Appunti 4_2009

Il discorso di Obama al Cairo:
i primi passi di un nuovo inizio

› Paolo Branca

«Un nuovo inizio» con queste tre parole il presidente degli Stati Uniti ha dato al mondo intero la speranza che la parola «pace» abbia un contenuto meno ipocrita che nel passato e sia proposta come soluzione razionale. Anche la parola «nuovo» ha un’altra dimensione. Sia il «new deal» di Roosevelt (1933) che la «new frontier» di Kennedy (1960) riguardavano solo gli Stati Uniti. Il «new beginning» di Obama supera tutti i confini e coinvolge ogni popolo della terra. Proponiamo i passi principali del discorso del 4 giugno 2009 con un breve commento. Non siamo i soli a pensare che sia un documento storico.

L’iniziativa di Obama

Un vecchio adagio ammonisce: «La parola è d’argento, ma il silenzio è d’oro». Come spesso accade, le massime contenute nei proverbi hanno ragioni basate sul buon senso che è difficile contestare, ma è altrettanto vero che quasi tutti hanno uno o più corrispondenti che affermano l’esatto contrario, in questo caso basti ricordare: «in bocca chiusa non entran mosche» o altri simili. La realtà è complessa, se non contraddittoria, per cui non deve sorprenderci il fatto che convivano spesso ragioni opposte in base alle quali potremmo concludere che è bene comportarsi in un certo modo, ma che anche comportarsi diversamente può essere saggio.
Ovviamente tutto dipende dalle circostanze. Testo e contesto vanno sempre tenuti in considerazione insieme.
Valutare il discorso tenuto dal presidente Obama al Cairo senza tener conto delle circostanze potrebbe restare un vano esercizio accademico, poco importa se legato a mere considerazioni stilistiche (del resto mutevoli anche a seconda dei gusti e delle sensibilità personali) o a principi generali e astratti (ammesso che ve ne possano essere) su ciò che un capo di stato dovrebbe o non dovrebbe dire.
È del tutto evidente che gli ultimi anni hanno assistito a un grave deterioramento nelle relazioni tra mondo arabo-islamico e Stati Uniti e che la percezione diffusa in ciascuna delle due aree rispetto all’altra si sia compromessa progressivamente.
La decisione di prendere l’iniziativa dimostra da parte di Obama la volontà di non subire passivamente le conseguenze di tale involuzione, ma di provare almeno ad invertire la tendenza. Che ciò sia possibile solo con un discorso è chiaramente illusorio, ma lo stesso presidente ha espresso più volte la consapevolezza di ciò nelle parole che ha pronunciato.

Il complesso rapporto secolare tra islam e occidente e i problemi attuali

Prendendo la parola nella sede della prima università non religiosa dell’Egitto moderno, non ha tuttavia evitato di menzionare la più che millenaria al-Azhar, alludendo a un glorioso passato e auspicando l’equilibrio fra tradizione e modernità, senza dir nulla dei gravi problemi che impediscono all’una e all’altra di essere vere istituzioni scientifiche e indipendenti. Sarebbe stato scortese ed è comprensibile che sia andata così.
Non per questo gli si può rimproverare di aver eluso questioni delicate e complesse. Anzi è subito entrato in argomento: «Ci incontriamo qui in un periodo di forte tensione tra gli Stati Uniti e i musulmani in tutto il mondo, tensione che ha le sue radici nelle forze storiche che prescindono da qualsiasi corrente dibattito politico. Il rapporto tra islam e occidente ha alle spalle secoli di coesistenza e cooperazione, ma anche di guerre di religione e di conflitti». L’allusione ai secoli più lontani è stata seguita da considerazioni di ben più recente interesse: «In tempi più recenti, questa tensione è stata alimentata dal colonialismo, che ha negato diritti e opportunità a molti musulmani, e da una guerra fredda nella quale i paesi a maggioranza musulmana troppo spesso sono stati trattati come paesi che agivano per procura, senza tener conto delle loro legittime aspirazioni. Oltretutto, i cambiamenti radicali prodotti dal processo di modernizzazione e dalla globalizzazione hanno indotto molti musulmani a considerare l’occidente ostile nei confronti delle tradizioni dell’islam. Violenti estremisti hanno saputo sfruttare queste tensioni in una minoranza, esigua ma forte, di musulmani. Gli attentati del 11 settembre 2001 e gli sforzi continui di questi estremisti volti a perpetrare atti di violenza contro civili inermi ha di conseguenza indotto alcune persone nel mio paese a considerare l’islam come inevitabilmente ostile non soltanto nei confronti dell’ America e dei paesi occidentali in genere, ma anche dei diritti umani. Tutto ciò ha comportato maggiori paure, maggiori diffidenze».

