Rapsodia per Paolo

› Marco Damilano

La scomparsa, a soli 61 anni, di Paolo Giuntella, giornalista e scrittore, tra i fondatori della  nostra rivista, lascia un vuoto in molti di noi che l’ebbero amico. E permette una riflessione, che andrebbe largamente rilanciata, sulla sua irregolare leadership, sulle trame amicali, sulle sue idee, sui suoi sogni.

«Questo ’78 così drammatico (assassinio di Moro, continuo agguato terroristico con improvvisi ritorni di morte e di violenza, la lacerazione del caso Moro di cui un ignoto regista ripropone periodicamente i continui e oscuri risvolti con sapiente stillicidio), così emotivamente denso di sorprese e suggestioni (elezione di Pertini, morte di Paolo VI, elezione e pontificato lampo di Giovanni Paolo I, elezione di papa Wojtyla) è stato anche il silenzioso ’78 dei movimenti giovanili». Così scriveva Paolo Giuntella su «Appunti di cultura e di politica» (n. 1 del 1979) alla fine del 1978, l’anno in cui la rivista della Lega democratica aveva cominciato le sue pubblicazioni. Paolo aveva appena compiuto 32 anni, in quel breve articolo, semplicemente intitolato Le esigenze dei giovani, parlava della sua generazione e delle sue difficoltà. C’era già, in quelle righe, il senso della crisi, dello smarrimento, dell’inverno in arrivo. Il riflusso, gli anni Ottanta alle porte, la decimazione dei cattolici democratici ad opera delle Brigate rosse nel decennio aperto dalla strage di via Fani e concluso con l’omicidio di Roberto Ruffilli. E la restaurazione ecclesiale dopo la breve stagione dell’entusiasmo post-conciliare.
Di quei giovani cattolici democratici rimasti senza maestri e senza modelli il trentenne Giuntella era già un punto di riferimento, nonostante la vicinanza generazionale. La voce più autorevole, ma anche la meno consolatoria, la più esigente. «Il problema che ora si pone», affermava Paolo trent’anni fa, «è quello di come permettere una nuova emergenza di queste minoranze che strette tra tentazioni integriste, tentazioni neo-qualunquiste, tentazioni spiritualiste, ripiegamento nel privato, cercano a tastoni strumenti di comunicazione, di aggregazione, spazio culturale, politico, vitale… Nel nostro paese e nel nostro mondo il ricambio di classe dirigente avviene ancora con troppa difficoltà. E premia troppo spesso gli “adeguati”». E concludeva: «Una generazione progressivamente privata di maestri, di leader, di punti di riferimento, di modelli alternativi, di memoria storica; una generazione impoverita dalla caduta delle agenzie educative, dalla “precarizzazione” progressiva, sembra intravedere una nuova consapevolezza. Non ha ancora trovato nuovi leader, nuovi maestri, ma sembra piuttosto, sulla base della amara esperienza, voler ricercare con più umiltà e minori clamori un nuovo protagonismo responsabile».

