Appunti 2_2009

La riforma della contrattazione e le sfide per il sindacato

› Giorgio Santini


Dopo dieci anni di discussioni e di rinvii, nello scorso mese di gennaio è stato stipulato l’accordo-quadro per la riforma del modello contrattuale. Malgrado l’introduzione di alcune importanti innovazioni, a prima vista positive, la Cgil si è rifiutata di firmarlo. «Appunti» si riserva di approfondire le motivazioni di questo rifiuto e – con questo contributo di un dirigente Cisl – dà spazio alle ragioni di chi, invece, ha apprezzato questo accordo e lo ha sottoscritto
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Come rilevato da tutti gli attori internazionali nell’ultimo trimestre del 2008 si sono registrati crolli sconcertanti del Pil mentre dati ancor più preoccupanti sono stati forniti dall’Ocse. Su base annua il Pil si è ridotto del 6%, nell’insieme delle economie del G7, dell’Unione Europea e dell’ Ocse, con effetti molto gravi anche sui paesi a basso reddito nei quali dieci anni di progressi nella riduzione della povertà sono stati annullati nell’arco di pochi mesi.
La crisi ha dunque colpito profondamente i mercati del lavoro di tutto il mondo, tanto da spingere i lavoratori in ogni parte del globo a lanciare un preciso messaggio politico a governi e parlamenti: «Put people and workers first».
È un tema che dovrà continuare ad essere prioritario anche in previsione dei prossimi importanti incontri internazionali: in particolare il G8 del prossimo luglio alla Maddalena, evento nel quale, è stato preannunciato, verranno coinvolti i rappresentanti internazionali delle parti sociali e che assume importanza anche in seguito al pessimo messaggio che è stato lanciato dalla presidenza ceca dell’Unione Europea che ha deciso di declassare il summit europeo di Praga sull’occupazione.
Il sindacato italiano, è inutile negarlo, arriva a questo impegnativo appuntamento in una situazione piuttosto delicata in cui si è persa la necessaria unità di azione per far fronte alle difficili sfide del momento.
La principale ragione di questa divisione è legata al fatto che, dopo oltre dieci anni di tentativi, il 22 gennaio 2009, si è giunti alla firma dell’accordo quadro sulla contrattazione. A mio parere si è finalmente segnato un punto importante di rinnovamento delle relazioni industriali italiane in senso partecipativo, nel segno di un’assunzione di responsabilità delle parti sociali in uno dei momenti più critici del contesto economico degli ultimi decenni.
Gli obiettivi principali su cui si basa l’accordo quadro sono innovazioni di sistema e rappresentano l’approdo di un lungo negoziato: si pensi al  mantenimento e al rafforzamento della struttura della contrattazione collettiva su due livelli, alla razionalizzazione delle modalità di rinnovo, all’unificazione delle regole nel settore pubblico e privato, agli strumenti individuati per un’equa distribuzione della ricchezza prodotta dall’impresa attraverso gli incentivi allo sviluppo e alla redistribuzione della produttività.
Nel dibattito in corso sull’accordo sono state purtroppo abbastanza trascurate le motivazioni che lo hanno reso necessario. Taluni sostengono che, vista la gravità della crisi economica ed occupazionale,  la riforma della contrattazione non fosse  una priorità.