La proposta di un nuovo inizio

Un’analisi forse troppo breve, ma propedeutica al cuore della proposta: «Adesso occorre porre fine a questo circolo vizioso di sospetti e discordia. Io sono qui oggi per cercare di dare il via a un nuovo inizio tra Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo; l’ inizio di un rapporto che si basi sull’ interesse reciproco e sul mutuo rispetto; un rapporto che si basi su una verità precisa, ovvero che America e islam non si escludono a vicenda, non devono necessariamente essere in competizione tra loro. Al contrario, America e islam si sovrappongono, condividono medesimi principi e ideali, il senso di giustizia e di progresso, la tolleranza e la dignità dell’ uomo». La consapevolezza che molto altro ci sarebbe da dire da entrambi i lati è stata tuttavia espressa e si attendono occasioni e modalità adeguate perché ciò possa accadere: «Sono però convinto che per poter andare avanti dobbiamo dire apertamente ciò che abbiamo nel cuore, e che troppo spesso viene detto soltanto a porte chiuse. Dobbiamo promuovere uno sforzo sostenuto nel tempo per ascoltarci, per imparare l’uno dall’altro, per rispettarci, per cercare un terreno comune di intesa».

Abbattere le diffidenze reciproche e la violenza estremista

Il ricordo delle sue origini e della gioventù trascorsa positivamente in un paese islamico ha fatto da supporto agli intenti espressi, così come parlando del grado di integrazione raggiunto dai musulmani negli Usa ha potuto offrire un esempio concreto di possibile convivenza basata sul rispetto reciproco. Queste premesse consentiranno di affrontare meglio anche un necessario e arduo lavoro finalizzato ad abbattere la mutua diffidenza: «Ritengo che rientri negli obblighi e nelle mie responsabilità di presidente degli Stati uniti lottare contro qualsiasi stereotipo negativo dell’islam, ovunque esso possa affiorare. Ma questo medesimo principio deve applicarsi alla percezione dell’ America da parte dei musulmani».
L’agenda politica internazionale e grandi questioni relative al rispetto della dignità umana non potevano rimanere solo sullo sfondo, pertanto è significativo ripercorrere i pochi ma salienti punti che sono stati affrontati nello specifico dopo queste premesse.
«Il primo problema che dobbiamo affrontare insieme è la violenza estremista in tutte le sue forme». Su questo non c’è stata alcuna incertezza e Obama ha fatto interamente sua la scelta dell’intervento in Afghanistan, a suo dire inevitabile: «Non andammo per scelta, ma per necessità», ma ha anche affermato: «Sappiamo anche che la sola potenza militare non risolverà i problemi in Afghanistan e in Pakistan», unendo significativamente le situazioni dei due paesi, senza però alcun riferimento critico alle strategie finora seguite e dimostratesi innegabilmente finora non solo poco efficaci, ma addirittura talvolta controproducenti. Quando si è a corto di alternative valide nel breve periodo non conviene rimettersi troppo in discussione per non trovarsi nell’impasse.

Il problema dell’Iraq

Molto chiara è invece stata la presa di distanza a proposito della campagna irachena: «A differenza di quella in Afghanistan, la guerra in Iraq è stata voluta, ed è una scelta che ha provocato molti forti dissidi nel mio paese e in tutto il mondo. Anche se sono convinto che in definitiva il popolo iracheno oggi viva molto meglio senza la tirannia di Saddam Hussein, credo anche che quanto accaduto in Iraq sia servito all’America per comprendere meglio l’uso delle risorse diplomatiche e l’utilità di un consenso internazionale per risolvere, ogniqualvolta ciò sia possibile, i nostri problemi».
Ne deriva l’orientamento di seguire preferenzialmente scelte largamente condivise sul piano internazionale, così come sul fronte interno si prospetta una politica della sicurezza che non contrasti con inderogabili garanzie giuridiche per tutti: «…proprio come l’America non può tollerare in alcun modo la violenza perpetrata dagli estremisti, essa non può in alcun modo abiurare ai propri principi. L’11 settembre è stato un trauma immenso per il nostro paese. La paura e la rabbia che quegli attentati hanno scatenato sono state comprensibili, ma in alcuni casi ci hanno spinto ad agire in modo contrario ai nostri stessi ideali. Ci stiamo adoperando concretamente per cambiare linea d’azione. Ho personalmente proibito in modo inequivocabile il ricorso alla tortura da parte degli Stati uniti, e ho dato l’ordine che il carcere di Guantanamo Bay sia chiuso entro i primi mesi dell’ anno venturo».

