Appunti 5_2008

Le ragioni e le dinamiche della speranza politica

› Carlo Molari

Viviamo in un clima di stanchezza e depressione, dal punto di vista pubblico e politico. Non circolano grandi progetti, idee ariose, fermenti vitali, slanci collettivi. Già si è ragionato su queste colonne dell’epoca delle «passioni tristi». Eppure, proprio in un contesto di tale genere, occorre abbarbicarsi al fondamento, esplicitare le ragioni di una speranza che sia insieme «spirituale» e «civile», riguardando tutti e ciascuno.
Nei momenti bui è urgente accendere luci, anche se piccole tracceranno il cammino. Nel clima di sfiducia occorre diffondere speranze, anche se minime indicheranno il traguardo. Se venissero meno, la situazione di stallo o di involuzione sarebbe ratificata e il futuro impedito. Il divenire umano, infatti, non è predeterminato e solo attendendolo lo si rende possibile. La speranza, d’altra parte, non può essere relegata agli ambiti individuali, alla propria sopravvivenza o salvezza, ma deve estendersi al divenire della vita e rendere possibile lo sviluppo culturale e spirituale della specie umana.
La concretezza della speranza, però, deve essere tale da evitare proiezioni fantastiche. Per non cadere nell’illusione, più deleteria della sfiducia, occorre avere chiare le ragioni della speranza e richiamare continuamente i suoi fondamenti. Per essere solida e concreta la speranza non può fondarsi sulle semplici energie delle creature presenti, bensì sulle forze della vita, più grandi delle energie attualmente espresse. Questa d’altra parte è il contenuto essenziale della fede in Dio: la certezza che in azione nella storia c’è una forza più grande e profonda di quella che attualmente l’umanità è in grado di esprimere. La condizione perché essa entri in azione è che le creature siano consapevoli della sua esistenza, assumano l’atteggiamento di fiducia e si rendano disponibili a diventarne strumenti concreti. Esaminiamo brevemente queste condizioni.

