre 400.000 sono addetti a compiti domestici e di assistenza (le cosiddette badanti). Secondo la fondazione Ismu, gli immigrati irregolari in Italia si aggirano intorno al milione di unità. Il tasso di espulsione si aggira quindi, ad essere ottimisti, intorno all’1% dei casi. L’enorme differenza fra il numero degli arrivi via mare (30.000 nel 2008, anno record malgrado gli annunci governativi) e il numero effettivo degli immigrati irregolari deriva da un motivo molto semplice: la grande maggioranza degli irregolari arriva con un visto turistico, poi decide di fermarsi più del consentito, in genere perché trova un lavoro. Si tratta, tecnicamente, di overstayers, non di clandestini (coloro che si introducono furtivamente, o con documenti contraffatti, in un luogo a cui non potrebbero avere accesso).
Si potrebbe osservare altresì che il ministero degli Interni, grazie alle domande del decreto flussi, dispone di nome, cognome, indirizzo degli immigrati irregolari occupati, nonché dei loro datori di lavoro. Per arrestarli, non avrebbe bisogno né di medici collaborativi, né di altre dubbie strategie. Avrebbe solo due problemi: 1) dove rinchiuderli, da chi farli sorvegliare, come trovare le risorse per rimpatriarli; 2) fare i conti con i datori di lavoro (in buona parte, famiglie con carichi assistenziali).

Il lavoro nero e l’inerzia del governo

A ben guardare, il governo non è in realtà intervenuto sulla molla principale dell’immigrazione irregolare, ossia le grandi opportunità di lavoro nero che il nostro mercato offre. Anzi, ha alleggerito ispezioni e controlli. Ha proseguito sulla strada delle sanatorie mascherate attraverso i decreti-flussi. Se nel 2008 non ha autorizzato nuovi flussi di ingresso, a motivo della recessione, ha però promesso di regolarizzare un nutrito contingente (intorno alle 150.000 unità) di immigrati rimasti esclusi dal decreto flussi precedente, con ciò confermando che si tratta appunto di una manovra di sanatoria. La discontinuità con il passato e la severità asserita vengono meno proprio sul punto decisivo. Se in Italia, come in altri paesi, i flussi di immigrazione irregolare sono particolarmente elevati, questo è dovuto alle abnormi dimensioni dell’economia sommersa. Se si volesse lottare effettivamente contro l’immigrazione irregolare, bisognerebbe stroncare la domanda che la alimenta. Ciò significa inasprire e rendere effettive le sanzioni contro i datori di lavoro, soprattutto allorquando si tratta di imprese. Benché nel pacchetto sicurezza un articolo preveda un aggravamento delle sanzioni a carico dei datori di lavoro degli immigrati irregolari, di questo fondamentale aspetto non si vede traccia nella comunicazione governativa. La questione dell’immigrazione definita come «clandestina» è sempre trattata come problema di ordine pubblico, non viene mai collegata alle dinamiche del mercato del lavoro italiano, che in realtà la richiede, la alimenta, in qualche misura la protegge (pensiamo alle famiglie con le loro colf e assistenti domiciliari), in parte la fa emergere attraverso sanatorie e decreti flussi.
Qui tocchiamo un altro punto saliente della questione. Mentre in genere si pensa che immigrazione regolare e immigrazione irregolare siano due mondi distinti, un’altra indagine della fondazione Ismu attesta che in Lombardia su tre immigrati oggi regolari, due sono stati irregolari per una fase della loro permanenza in Italia. Tra i lavoratori, la percentuale è ancora più alta: gli immigrati che sono sempre stati regolari in genere sono quelli che arrivano per ricongiungimento familiare. Per i lavoratori, il passaggio per l’irregolarità rappresenta un norma. Fluidità e reversibilità della condizione giuridica hanno fatto parte finora della «carriera» degli immigrati in Italia. Possiamo dire che l’irregolare di oggi sarà il regolare di domani, e il regolare di oggi era l’irregolare di ieri. Il governo non sembra in realtà intenzionato a cambiare per davvero questo sistema un po’ strano, ma non del tutto irrazionale, di regolazione dell’immigrazione. Se lo facesse, non fermerebbe l’immigrazione irregolare, ma ne prolungherebbe la permanenza in una condizione subumana di privazione di diritti: tra i più sentiti, quello di poter rientrare provvisoriamente in patria per rivedere i propri cari.
Va ricordato infine che la questione rom è praticamente scomparsa dalle cronache, ma resta irrisolta. I censimenti hanno comunque conseguito l’effetto di smontare le cifre più fantasiose. In provincia di Milano si parlava di 20.000 rom nei campi abusivi, di cui 10.000 in città. Di fatto non arrivano a 800. Per contro, le misure di integrazione, che erano state addotte di fronte alle istituzioni europee come giustificazione per i censimenti, finora non si sono viste.
Il governo è però riuscito fin qui nel suo intento principale: comunicare all’opinione pubblica l’idea di una maggiore tutela della sicurezza. Un risultato quindi sul piano dell’immagine e della propaganda, non confermato dai fatti.

1 La norma proposta in Lombardia non si riferisce esplicitamente ai kebab o al cibo etnico (diversamente da Lucca), ma i proponenti nelle loro dichiarazioni non hanno mancato di sottolineare quale sia l’effettivo bersaglio dei divieti.
2 Se il bersaglio sono gli immigrati rumeni, di cui si sottolinea l’incidenza nelle statistiche criminali, è quasi superfluo ricordare che la norma in questione non può colpirli, in quanto cittadini europei.