In cerca di una rosa bianca

Dopo che il 22 maggio si è «accoccolato nel Signore», come amava dire, in molti hanno scoperto che Giuntella è stato quello che in tanti avevano intuito con lui in vita: un maestro. Certo, un maestro particolare: disordinato, magnificamente disorganico. Certo, valevano anche per lui le parole che aveva usato per ricordare l’amico sociologo Cesare Martino: evangelicamente libertario e anarco-cristiano. Un intellettuale militante, un viandante della parola. Un nomade irrequieto di dogmi, ideologie, incasellamenti. E certo, lui avrebbe preso questa definizione con molta ironia. E avrebbe piuttosto rimandato alla lezione di Emmanuel Mounier: «L’evento sarà il vostro maestro interiore». I grandi eventi che seguiva come giornalista, i piccoli eventi della vita quotidiana che riempivano i suoi racconti. Come quello che aveva comunicato agli amici in una lettera del 5 gennaio 1976, poi pubblicata in In cerca di una rosa bianca, il prezioso libricino della Locusta che per moltissimi è stato un vero testo di formazione, con il titolo di Aspettando il 28: l’attesa dell’autobus per tornare a casa e vedere in tv la tribuna politica di Benigno Zaccagnini, in mezzo a una piccola folla di «individui casuali, che vestono in modo provinciale e piccolo borghese, che sono privi di gusto estetico, che non sanno ridere, che non sanno con chi andare a fare la pizzata… che girano la domenica mattina da soli per Roma, che aspettano di mendicare un po’ di amicizia, se capita un po’ di sesso… che non entrano in chiesa o, se ci entrano, c’entrano da soli». Qui, in mezzo a questa gente stanca e nervosa, con l’autobus che non arrivava mai e dava tensione narrativa al tutto, Paolo lasciava correre liberamente i suoi pensieri. E compilava, a ritmo di blues, il suo manifesto politico: «Occorre fondare un Sindacato Peccatori e Santi unificato, occorre rivalutare tutti i non eletti, tutti coloro che non appartengono a movimenti da dibattito o da reportage televisivo. Occorre ricreare le grandi amicizie di Jacques e Raissa Maritain, i cenacoli creativi di Ésprit, le leghe bianche… occorre essere un po’ sindacalisti e un po’ poeti, un po’ scouts e un po’ monaci… un po’ hippy e un po’ discreti… Io credo che anche una vita impegnata, una vita “politica”, una vita di liberazione e di giustizia, ha bisogno di silenzio, di contemplazione oltre che di lotta, di fiaba, di tenerezza, di dimensione umana, familiare, ludica, di fantasia e di allegria».
Aveva provato a realizzare questa comunità personalista e liberal con la Lega democratica e soprattutto con la Rosa bianca. E per tutta la sua vita ha combattuto la sua buona battaglia, culturale e formativa molto prima che politica: dimostrare che si può essere cattolici e amanti della vita, profondamente impegnati nella politica e nel giornalismo senza mai tagliare il filo della tenerezza e dell’attenzione alle persone, appassionati di jazz — «i musicisti sono gli ultimi intellettuali credenti rimasti» — e della «Gaudium et Spes». È così che Paolo ha profondamente rinnovato i cattolici democratici italiani. Quelli diventati grandi tra gli anni Sessanta, i Settanta e gli Ottanta. I figli e i nipoti di Lazzati, Dossetti, Montini. Quelli marchiati per sempre dal Concilio, la «rivoluzione copernicana nella Chiesa», come l’ha definita Dominique Chenu, e poi dal ‘68, vissuto senza ideologie e come l’inizio della speranza («Anche se saliremo su questo treno, anche se diventeremo pianificatori o moderati, integrati o teo-piagnoni, lo faremo sempre a mezzo servizio, conserveremo dentro di noi una nostalgia di utopia e un sogno», scriveva in quegli anni Paolo all’amico Antonio).
Una generazione segnata dalla strage delle intelligenze migliori, Moro, Bachelet, Ruffilli e dall’ansia di rinnovamento, della politica, della Chiesa, nella fedeltà ai padri e ai maestri. E poi, negli anni Novanta, dalla diaspora, l’indebolimento o la scomparsa progressiva delle vecchie associazioni, dalla necessità di navigare «in mare aperto», senza bussole. Credenti e anti-integralisti, movimentisti e istituzionali, amanti del senso dello Stato e di ciò che di nuovo si agita nella società, anti-conformisti e al tempo stesso legati alla tradizione tramandata di padre in figlio, come il gomitolo dell’alleluja: il libro scritto a quattro mani da Paolo con il papà, Vittorio Emanuele Giuntella. Una cultura che non può essere rinchiusa nei confini della Dc o della sinistra dc, né tantomeno nel recinto più ristretto dei partiti che ne hanno preteso l’eredità, come la parabola di Paolo dimostra. E forse la sua scomparsa consentirà finalmente di raccontare la storia di questa famiglia politica, culturale e ecclesiale, come finora non si è mai fatto: in libreria e in tv dilagano i cuori neri e i loro omologhi rossi, ma non la vicenda di questi credenti che rappresentano un bel pezzo del Paese. Colpa del silenzio di tanti, colpa del deserto provocato da venti anni di mortificazione dei laici nella Chiesa. Ma colpa anche dei laici e di una certa difficoltà a rappresentare la propria storia e le proprie radici, di cui Paolo soffriva moltissimo.