La consapevolezza della sua esistenza

Chi non crede nella vita non la può accogliere. La vita con i suoi processi di metabolismo mette in luce una delle caratteristiche fondamentali della persona umana: la dipendenza totale nel suo divenire da forze che la sostengano, la necessità, quindi, di essere attraversata continuamente da energia alimentatrice. Nella realtà materiale inorganica questa caratteristica non appare in modo evidente, data la sua apparente stabilità e la profondità delle impercettibili trame energetiche che la alimentano, al punto che la sottile struttura dei processi, che attraversa e sostiene tutta la realtà materiale rendendola stabile, fino al secolo scorso non era conosciuta, a parte la scoperta della forza di gravità.
Nel vivente, invece, questa caratteristica è evidente. Egli deve accogliere continuamente energia per restare ciò che è e per evitare di scomparire. Ogni vivente, infatti, per sopravvivere, deve svolgere un’attività indefessa, quasi senza sosta, deve lottare per acquisire e mantenere una propria identità, che si realizza in contrapposizione a forze disgregatrici e paradossalmente si costruisce attraverso il perenne cambiamento di tutte le sue componenti fisiche.
Hans Jonas per tale motivo qualifica la condizione del vivente: «paradossale, labile, incerta, finita e strettamente unita alla morte». La vita, egli scrive, è «affidata a se stessa e concentrata totalmente sulla propria capacità», ma dipende «per la sua realizzazione da condizioni delle quali non è padrona e che possono negarsi». Essa dipende «da favore e sfavore della realtà esterna; esposta al mondo da cui è distaccata e per mezzo di cui tuttavia deve affermarsi; uscita dall’identità con la materia, ma bisognosa di questa; libera, ma dipendente; isolata… alla ricerca di contatto, ma che può essere distrutta da esso; non meno minacciata per altro verso dalla sua privazione; in pericolo dunque da entrambe le parti, da superiorità e fragilità del mondo, e in equilibrio sul sottile filo fra queste, può essere disturbata nel suo processo che non deve interrompersi; nella sua temporalità che può finire in ogni istante»1.
Un dato oggi pacifico è quindi il carattere dinamico e relazionale della persona umana. Essa non è in grado di accogliere il dono della vita compiutamente in una sola situazione. L’uomo «inserito in un processo evolutivo globale, riceve la vita solo a frammenti» afferma il catechismo della Cei2. Ogni creatura è incompiuta e insufficiente: è inserita in una rete di relazioni che la sostengono e la conducono a compimento, deve percorrere una serie di eventi attraverso i quali il processo del suo divenire si attua. Ciò vale soprattutto per le persone e le comunità umane3.
La maturità della persona consiste nello sviluppo armonico di tutte le sue componenti o dimensioni: fisica (la persona è materia), biologica (appartiene all’ambito dei viventi), psichica (ha percezione, sensibilità, intelletto e libertà), spirituale (è consapevole della forza arcana che alimenta la storia ed è capace di accoglierla). L’identità umana, a differenza delle forme più semplici di vita, è prima di tutto identità di popolo e quindi è relazionale. Nessuno basta a se stesso e più la vita diventa complessa più l’interdipendenza si estende e si approfondisce al punto da generare nuove forme psichiche e quindi nuove modalità di esistenza. Anche il compimento sarà una forma di comunione per noi ora inimmaginabile. In prospettiva cristiana il traguardo del divenire è l’identità filiale: tutti sono chiamati a diventare figli di Dio. In termini biblici si potrebbe utilizzare anche la metafora della «corsa che ci sta davanti», corsa da compiere «con perseveranza», «tenendo fisso lo sguardo su Gesù autore e perfezionatore della nostra fede» (Eb 12, 2).
Ma questo cammino si realizza all’interno di un processo più ampio: l’evoluzione biologica e culturale della specie umana. Anche la specie umana nel suo complesso è in divenire. L’umanità non può restare com’è, essa deve necessariamente far fiorire qualità nuove. I popoli e i gruppi sociali che vogliono restare come sono e difendere i loro privilegi bloccano la storia e frenano l’evoluzione.
Alcuni pensano che S. Paolo, quando nella lettera ai Romani parla della creazione che soffre le doglie del parto e attende la rivelazione dei figli di Dio (cfr. Rm 8, 19), si riferisca non alle realtà materiali bensì alla parte dell’umanità non redenta, secondo l’uso che egli fa del termine greco ktisis. Certamente la specie umana ha vissuto passaggi epocali straordinari, che hanno costituito veri salti qualitativi. Le metafore della venuta di Dio e dell’attesa del Figlio dell’uomo si possono riferire bene a queste svolte. Il processo del divenire è possibile perché esiste «una forza arcana» che lo alimenta. Ma questa forza arcana, a livello umano, deve diventare qualità e azione di persone, decisione di popoli. È una forza creatrice che non si sostituisce mai alle creature ma le costituisce e rende possibile il loro divenire.
Per il credente la possibilità del futuro sta appunto nella realtà di Dio che è la perfezione già piena e realizzata. Quando i cristiani parlano dell’onnipotenza di Dio si riferiscono a questa pienezza e totalità, non alle realizzazioni possibili nella creazione. Esse, infatti, sono limitate dalle strutture create e sono condizionate dalle loro capacità di accoglienza, soggette allo sviluppo nel tempo. Dio è onnipotente nel senso che in qualsiasi condizione può condurre a pienezza e a compimento tutte le creature. A livello umano tuttavia questa possibilità si esprime nella libertà suscitata e offerta.
L’identità non si acquisisce per un’iniziativa personale né attraverso le realizzazioni esteriori. Tuttavia non si sviluppa indipendentemente dall’azione umana, perché essa è il luogo nel quale l’attività creatrice di Dio si esplica. L’agire divino non esiste fuori della creatura, bensì diventa la creatura. La professione e l’azione non identificano una persona se non a livello di rappresentazione sociale, tuttavia esse sono l’ambito dove l’identificazione si realizza, quando si coglie il frammento di vita che la situazione contiene e che viene offerto.
La fede in Dio si sviluppa attraverso verifiche continue. Quando si scopre che abbandonandosi con fiducia a Dio è possibile pervenire a forme nuove di fraternità, a gesti inediti di misericordia, a progetti di giustizia mai ancora realizzati, si comprende che nella storia umana è in opera una forza che contiene perfezioni ancora inespresse. La consapevolezza di questa presenza è condizione essenziale per alimentare speranze solide e concrete.

