Appunti 2_2009

Il volto della Chiesa è l’amore

› Fulvio De Giorgi

La vicenda della scomunica di una bambina brasiliana di nove anni, in seguito all’aborto procuratole dai medici dopo lo stupro subito dal patrigno pedofilo, ha riacceso il dibattito sull’approccio della Chiesa cattolica ai temi cosiddetti etici, sulla dialettica «difesa della vita-tutela dei diritti», sull’indebolimento della «opción por los pobres» che segnò le vicende del cattolicesimo postconciliare in America latina e sui rischi relativi alla comparsa di nuovi integrismi.

Una Chiesa muscolare

Quale volto della Chiesa il vescovo di Olinda e Recife — cioè il successore di Hélder Câmara — mons. José Cardoso Sobrinho vuole far «brillare» nel mondo? La Chiesa di Helder Camara brillava come brilla una stella: era la Chiesa povera accanto ai poveri, con un volto misericordioso che sapeva soffrire con loro, ma anche con un volto sorridente che annunciava la bellezza della liberazione in Cristo. La Chiesa del suo successore «brilla» come brilla un esplosivo distruttivo. I suoi gesti eclatanti di giudizio e di condanna hanno fatto il giro del mondo.
Occorre esser chiari: il vescovo di Recife non ha, come dicono i giornali, «scomunicato» la mamma e i medici che, come consente la legge brasiliana, hanno fatto abortire una bambina di nove anni (e di trentatre chili), stuprata dal patrigno, e che rischiava di morire (almeno a detta dei medici: mentitori secondo il patrigno). La scomunica per l’aborto non la commina il vescovo: secondo il codice di Diritto canonico è una scomunica latae sententiae, che scatta automaticamente per chi procura l’aborto.
Ora, è certamente possibile che il cortocircuito tra un contesto socialmente degradato dalla miseria e una burocrazia di magistrati e di medici filo-abortista abbia pesantemente giocato in questa triste storia di sofferenza. Ma il punto è: quale stile pastorale occorre assumere? Quale volto di Chiesa trasmettere? Ci poteva essere uno stile di discrezione e di accompagnamento caritatevole delle vittime (la «bambina-madre» e i feti-gemelli abortiti), insieme ad un fermo rimprovero del violentatore pedofilo. Ci poteva essere un gesto penitenziale: battiamoci il petto tutti noi, come Chiesa, che forse non siamo stati abbastanza vicini a queste donne; che non abbiamo dato tutti i nostri averi ai poveri, prima di seguire Gesù.
Ma il vescovo José Cardoso Sobrinho ha scelto un’altra via: ha dato un grande risalto alla vicenda, parlando con i giornalisti e sottolineando la scomunica in cui erano incorsi medici e madre (non il patrigno stupratore, che — a quanto pare — non voleva l’aborto). José Cardoso Sobrinho ha mostrato i muscoli davanti al governo di Lula, davanti ai suoi fedeli diocesani che, c’è da pensare, rimpiangono Câmara, davanti alle comunità di base e ai teologi della liberazione, davanti a magistrati e medici laicisti e forse massoni. Certamente è in buona fede: certamente zela il trionfo della Verità e della Chiesa. Ma la Chiesa «muscolare» è la Chiesa del Crocifisso?

I rischi dell’integrismo e la sfida delle «periferie»

Al cardinal Re è stato chiesto un parere sulla scomunica. E il cardinale ha risposto in modo ineccepibile: per l’aborto la scomunica è automatica, cioè viene auto-inflitta. La domanda giusta da fare era però un’altra: è di questo genere di vescovi che la Chiesa ha bisogno per annunciare il Dio di misericordia? È questa la pastorale per riaccendere nei cuori secolarizzati la fiamma della fede? La parossistica fobia nei confronti della teologia della liberazione non ha condotto a estremismi integristi, con gravissimo danno per la trasmissione del volto materno della Chiesa?
Abbiamo bisogno di dieci, cento, mille Hélder Câmara che si prendano amorevolmente cura, prima di tutto, dei tanti José Cardoso Sobrinho che, certamente, sono in buona fede e che molto bene potrebbero fare.
Benedetto XV mise fine al parossismo anti-modernista degli integristi. Benedetto XVI metta fine all’ossessione anti-teologia della liberazione degli integristi di oggi. È questo che spero ed auspico con tutto il cuore. La Chiesa cattolica faccia attenzione ai criteri di selezione dell’episcopato. Se l’essenziale dell’annuncio della Chiesa di oggi è: Deus charitas est, il papa riprenda la parte positiva delle Istruzioni della Congregazione per la dottrina della fede che segnalavano gli errori della teologia della liberazione. Spero dunque che il papa ricordi, a tutti i pastori, che oggi c’è bisogno della forza del Vangelo di libertà e di liberazione.
Qualcuno ha osservato che l’attuale vescovo di Recife fa la voce grossa con la madre perché si  tratta di una donna povera, se fosse stata ricca e potente avrebbe taciuto. Spero di no. Tuttavia ecco che l’ambiguità e la confusione si insinua: davanti a casi relativi ad ambienti «alto-borghesi», il silenzio dei vescovi è per misericordiosa comprensione (quella che ci pareva opportuna a Recife) o per opportunistica pavidità? Si può fare, in questo senso, un esempio italiano. In un’intervista rilasciata a Maria Latella (apparsa nell’aprile 2005 su «Il Corriere della sera» e ripresa da Maurizio Chierici su «l’Unità» del 9 aprile 2009: in entrambi i casi senza successive smentite), Veronica Lario ha raccontato di aver rinunciato, negli anni Ottanta, al primo figlio: «Al quinto mese di gravidanza ho saputo che il bambino era malformato e per i due mesi successivi ho cercato di capire, con l’aiuto dei medici, cosa fosse giusto fare. Al settimo mese sono dolorosamente arrivata alla conclusione di dover abortire. Ferita che non si è rimarginata».
Voglio credere che i vescovi italiani non abbiamo ricordato — come ha fatto, con tanta ostentata sicurezza, monsignor José Cardoso Sobrinho in un caso di triste miseria — la scomunica latae sententiae, per un giusto sentimento di carità umana, per delicatezza verso una ferita non ancora rimarginata, per sensibilità pastorale: davanti a Dio, i coniugi Berlusconi non sono «più uguali» ma non sono neppure «meno uguali» degli altri. Fa bene la Chiesa italiana ad assumere un indirizzo di misericordia e non di condanna, verso tutti.