Il problema arabo-israeliano:  la sofferenza dei palestinesi

Non poteva mancare la questione arabo-israeliana, a proposito della quale i legami tra gli Usa ed Israele, il cui diritto ad esistere è fuori discussione, sono stati ribaditi con nettezza: «Sono ben noti i solidi rapporti che legano Israele e Stati Uniti. Si tratta di un vincolo infrangibile, che ha radici in legami culturali che risalgono indietro nel tempo, nel riconoscimento che l’aspirazione a una patria ebraica è legittimo e ha anch’esso radici in una storia tragica, innegabile». Ciò non ha tuttavia trattenuto Obama dal riconoscere altrettanto esplicitamente le sofferenze patite da parte palestinese: «D’altra parte è innegabile che il popolo palestinese — formato da cristiani e musulmani — ha sofferto anch’esso nel tentativo di avere una propria patria. Da oltre 60 anni affronta tutto ciò che di doloroso è connesso all’essere profughi».
Ciò che ha sorpreso è stata la descrizione dettagliata della loro condizione: «Molti vivono nell’ attesa, nei campi profughi della Cisgiordania, di Gaza, dei paesi vicini, aspettando una vita fatta di pace e sicurezza che non hanno mai potuto assaporare finora. Giorno dopo giorno i palestinesi affrontano umiliazioni piccole e grandi che sempre si accompagnano all’occupazione di un territorio». Con una conclusione impegnativa: «Sia dunque chiara una cosa: la situazione per il popolo palestinese è insostenibile. L’America non volterà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese alla dignità, alle pari opportunità, a uno Stato proprio».

Due Stati sono l’unica soluzione, la violenza deve finire

E infine un forte richiamo a seguire altre vie rispetto a quelle finora rovinosamente percorse: «Da decenni tutto è fermo, in uno stallo senza soluzione: due popoli con legittime aspirazioni, ciascuno con una storia dolorosa alle spalle che rende il compromesso quanto mai difficile da raggiungere. È facile puntare il dito: è facile per i palestinesi addossare alla fondazione di Israele la colpa del loro essere profughi. È facile per gli israeliani addossare la colpa alla costante ostilità e agli attentati che hanno costellato tutta la loro storia all’interno dei confini e oltre. Ma se noi insisteremo a voler considerare questo conflitto da una parte piuttosto che dall’altra, rimarremo ciechi e non riusciremo a vedere la verità: l’unica soluzione possibile per le aspirazioni di entrambe le parti è quella dei due Stati, dove israeliani e palestinesi possano vivere in pace e in sicurezza. Questa soluzione è nell’interesse di Israele, nell’interesse della Palestina, nell’interesse dell’America e nell’interesse del mondo intero. È a ciò che io alludo espressamente quando dico di voler perseguire personalmente questo risultato con tutta la pazienza e l’impegno che questo importante obiettivo richiede. Gli obblighi per le parti che hanno sottoscritto la road map sono chiari e inequivocabili. Per arrivare alla pace, è necessario ed è ora che loro — e noi tutti con loro — facciamo finalmente fronte alle rispettive responsabilità. I palestinesi devono abbandonare la violenza. Resistere con la violenza e le stragi è sbagliato e non porta ad alcun risultato. Per secoli i neri in America hanno subito i colpi di frusta, quando erano schiavi, e hanno patito l’umiliazione della segregazione. Ma non è stata certo la violenza a far loro ottenere pieni ed eguali diritti come il resto della popolazione: è stata la pacifica e determinata insistenza sugli ideali al cuore della fondazione dell’America. La stessa cosa vale per altri popoli, dal Sudafrica all’Asia meridionale, dall’Europa dell’Est all’Indonesia. Questa storia ha un’unica semplice verità di fondo: la violenza è una strada senza vie di uscita. Tirare razzi a bambini addormentati o far saltare in aria anziane donne a bordo di un autobus non è segno di coraggio né di forza. Non è in questo modo che si afferma l’autorità morale: questo è il modo col quale l’autorità morale al contrario cede e capitola definitivamente. È giunto il momento per i palestinesi di concentrarsi su quello che possono costruire. L’Autorità palestinese deve sviluppare la capacità di governare, con istituzioni che siano effettivamente al servizio delle necessità della sua gente. Hamas gode di sostegno tra alcuni palestinesi, ma ha anche delle responsabilità. Per rivestire un ruolo determinante nelle aspirazioni dei palestinesi, per unire il popolo palestinese, Hamas deve porre fine alla violenza, deve riconoscere gli accordi intercorsi, deve riconoscere il diritto di Israele a esistere. Allo stesso tempo, gli israeliani devono riconoscere che proprio come il diritto a esistere di Israele non può essere in alcun modo messo in discussione, così è per la Palestina. Gli Stati Uniti non ammettono la legittimità dei continui insediamenti israeliani, che violano i precedenti accordi e minano gli sforzi volti a perseguire la pace. È ora che questi insediamenti si fermino. Israele deve dimostrare di mantenere le proprie promesse e assicurare che i palestinesi possano effettivamente vivere, lavorare, sviluppare la loro società. Proprio come devasta le famiglie palestinesi, l’incessante crisi umanitaria a Gaza non è di giovamento alcuno alla sicurezza di Israele. Né è di giovamento per alcuno la costante mancanza di opportunità di qualsiasi genere in Cisgiordania. Il progresso nella vita quotidiana del popolo palestinese deve essere parte integrante della strada verso la pace e Israele deve intraprendere i passi necessari a rendere possibile questo progresso. Infine, gli Stati arabi devono riconoscere che l’Arab peace initiative è stato sì un inizio importante, ma che non pone fine alle loro responsabilità individuali. Il conflitto israelo — palestinese non dovrebbe più essere sfruttato per distogliere l’attenzione dei popoli delle nazioni arabe da altri problemi. Esso, al contrario, deve essere di incitamento ad agire per aiutare il popolo palestinese a sviluppare le istituzioni che costituiranno il sostegno e la premessa del loro Stato; per riconoscere la legittimità di Israele; per scegliere il progresso invece che l’incessante e autodistruttiva attenzione per il passato.