Un’anima per la politica

Da un punto di vista politico il suo credo era riassunto nello slogan del cileno Rodomiro Tomic, ripetutamente citato: «Non esiste il centro tra giustizia e ingiustizia». Amava la politica, la politica che è «valutazione razionale del possibile e sofferenza per l’impossibile», come ha scritto Scoppola nel suo ultimo testo. Con il gusto dei pensieri lunghi: «Vinceranno i sostenitori della modernizzazione Krizia-Trussardi-Missoni-Berlusconi?», si chiedeva già nell’87. E nel ’94, analizzando la prima sconfitta dei progressisti ad opera di Forza Italia, elencava con precisione gli errori della sinistra: «Mancanza di sogno, l’eccesso di enfasi, di entusiasmo, le illusioni sulla “vittoria”. Ma su tutto c’è l’incapacità di interpretazione del sentimento popolare e una certa superbia intellettuale. Vale per noi quanto affermò il leader laburista Neil Kinnock dopo una delle tante sconfitte britanniche: “noi abbiamo sempre difeso gli interessi popolari, ma non abbiamo saputo interpretare il sentimento popolare”». E anche questa è una lezione per l’oggi.
Il suo sogno era un «partito progressista “liberal” promosso anche da cattolici». Con la certezza che ai cattolici fosse assegnata la missione di tenere insieme riformismo e profezia, cultura di governo, tensione ideale e il sentimento popolare. E il compito di evitare per la sinistra post-ideologica la fuga in «una modernizzazione affascinante ma senz’anima, strettamente legata a una secolarizzazione in cui è radicalmente estromessa la questione del senso», come aveva previsto già due anni prima della caduta del Muro.
Non è mai stato facile coltivare il sogno: significava spesso battersi su un doppio fronte. Quello cattolico, dove per anni puntualmente è scattata nei confronti di Paolo l’accusa di irrilevanza o, peggio, di cattocomunismo. Dove arrivava sempre qualcuno che aveva già capito tutto e diffidava dell’irregolare Giuntella. E sul versante della sinistra, dove la scomparsa delle ideologie ha lasciato il posto a una generazione di riformisti senza radici e senza ideali, adeguati, per l’appunto, adagiati, appagati. Mentre, Paolo lo ripeteva sempre, il vero riformismo è uno sforzo intransigente di cambiamento della realtà, dei rapporti di forza, degli stili di vita. Con il rispetto delle regole e della democrazia, con un’opera tenace e paziente di convinzione, perché, scriveva all’inizio degli anni Novanta andando controcorrente perfino tra gli amici più cari, «io credo che l’intransigenza morale e politica vada coniugata con molto coraggio intellettuale (perché non è una cosa facile) alla mitezza, mitezza come categoria politica». Non facile muoversi nel vuoto delle associazioni, nella banalità delle riviste e delle case editrici, tutto quello che ha segnato in questi anni la fine di un certo mondo cattolico italiano, ma anche tra il cinismo dei rampanti e dei carrieristi post-comunisti e neo-democratici. Quando vedeva colleghi magari ex gruppettari sgomitare a caccia di posti e visibilità Paolo sorrideva ricordando che il suo libro di formazione era Opinioni di un clown di Heinrich Böll: il giullare che strappa la maschera al potere, lo demistifica, lo rende nudo. Una lezione di inaffidabilità per il potere: così come è sempre stato lui.