Un’eredità pastorale dimenticata?

Ma, nella Chiesa universale, ci possono essere — su questioni così delicate — due pesi pastorali e due misure? E laddove diversità debba esserci, laddove opzione preferenziale sia necessaria: questa parzialità non deve essere verso i poveri?
All’interno della Chiesa brasiliana, peraltro, ci sono state voci di aperta disapprovazione per l’operato di monsignor José Cardoso Sobrinho. In questo senso si è espresso Dimas Laras Barbosa, portavoce dell’episcopato del Brasile. Ma il caso brasiliano è diventato mondiale. Critico verso monsignor José Cardoso Sobrinho è stato il vescovo di Nanterre, monsignor Daucourt. Un altro commento critico è venuto da monsignor Norbert Turini, vescovo di Cahors: «Perché non aver mantenuto il silenzio davanti ad una tale angoscia? Perché aggiungere severità a tanta sofferenza? Molti si interrogano. Difendo e difenderò sempre la dignità e il rispetto della vita dalla sua origine al suo termine e credo che in tutte le circostanze l’atteggiamento della Chiesa trae la sua legittimità dall’atteggiamento di Cristo. L’amore e la misericordia parlano sempre più forte, nei vangeli, della condanna e dell’esclusione. Basta aprirli per convincersene! Quale sarà il futuro di quella donna, di quella bambina, in seguito a questa decisione? Chi le accompagnerà? Noi dobbiamo in coscienza e fedeli alla Buona Notizia interrogarci. Per il momento, vorrei poter dire loro che esse sono e saranno sempre amate dal Dio di Gesù Cristo che noi chiamiamo Padre nostro».
Il vescovo della Mission de France, monsignor Yves Patenôtre, e il suo Consiglio si sono associati a queste osservazioni: «Certo l’aborto è un atto di morte; inscrive nella carne di quelle che lo hanno vissuto delle ferite che non si chiuderanno forse mai. Ma come è possibile che davanti ad un tale dramma, la Chiesa si sia manifestata per giudicare e condannare piuttosto che per entrare in com-passione e ricondurre verso la vita? Come tenere così poco in considerazione la pratica pastorale tradizionale della Chiesa cattolica che è di ascoltare le persone in difficoltà, di accompagnarle e, in materia morale, di tener conto del «minor male», in particolare nelle situazioni drammatiche e nei casi estremi? Quando si invoca la «legge di Dio», come dimenticare la tenerezza di Gesù: «siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro»? […] Lo diciamo con tutte le nostre forze, in questo mondo ferito, dobbiamo far sorgere degli atteggiamenti di speranza piuttosto che rinchiudere in condanne che tradiscono i cammini di compassione dell’amore misericordioso».

La testimonianza dell’amore

Dobbiamo dire con semplicità e serenità che queste parole ci sembrano, sicuramente, più trasparenti nell’annuncio del Vangelo. Abbiamo, in effetti, bisogno della secolare sapienza della «pratica pastorale tradizionale della Chiesa cattolica», che comincia da Gesù e dagli Apostoli, ben prima del Concilio Vaticano II. E che il Concilio Vaticano II porta in sé.
Giustamente Benedetto XVI, nella sua lettera del 10 marzo 2009 ai vescovi della Chiesa cattolica (riguardo alla remissione della scomunica ai vescovi consacrati da Lefebvre), ha scritto: «Ma non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze?». Nella stessa lettera, il papa ha pure giustamente affermato: «Chi annuncia Dio come Amore “sino alla fine” deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia — è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’enciclica Deus charitas est».
Spero che la Chiesa cattolica tutta, in perfetta unità e pace, si incammini con decisione e senza tentennamenti su questa strada indicata dal papa, che è poi la strada amorevole del Vangelo e del Concilio Vaticano II.