L’impegno degli Stati Uniti

L’America allineerà le proprie politiche mettendole in sintonia con coloro che vogliono la pace e per essa si adoperano, e dirà ufficialmente ciò che dirà in privato agli israeliani, ai palestinesi e agli arabi. Noi non possiamo imporre la pace. In forma riservata, tuttavia, molti musulmani riconoscono che Israele non potrà scomparire. Allo stesso modo, molti israeliani ammettono che uno Stato palestinese è necessario. È dunque giunto il momento di agire in direzione di ciò che tutti sanno essere vero e inconfutabile. Troppe sono le lacrime versate; troppo è il sangue sparso inutilmente. Noi tutti condividiamo la responsabilità di dover lavorare per il giorno in cui le madri israeliane e palestinesi potranno vedere i loro figli crescere insieme senza paura; in cui la Terra santa delle tre grandi religioni diverrà quel luogo di pace che Dio voleva che fosse; in cui Gerusalemme sarà la casa sicura ed eterna di ebrei, cristiani e musulmani insieme, la città di pace nella quale tutti i figli di Abramo vivranno insieme in modo pacifico come nella storia di Isra, allorché Mosé, Gesù e Maometto (la pace sia con loro) si unirono in preghiera».
Necessariamente articolato, il lungo passo dedicato alla questione arabo-israeliana è forse stato uno dei più significativi, non solo per l’impatto emotivo che ha avuto sui diretti interessati, nell’area e nel mondo intero. Sarà tuttavia anche quello che incontrerà i maggiori ostacoli nel realizzarsi, data la polarizzazione su posizioni intransigenti a cui si è assistito da entrambi i lati negli ultimi tempi. Forse nessun altro presidente degli Usa si era spinto così in là in un discorso ufficiale, ma paradossalmente ciò è avvenuto in un momento in cui le condizioni perché le sue parole abbiano effetti reali e nel breve periodo sembrano piuttosto remote.