L’Internazionale delle Beatitudini

Per questo, quando il partito tanto atteso, l’Ulivo e poi il Partito democratico, è finalmente arrivato, Paolo aveva già cambiato passo. La sua battaglia si era spostata sul fronte del pluralismo ecclesiale, la sua più grande preoccupazione. Ripeteva la testimonianza di fedeltà sofferta e adulta alla Chiesa di Giuseppe Donati: «Tutti noi, benché ridotti dal fascismo all’estremo e poco sorretti e compresi dal Vaticano, il giorno in cui ci fosse da difendere le cose care e sacre a cui il Vaticano è connesso, ci faremmo ancora scannare per il Papa, per la Chiesa… Non ci rimane che sopportare e sopportare ancora, finché la tempesta passi, come dei soldati che non rinnegano la loro bandiera, anche se sanno che i loro generali sono degli imbecilli e dei traditori». E il dimenticato padre fondatore della Lega democratica cristiana Eligio Cacciaguerra, che, ricordava sempre, si era innamorato «a senso unico» di Eugenia P., e in questa notazione c’era una simpatia non solo politica ma esistenziale.
La sua missione, era sempre più convinto, era questa: raccontare storie di uomini e di donne, perché la fede e la vita si incontrano nelle biografie delle persone. Girava senza sosta l’Italia in lungo e in largo, per parrocchie, associazioni, comunità. Viaggi in macchina che potevano durare anche otto ore, con lunghe soste in trattorie poco frequentate. Estraeva dal quadernino valanghe di spunti, provocazioni: l’ultimo libro, l’ultimo disco, l’ultima litigata… Amazing Grace e la Misa popular salvadoregna, considerati altrettanto fondamentali di Rivoluzione personalista e comunitaria. Sempre più con l’occhio al mondo, dai gesuiti trucidati dagli squadroni della morte in Salvador all’adorata Irlanda alla comunità congolese di Roma, tutti componenti della sua ideale Internazionale delle Beatitudini, l’unica in cui si riconoscesse davvero. Solo lì, nel tramandare di padre in figlio e di generazione in generazione il filo della fede disperso che sembra impossibile acchiappare nella tragica storia degli uomini, vedeva la possibilità di un cambiamento anche sociale e politico, la speranza di cieli nuovi e terre nuove, l’attesa che la notte finisca, perché la notte si fa più scura quando il mattino sta arrivando. Chi ha ascoltato ai suoi funerali le parole dei figli Osea, Tommi e Irene sa che il tesoro è ben custodito.
Per questo, nel nome di Paolo Giuntella, bisognerà tornare prima o poi a mettersi in cerca di una rosa bianca. In grado di parlare ai cuori inquieti, credenti e non credenti, rigorosi e disordinati, intransigenti e aperti alla vita. Con le parole di Sydney Carter con cui Paolo concluse un suo articolo tanti anni fa. Lo aveva intitolato come piaceva a lui: Ci aspetta un domani cantato.

Danzavo per lo scriba e per il fariseo
Ma non hanno voluto danzare né seguirmi.
Danzavo per i pescatori, per Giacomo e per Andrea,
Mi hanno seguito e sono entrati nella Danza.
Danzavo il giorno del Sabato e guarivo il paralitico,
E i giusti han detto che era una vergogna.
Mi hanno frustato e lasciato nudo
E mi hanno appeso a una croce per morirvi.
Hanno sepolto il mio corpo, hanno creduto che fosse finita…
Ma io sono la Danza e guido sempre il Ballo.
Guiderò la Danza di tutti voi
Ovunque voi siate,
Guiderò la Danza di tutti voi.
Han voluto sopprimermi ma son balzato ancora più in alto,
Perché io sono la Vita che non può morire
Ed io vivrò in voi e voi vivrete in me;
Perché io sono — dice Dio — il Signore della Danza.