L’atteggiamento di accoglienza

La consapevolezza di una forza vitale profonda non è sufficiente a far fiorire la vita. È necessario anche un particolare atteggiamento di accoglienza. Chi non accoglie la forza vitale non la può sviluppare e non può diffonderla. Per accogliere le energie che ci alimentano occorre sviluppare determinati atteggiamenti interiori. Chi si ritiene autosufficiente e pensa di essere in grado di sviluppare da solo le proprie capacità vitali, anche se è convinto che Dio esista, non sviluppa quell’atteggiamento interiore necessario per rendere possibile il futuro. Le sue idee resteranno chiuse, i suoi sentimenti sterili, tutta la persona si ripiegherà su se stessa illudendosi di crescere.
L’accoglienza implica sintonia, vivere nella stessa lunghezza d’onda della forza creatrice. Creare spazi interiori di silenzio perché parole nuove possano risuonare. L’abitudine alla riflessione e al dialogo è una delle attitudini necessarie per accogliere quella novità di vita che fiorisce nelle creature. L’invito del vangelo a rinunciare a noi stessi per avere la vita è la traduzione concreta di questa esigenza.
Le culture orientali hanno sviluppato ampiamente il pensiero del vuoto accogliente e la pratica dell’ascolto profondo. Solo quando ha svuotato il suo io il saggio può mantenersi disponibile al nuovo e inserirsi dolcemente nel flusso degli eventi. L’occidente, sviluppando ampiamente le possibilità della ragione e le dinamiche della soggettività, ha spesso trascurato le attitudini dell’interiorità che coglie quella forza arcana da cui tutto il reale si dispiega inesauribilmente e il processo della vita si rinnova senza fine. Non percependo più il fondamento immediato della vita e delle sue possibilità la cultura occidentale ha aperto l’adito alla depressione e alla sfiducia, con tutte le forme di rifiuto della vita a cui esse conducono.
Il presupposto teologico di questa consapevolezza è il fatto che la forza creatrice di Dio e il suo amore, che si esprimono nel mondo, non possono essere annullati da nessuna forza creata. L’azione di Dio si esercita a quel livello profondo della persona nel quale si verifica lo sviluppo dell’identità definitiva e che, a un certo momento della maturità personale, nessuno può più devastare. Per questo l’uomo è in grado di affrontare e vivere tutte le esperienze storiche con la consapevolezza che proprio lì, all’interno di quella situazione, la forza creatrice gli perviene.
Non perché Dio l’abbia scelta per metterci alla prova, o per vedere se siamo fedeli anche in condizioni difficili, dato che sono le creature, per la loro incompiutezza ad introdurre il male nei processi storici. Ma l’azione della creature come l’ingiustizia degli uomini, non può mai essere così radicale da annullare la forza creatrice, che resta al fondo di ogni processo storico e che, quando abbiamo coltivato lo sguardo di fede e aperto l’occhio interiore, siamo in grado di percepire e di accogliere.
Vivendo in tale modo, ci è dato di crescere come figli di Dio e di raggiungere la nostra identità definitiva. Questa è la ragione finale della vita ed è l’oggetto concreto della nostra speranza. Se invece noi mettiamo il senso compiuto nella dimensione in cui realizziamo le cose, attuiamo dei progetti, ne scopriamo immancabilmente l’inutilità e l’insensatezza. La speranza del dono divino che fluisce continuamente e continuamente può essere accolto, non delude mai (cfr. Rm 5, 5).