L’urgenza di una riforma   del modello contrattuale

La realtà è molto diversa. La contrattazione collettiva in Italia era in sofferenza da molti anni, da quando cioè l’accordo del 1993 aveva esaurito la sua funzione. Si ricorderà che la sua durata era di 5 anni e che già nel 1997  la Commissione governativa presieduta dal senatore Giugni aveva individuato la necessità di cambiamenti significativi, raccomandando a tutte le parti in particolare il decentramento della contrattazione. Non se ne fece nulla. Anno dopo anno le criticità diventavano sempre più forti e  riguardavano la progressiva perdita di credibilità della inflazione programmata, lo slittamento dei tempi di rinnovo dei contratti, la mancata diffusione della contrattazione di secondo livello. Si è così determinata una perdita progressiva di salari e stipendi nella ripartizione del reddito, anche a causa della politica fiscale che ha danneggiato, nello stesso periodo,  il lavoro dipendente ed i pensionati. La riforma degli assetti contrattuali in questi anni ha quindi rappresentato una sorta di meta irraggiungibile, oggetto di discussioni infinite e di sterili contrapposizioni, se si eccettua la positiva innovazione  del modello contrattuale nell’artigianato nel 2004 e nel 2006.
Quando, circa un anno fa, Cgil-Cisl-Uil hanno elaborato una piattaforma condivisa per la riforma della contrattazione si sono create le condizioni per recuperare almeno 10 anni di ritardo. Si è poi aperto un lungo e articolato percorso negoziale con tutte le parti datoriali, che ha visto impegnate le tre confederazioni sindacali insieme e ha portato alla definizione di sette pre-intese di comparto e, dopo più di sette mesi, all’accordo-quadro, firmato da tutte le associazioni datoriali,  dal Governo e dalle Organizzazioni sindacali, ad eccezione  della Cgil.
Se si considera l’intero iter negoziale  non ha fondamento parlare di «accordo separato» o, peggio, come scritto da alcuni commentatori, di «accordo imposto dal Governo per dividere il sindacato». Il Governo è stato chiamato in causa come datore di lavoro dei dipendenti pubblici solo nell’ultima fase  e non ha svolto nessun ruolo di rottura, bensì ha accettato di estendere anche ai dipendenti pubblici le nuove regole definite per il settore privato.
I contenuti dell’accordo-quadro peraltro sono molto coerenti con la piattaforma unitaria di Cgil-Cisl-Uil e confermano la peculiarità della struttura della contrattazione collettiva italiana su due livelli, con un Contratto nazionale, ora di durata triennale sia per la parte economica che per quella normativa. Sono, tuttavia, definiti in modo più netto rispetto al passato i compiti di ciascun livello di contrattazione, in particolare per quanto riguarda la parte economica, con il Ccnl che avrà il compito di tutelare la retribuzione contrattuale dall’inflazione e il secondo livello che dovrà definire la quota di incremento salariale collegato alla produttività, intesa in senso ampio. Per calcolare il tasso di inflazione in occasione del rinnovo dei Ccnl verrà adottato un nuovo indicatore  previsionale triennale, depurato dall’energia importata (Ipca), definito da un soggetto terzo individuato dalle parti.
Non hanno molto senso le polemiche sulla validità di questo indicatore, dal momento che secondo tutti i calcoli fatti, esso appare in grado di tutelare i salari contrattuali dall’inflazione molto meglio di quanto non abbia fatto in questi anni il tasso di inflazione programmata.
Se si considera, inoltre, che  il recupero in caso di scostamento  dell’inflazione effettiva rispetto a quella prevista sarà effettuato entro la vigenza del triennio contrattuale, che le trattative per i rinnovi dovranno iniziare alcuni mesi prima  rispetto ai tre attuali, che la copertura economica dei nuovi contratti partirà dalla scadenza dei precedenti, si  comprende che con questa intesa i contratti nazionali saranno più certi nei tempi e migliori nei risultati rispetto ad oggi. Inoltre non vi è alcuna riduzione della copertura economica dei Ccnl poiché l’intesa afferma che i futuri aumenti verranno calcolati su un valore retributivo medio e  rinvia poi alle specifiche intese di comparto l’attuazione, che non potrà in nessun caso peggiorare le condizioni di quei contratti che già prevedono una base di calcolo.
Ma la vera novità dell’accordo riguarda la piena legittimazione del secondo livello di contrattazione  aziendale o territoriale e la sua natura fortemente partecipativa, in quanto favorisce la negoziazione di incrementi salariali collegati alla produttività e ad altri fattori relativi al buon andamento ed ai risultati delle aziende.
Certamente non si tratta, come definito da altri commentatori di un insieme di «scatole vuote». Si definiscono, infatti, obiettivi condivisi tra lavoratori e datori di lavoro, puntando in questo modo a migliorare sia le retribuzioni che la capacità competitiva delle imprese. Per favorire la diffusione della contrattazione di secondo livello sono previste forti incentivazioni contributive e fiscali che permetteranno anche un incremento del valore delle retribuzioni. Per garantire maggiore potere d’acquisto ai lavoratori e una tenuta delle imprese, in particolare in questo momento di crisi, occorre infatti agganciare maggiormente i salari alla produttività.
All’obiezione di quanti sostengono che la scarsa diffusione della contrattazione di secondo livello  penalizzerà i lavoratori delle piccole aziende, si deve ricordare che l’accordo prevede un nuovo elemento retribuivo di garanzia proprio a tutela delle fasce di lavoratori contrattualmente più deboli. Certamente definire un nuovo quadro di regole è un punto di partenza, non di arrivo.
La sfida passa alla capacità delle rappresentanze sindacali e datoriali di dare attuazione a questa dimensione aziendale o territoriale, superando una storica ritrosia ad entrare pienamente  nella dimensione del confronto nel territorio. Più che modifiche al sistema di contrattazione serve la capacità di generare buone pratiche negli accordi contrattuali di secondo livello, in stretto collegamento con le caratteristiche dei settori produttivi e dei territori.
Dopo anni nei quali la contrattazione ha attraversato una sorta di lunga eclissi, è tempo di liberarne le potenzialità, ponendosi obiettivi di estensione alle aziende e ai settori non coperti e di qualità sempre più avanzata nei contenuti, anche reinterpretando in modo originale temi finora poco sviluppati come ad esempio la formazione continua dei lavoratori, la prevenzione e la sicurezza sul lavoro, il welfare integrativo, accanto al tema obbligato del salario collegato a parametri di produttività, qualità, risultati delle imprese.

