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C.M. Martini-G. Sporschill, Conversazioni notturne a Gerusalemme, Mondadori, Milano 2008

È ad un tempo facile e arduo parlare di questo libro del cardinale Martini1. È facile parlarne perché è un testo nato da un dialogo con un confratello gesuita austriaco molto impegnato con i giovani, Georg Sporschill. La forma piana, colloquiale, rende facile la lettura. Non è un testo di scavo scientifico dei problemi e può produrre nel lettore una impressione di semplificazione eccessiva dei problemi, in particolare quando affronta temi assai controversi e che certo hanno bisogno di analisi accurate. Eppure l’apparente semplicità racchiude suggestioni profonde e liberanti.
Ma anzitutto è bello leggere questo libro perché ci aiuta a conoscere Carlo Maria Martini, con le sue paure, i dubbi, la fede. La discrezione che negli anni milanesi ha sempre circondato la sua persona e la sua vita interiore, qui lascia il posto ad una confidenza affettuosa. Più volte ci parla, per brevi cenni, della sua famiglia, di sua madre e di suo padre «sono morti già da molto tempo ma non li dimentico, sono loro grato, posso parlare con loro. È una bella usanza accendere un cero per i morti». Evoca gli anni della sua formazione nella Compagnia di Gesù, con grande ammirazione non solo per sant’Ignazio ma anche per tanti Gesuiti che sono stati guide, maestri e soprattutto amici. Ci racconta delle sue camminate in montagna e ci spiega che per fare una buona ascensione su una parete rocciosa non basta un appiglio e nemmeno due: ne occorrono tre. E di nuovo l’andare in montagna come scuola di amicizia celebrata con un sorso di grappa una volta raggiunta la vetta.
Ma, sempre con cenni sobri, il cardinale ci svela un poco la sua interiorità in questa attesa dell’incontro con il Signore. La morte è ripetutamente evocata in queste conversazioni notturne. Una evocazione che non ha nulla di dottrinale ma è piuttosto una confidenza del cuore. Una sola volta Martini si chiede: perché la morte? Perché Dio vuole che tutti gli uomini muoiano? «Con la morte di suo Figlio avrebbe potuto risparmiare la morte agli altri uomini». Ecco la risposta, maturata, confessa, in un travaglio: «Senza la morte non saremmo in grado di dedicarci completamente a Dio. Terremmo aperte delle uscite di sicurezza, non sarebbe vera dedizione. Nella morte, invece, siamo costretti a riporre la nostra speranza in Dio e a credere in Lui. Nella morte spero di riuscire a dire questo sì a Dio» (10).
Il pensiero della morte si congiunge intimamente con quello della fede. Confessa, e notiamo le formule niente affatto perentorie: «Spero che la mia fede in Dio sia abbastanza salda da vincere anche l’infelicità della malattia e la solitudine della morte» (15). «Spero che in punto di morte possa dire a Dio: Tu mi sostieni, mi proteggi, mi accogli» (19). Credo di poter dire che in questo suo avvicinarsi alla morte il cardinale non ha alcun atteggiamento eroico, spesso si pensa che il credente debba andare incontro alla morte sereno, sicuro, senza incertezze. Piuttosto dalla parola del cardinale traspare la paura: «Lo pregherei di inviarmi angeli, santi o amici che mi tengano la mano e mi aiutino a superare la mia paura»(11). E ancora ci confida: «Forse in punto di morte qualcuno mi terrà la mano, mi auguro — notiamo questo verbo — di riuscire a pregare, pregare mi fa sentire di essere al sicuro, vicino a Dio. La morte non può privare di questa sensazione di sicurezza» (36). E racconta di un teologo protestante che in punto di morte disse alla moglie: «Per tutta la vita ho riflettuto su Dio e sull’al di là, ora non so più nulla. Eccetto che, perfino nella morte, sono al sicuro». «Questa è anche la mia speranza», aggiunge Martini (ivi).