La disponibilità all’azione mirando all’identità filiale

Perché la speranza non si esaurisca in se stessa e nel compiacimento delle proprie dinamiche deve sfociare nella decisione. La ragione teologica è molto semplice. L’azione creatrice che costituisce l’oggetto dell’attesa fiorisce e si espande nella storia solo diventando creatura e quindi azione di creature. L’amore divino non fa crescere nessun bambino se non diventa amore di genitore, di parente o di persona adulta. La speranza perciò diventa coinvolgimento e decisione. Chi non è disposto ad agire blocca i processi vitali e frena la storia.
L’azione alimentata dalla speranza non esige la realizzazione immediata, ha la pazienza del tempo, esprime la capacità di morire. Imparare a morire è sviluppare la consapevolezza della nostra precarietà. Il servizio che la vita ci chiede è sempre provvisorio. Arriva il momento in cui i nostri pensieri non sono più significativi, le nostre azioni non hanno più valore in ordine alla diffusione della vita. Quando cogliamo la certezza che questo è il traguardo del cammino terreno, sapremo anche vivere l’inadeguatezza delle situazioni personali e sociali nelle quali ci veniamo a trovare.
L’identità di figli di Dio, infatti, non si sviluppa nella stessa direzione nella quale siamo chiamati a esercitare il servizio alla vita. Esercitiamo il servizio alla vita facendo cose, realizzando progetti, aiutando gli altri con azioni provvisorie e precarie. La direzione del servizio è la morte nella quale la nostra azione va verso l’esaurimento, mentre la dimensione nella quale cresciamo come figli si sviluppa continuamente e acquista caratteristiche sempre più positive man mano che procediamo.
Mentre l’esistenza nella direzione realizzatrice perde senso, diventando impossibile, nella direzione spirituale, invece, si arricchisce e acquista senso. Alla fine non possiamo far nulla, ma possiamo essere tutto quello che dovevamo diventare: persone in grado di accogliere «il nome scritto nei cieli» (Lc 10, 20). Abbiamo, cioè, raggiunto la nostra identità definitiva.
Quando non accettiamo questa nostra condizione o non la viviamo con consapevolezza, non riusciamo ad affrontare bene non solo la sofferenza, il limite, la vecchiaia, bensì neppure i momenti positivi, perché non siamo in armonia con le profonde dinamiche dell’esistenza. L’esistenza ci appare insulsa.
Questa è la situazione nella quale molti si trovano. Oggi è facile sperimentare l’insensatezza finale in tempi molto brevi. Abbiamo, infatti, una quantità di beni a disposizione, i piaceri sono a portata di mano, il benessere offre continue illusioni. Per questo oggi molti giovani sono già stanchi di vivere e colgono l’insensatezza di tante scelte che pure sono chiamati a compiere.
L’esperienza dell’insensatezza diventa drammatica e fatale.
Quando però si sviluppa la dimensione spirituale anche le situazioni insensate sono affrontate in modo sensato, perché, come scrive S. Paolo, nessuno «ci può separare dall’amore di Dio» (Rm 8, 39); nessuno, cioè, può impedire di accogliere quella forza creatrice per cui cresciamo come figli di Dio. Allora ogni attività diventa sensata e fa fiorire la vita. Anche se non se ne vedono i frutti, a lungo andare esplode in forme nuove di fraternità e di giustizia.
Fidarsi della vita è la condizione imprescindibile per rendere possibile il futuro.

1  H. Jonas, Peso e benedizione della mortalità, in Id., Tecnica, medicina ed etica. Passi del principio responsabilità, Einaudi, Torino 1997, pp. 206-221 qui p. 210.
2 Cei, La Verità vi farà liberi, «Catechismo degli adulti», n. 372.
3  «L’uomo è a immagine di Dio. Ciò significa che egli è un essere costituzionalmente in relazione, che attraverso tutte le sue relazioni e in esse egli cerca la relazione che è il fondamento della sua esistenza», J. Ratzinger, Molte religioni un’unica alleanza, San Paolo, Milano 2007, p. 60. «La vita nel senso vero non la si ha in sé da soli e neppure solo da sé: essa è una relazione. E la vita nella sua totalità è relazione con Colui che è la sorgente della vita», Benedetto XVI, Lettera enciclica «Spe Salvi», n. 27.