L’importanza di un modello avanzato di flexsecurity

Ma la crisi ha evidenziato anche che il nostro mercato del lavoro non può attendere ancora per molto una seria e organica riforma degli ammortizzatori sociali.
Quattro legislature trascorse invano non ci possono far dimenticare che il nostro mercato del lavoro espone molti lavoratori, in particolare giovani, a prospettive occupazionali assai incerte, spesso indipendentemente dai loro talenti. È urgente superare il dualismo tra lavoratori più e meno tutelati.
Quando prendiamo spunto dai modelli di flexsecurity nordeuropei non possiamo farlo con leggerezza e dobbiamo essere consapevoli delle specificità del nostro mercato del lavoro.
L’obiettivo esplicito delle politiche del lavoro nella realtà italiana, anche in un contesto di crisi, deve essere primariamente quello di favorire un aumento del tasso di occupazione generale. Per raggiungere tale risultato è necessario aumentare i tassi di occupazione proprio delle cosiddette “fasce deboli” delle regioni del Sud, delle donne, dei giovani e dei lavoratori anziani.
In questo modo sarà possibile sconfiggere “i mali endemici” del mercato del lavoro italiano che, ancora oggi, condizionano negativamente la vita delle persone, in particolare:
–  il basso tasso di inclusione, soprattutto a scapito delle donne;
–  la temporaneità e la discontinuità dei rapporti di lavoro che, pur  essendo al di sotto dei livelli medi europei, rischiano di generare per quote di giovani una instabilità permanente e di rendere sempre più marginali i soggetti deboli del mercato del lavoro;
–  i forti squilibri territoriali;
–  la diffusa presenza del lavoro sommerso ed irregolare.
È necessario promuovere politiche volte non solo ad aumentare quantitativamente i tassi delle persone al lavoro, ma una «buona occupazione» tendenzialmente più stabile, e semplificare l’eccessiva proliferazione di contratti flessibili. La via maestra è appunto abbinare flessibilità e tutele nell’ottica della flexsecurity nordeuropea, costruendo giorno dopo giorno quello “Statuto materiale dei Lavori”, volto a tutelare il lavoro flessibile e a responsabilizzare pienamente aziende e lavoratori nella gestione dei rapporti di lavoro. In questo contesto sarà inoltre necessario parificare, con lungimiranza, le aliquote contributive delle diverse tipologie lavorative.
È necessario inoltre introdurre sostegni al reddito a tutela delle transizioni lavorative e favorire più rapide ricollocazioni, utilizzando fino in fondo gli strumenti della bilateralità anche nell’integrare ed estendere il sistema pubblico dell’assicurazione contro la disoccupazione.
Nelle situazioni di crisi e incertezza le imprese tendono a ridurre il personale, iniziando dai contratti temporanei;  quando progressivamente si dovesse uscire dalla crisi esse avranno maggiori difficoltà a impegnarsi in assunzioni a tempo indeterminato con le tradizionali garanzie di stabilità. È concreto il rischio che, quando riprenderanno le assunzioni, risulti prevalente, ancor più dei livelli attuali, il lavoro temporaneo, riproponendo situazioni di incertezza e difficoltà.
Un possibile percorso per dare concretezza alla riforma del sistema italiano consiste quindi nel completare l’estensione degli ammortizzatori sociali, sia pure «in deroga», a tutti i lavoratori dei settori e delle tipologie contrattuali oggi esclusi. Si potrebbe affrontare, successivamente, l’introduzione progressiva e graduale di una ridefinizione e semplificazione degli strumenti contrattuali volti a superare il dualismo, a scapito dei lavoratori flessibili, nel nostro mercato del lavoro.