Vi è un secondo tratto dello stile di Martini, tratto sorprendente in un uomo che per lunghi anni è salito su prestigiose cattedre universitarie e poi per vent’anni ha tenuto la cattedra episcopale già dei santi Ambrogio e Carlo. Da un «uomo della cattedra» non ci aspetteremmo la singolare disponibilità all’ascolto in particolare nei confronti dei giovani, quasi la rinuncia all’ufficio magisteriale. Il libro nasce dall’ascolto delle domande dei giovani e Martini scrive: «Ascoltare le domande dei giovani e accettarle è il presupposto di una educazione religiosa». E alla domanda, ovvia per uno che è stato per tutta la vita maestro, docente, «Cosa possiamo insegnare ai giovani?», Martini risponde in modo sorprendente: «Ai giovani non possiamo insegnare nulla, possiamo solo aiutarli ad ascoltare il loro maestro interiore». E aggiunge, quasi avvertendo la sorpresa dell’interlocutore: «Suonano strane ma sono parole di sant’Agostino. Egli afferma con grande chiarezza che possiamo solo creare le condizioni per consentire ad un giovane di capire» (57).
E di nuovo, su un tema per il quale gli uomini di Chiesa hanno speso e spendono molte, troppe parole, il tema dell’educazione dei giovani all’amore, Martini scrive: «Soprattutto in queste problematiche profondamente umane, come sessualità e corporeità, non si tratta di ricette, ma di percorsi che iniziano e proseguono con le persone… I percorsi non possono essere imposti dall’alto, dalle scrivanie o dalle cattedre» (97). «Non sono cose che sia possibile imparare a tavolino. In questo ambito, il compito della Chiesa è di accompagnare gli uomini nel cammino verso l’amore, interrogarli, stare al loro fianco, spesso anche in silenzio, affinché possano proseguire in questa scoperta, passo dopo passo nel cammino dell’amore e dunque nel cammino verso Dio» (23). Ancora: «Il metodo giusto non è predicare alla gioventù come deve vivere per poi giudicarla con l’intenzione di cercare di conquistare coloro che rispettano le nostre regole e le nostre idee… L’essere umano che incontro è fin da principio un collaboratore e un soggetto. Dialogando insieme giungiamo a nuove idee e a nuovi passi condivisi. La questione che più tocca la sensibilità dei giovani è se li prendiamo sul serio come collaboratori a pieno titolo o se vogliamo farli ravvedere come se fossero stupidi o in errore» (59-60). Se oggi un sacerdote vuole imparare a predicare per la gioventù, il sorprendente consiglio del cardinale è quello di andare dai giovani e scegliersi un insegnante in mezzo a loro.
Vorrei ancora indicare due tratti preziosi di questo libro. Il primo è in qualche modo scontato in un uomo che fin dalla fanciullezza ha letto, studiato, amato la Bibbia. Per il cardinale questo è lo strumento decisivo per la formazione cristiana. Non pensare in modo biblico ci rende limitati, ci impone dei paraocchi non consentendoci di cogliere l’ampiezza della visione di Dio. La Bibbia ci insegna a pensare in modo aperto, ci insegna a guardare a Gesù e a guardare ai poveri. E un secondo tratto: l’ottimismo. Il cardinale si dichiara ottimista, anzi un grande ottimista (17), non nel senso di una visione rosea della vita, tutt’altro. Ripetutamente nel libro viene evocato il peccato del mondo, la somma di ingiustizie, violenze, indifferenze, omissioni che deturpano il volto della terra e dell’umanità. Eppure il suo approccio al male, al negativo è sempre positivo. Così, per esempio, l’aiuto a chi è nell’errore prima che attraverso il rimprovero avviene attraverso il dono dell’amicizia, soccorrendolo nella sua debolezza. Anche nei confronti dell’istituzione Chiesa, scrive che Gesù oggi più che biasimare mostrerebbe agli uomini di Chiesa come sia necessario lavorare duramente.
Concludo con un’ultima citazione, anche questa sorprendente sulle labbra di un uomo di Chiesa. Scrive: «Non puoi rendere Dio cattolico, Dio è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo» (20).
Questo libro, apparentemente semplice e dimesso, è un grande invito al coraggio e alla speranza. Proprio il cardinale che dice di essere una persona piuttosto prudente e timorosa (42) di una cosa è preoccupato: la mancanza di coraggio. «Alla gioventù e alla Chiesa vorrei dire questo: abbiate coraggio» (63).
1. C.M. Martini, G. Sporschill, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, Mondadori, Milano 2008.