I rapporti con l’Iran e i fondamenti della democrazia

Molto più rapido è invece stato l’accenno al dossier iraniano, ma non per questo meno significativo: una sostanziale apertura di credito che sarà uno dei più delicati banchi di prova su cui presto il neo presidente vedrà giocarsi la propria credibilità. Quasi in forma profetica, visto ciò che sta accadendo dopo le recenti elezioni in Iran inficiate da gravi irregolarità e seguite da vaste proteste popolari, il passo del discorso di Obama dedicato all’Iran è stato seguito da alcune importanti considerazioni relative alla democrazia nelle quali il disegno neocon di esportarla con la forza nell’area è stato esplicitamente ripudiato, ma non meno fermamente si è ripetuto che la legittimità di qualsiasi forma di governo non può che basarsi sul libero consenso della base.
Alla libertà politica va inoltre abbinata indissolubilmente la libertà di coscienza in base alla quale ciascuno abbia il diritto di aderire alla religione in cui crede senza costrizioni né condizionamenti. Anche su questo il presidente americano si è espresso con fermezza e senza tentennamenti.
Significativamente è poi passato a perorare i diritti delle donne, come sfida che ancora interessa il mondo intero ma in particolare i paesi islamici.
Anche sulle questioni relative allo sviluppo economico, ha voluto soffermasi sulle attese delle giovani generazioni e sulla necessità di investire nella formazione.

Le conclusioni

Avviandosi alla conclusione, egli stesso ha riassunto i punti principali del suo discorso: «I problemi che vi ho illustrato non sono facilmente risolvibili, ma abbiamo tutti la responsabilità di unirci per il bene e il futuro del mondo che vogliamo, un mondo nel quale gli estremisti non possano più minacciare i nostri popoli e nel quale i soldati americani possano tornare alle loro case; un mondo nel quale gli israeliani e i palestinesi siano sicuri nei loro rispettivi Stati e l’energia nucleare sia utilizzata soltanto a fini pacifici; un mondo nel quale i governi siano al servizio dei loro cittadini e i diritti di tutti i figli di Dio siano rispettati. Questi sono interessi reciproci e condivisi. Questo è il mondo che vogliamo. Ma potremo arrivarci soltanto insieme. So che molte persone — musulmane e non musulmane — mettono in dubbio la possibilità di dar vita a questo nuovo inizio. Alcuni sono impazienti di alimentare la fiamma delle divisioni, e di intralciare in ogni modo il progresso. Alcuni lasciano intendere che il gioco non valga la candela, che siamo predestinati a non andare d’accordo, e che le civiltà siano avviate a scontrarsi. Molti altri sono semplicemente scettici e dubitano fortemente che un cambiamento possa esserci. E poi ci sono la paura e la diffidenza. Se sceglieremo di rimanere ancorati al passato, non faremo mai passi avanti. E vorrei dirlo con particolare chiarezza ai giovani di ogni fede e di ogni paese: Voi, più di chiunque altro, avete la possibilità di cambiare questo mondo».
Così come ha esplicitato la filosofia a cui si è ispirato: « Tutti noi condividiamo questo pianeta per un brevissimo istante nel tempo. La domanda che dobbiamo porci è se intendiamo trascorrere questo brevissimo momento a concentrarci su ciò che ci divide o se vogliamo impegnarci insieme per uno sforzo — un lungo e impegnativo sforzo — per trovare un comune terreno di intesa, per puntare tutti insieme sul futuro che vogliamo dare ai nostri figli, e per rispettare la dignità di tutti gli esseri umani. È più facile dare inizio a una guerra che porle fine. È più facile accusare gli altri invece che guardarsi dentro. È più facile tener conto delle differenze di ciascuno di noi che delle cose che abbiamo in comune. Ma nostro dovere è scegliere il cammino giusto, non quello più facile. C’è un unico vero comandamento al fondo di ogni religione: fare agli altri quello che si vorrebbe che gli altri facessero a noi. Questa verità trascende nazioni e popoli, è un principio, un valore non certo nuovo. Non è nero, non è bianco, non è marrone. Non è cristiano, musulmano, ebreo. È un principio che si è andato affermando nella culla della civiltà, e che tuttora pulsa nel cuore di miliardi di persone. È la fiducia nel prossimo, è la fiducia negli altri, ed è ciò che mi ha condotto qui oggi».
Gli Stati Uniti hanno dato un esempio di straordinaria dinamicità con l’elezione di Obama alla presidenza. Alcuni dicono che non ci si può attendere troppo da un uomo solo, e certamente la forza d’inerzia farà ancora parte del gioco, come in ogni vicenda umana, soprattutto se istituzionale. Ma che almeno qualcosa dello spirito nuovo che ha animato questo suo discorso al mondo islamico possa concretizzarsi resta uno dei rari eventi a cui legare le nostre speranze, in un periodo tanto avaro di promesse e così efficace nel prosciugare ogni forma di impegno e ottimismo che non sia quello del proprio particulare, tanto umanamente ristretto quanto eticamente misero.