Una riforma degli ammortizzatori sociali e del nostro mercato del lavoro che partisse da queste modalità ben si collega all’accordo-quadro sulla contrattazione collettiva poiché, attraverso lo strumento contrattato della bilateralità, si valorizzerebbe, peraltro in un momento di grave crisi economica, il reciproco riconoscimento del ruolo delle associazioni datoriali e delle organizzazioni sindacali.
Anche in questo caso, mentre è reale la necessità di sviluppare meccanismi che permettano garanzie di uniformità di trattamento per i lavoratori nei vari settori, non si comprende l’obiezione ideologica per cui questa strada, già praticata con successo in maniera simile in molti paesi europei, porti addirittura ad una sorta di corporativismo e alla perdita della funzione autonoma del sindacato stesso.
Non si tratta infatti di annullare il conflitto, che è fisiologicamente presente nelle nostre società, ma di valorizzare partecipazione, contrattazione, mutualismo. Chiaramente, la mancata firma della Cgil, espone tutto il sistema a rischi e difficoltà che non possono essere negate e rende inoltre urgente una definizione unitaria delle regole di rappresentanza e rappresentatività sindacale.
Non possiamo che augurarci che sia possibile giungere ad un riposizionamento della Cgil e che, attraverso un accordo sulla rappresentanza, essa possa arrivare ad una condivisione dell’intero accordo-quadro sulla contrattazione, che sta entrando nel vivo con i primi contratti nazionali che saranno rinnovati già nei prossimi mesi.
È possibile citare una vecchia intervista a Bruno Trentin in cui raccontava, nei delicati momenti che precedettero l’accordo del 31 luglio 1992, la teorizzazione della componente di «Essere sindacato» non solo della necessità di interrompere ogni trattativa, ma dell’impossibilità per la Cgil di impegnarsi, in una situazione economica sfavorevole, in qualsiasi tipo di negoziato. Trentin che, pur con grande fatica seppe opporsi a quella deriva, sottolineava: «Non esiste un sindacato che si limita alla protesta e che, per paura di essere condizionato dalle posizioni della controparte, esclude la contrattazione collettiva dal novero delle sue prerogative e dei suoi doveri. Non esiste in nessun paese del mondo».
Perché la Cgil possa uscire dal proprio isolamento e si ritrovi un percorso di unità di azione sindacale non bastano pertanto le discussioni e gli appelli all’unità, ma è necessario che il percorso innovativo vada avanti e possa dispiegare i suoi effetti positivi nel miglioramento delle relazioni contrattuali tra le parti, sia per quel che riguarda l’applicazione dell’accordo quadro sulla contrattazione collettiva, sia per una ridefinizione del nostro sistema di ammortizzatori sociali collegata all’introduzione di meccanismi contrattuali che permettano di superare il dualismo del nostro mercato del lavoro senza scardinare il sistema generale delle tutele del lavoro.
Il sindacato, in particolare, nei momenti di maggiore crisi come questo, deve contribuire non solo alla proteste, ma farsi soggetto propositivo e promotore di meccanismi di uguaglianza.
Per fare ciò deve anche avere il coraggio delle scelte e la consapevolezza dei percorsi che intende intraprendere.
Come è scritto in uno dei più magistrali libri di strategia mai pubblicati Alice nel paese delle meraviglie, quando Alice pone la domanda al Gatto: «Vorresti dirmi di grazia quale strada prendere per uscire di qui?» giustamente si sente rispondere «Dipende da dove vuoi andare».
Vale lo stesso assunto per il sindacato e per la necessaria strada da ritrovare per una più effettiva rappresentanza e per contribuire ad aiutare i lavoratori ed il sistema economico a imboccare l’uscita dalla crisi globale.