Appunti 3_2008
Emergenza sicurezza: interrogativi più che risposte
› Alberto Guariso
Emergenza politica e culturale cruciale, quella della sicurezza, al di là di ogni elemento quantitativo. Le riflessioni sul peso di tali discorsi nella vicenda elettorale recente conducono a interrogarsi soprattutto sulla necessità di ripensare a fondo l’approccio dell’area democratica del paese a tale problema.
Capire perché la questione della sicurezza sia montata così rapidamente e abbia giocato un ruolo decisivo nei risultati elettorali è compito che non può assolversi a pochi mesi dall’inizio della «grande paura»: certamente non è in grado di farlo chi scrive. Già in molti hanno segnalato quanto il fenomeno sia apparentemente inspiegabile in un contesto nel quale tutti gli indicatori oggettivi di cui disponiamo non segnalano alcuna particolare impennata della criminalità; e quanto numerosi siano invece i fattori che presumibilmente hanno concorso nella vicenda: dalla insicurezza «materiale» di chi non sa come arrivare a fine mese; alla insicurezza «esistenziale» indotta dalla globalizzazione e dal conseguente miscuglio di identità; al generico stress derivante dalla cattiva qualità della vita urbana; all’effetto moltiplicatore indotto dalla martellante campagna politica e mediatica; all’effettivo aumento di alcune tipologie di reati particolarmente visibili; infine — ovviamente — alla «questione stranieri», che ha assunto dimensioni quantitative rilevanti (l’aumento degli immigrati regolari ci ha portato per la prima volta nel 2007 a superare, se pure di poco, la media europea).
La cenere sul capo della sinistra…
Nessuno di tali fattori è tuttavia in grado di fornirci una risposta soddisfacente. Meglio allora limitarsi ancora per qualche tempo agli interrogativi, piuttosto che ai tentativi di risposta. Il primo non può che riguardare il «rito della cenere», divenuto ormai una costante del dibattito culturale e politico. Ogni riflessione, ogni articolo di fondo, ogni discorso di sindaco o uomo politico di sinistra deve aprirsi cospargendo cenere sul capo della cultura di sinistra e di quella cattolica progressista per essere arrivata «tardi» all’appuntamento con la questione sicurezza, con ciò dandosi evidentemente per scontato che altri siano ivi giunti assai prima e con maggiore capacità di comprensione del fenomeno.
Dopo il 14 aprile, il rito trova agevole spiegazione nella sindrome da sconfitta, ma se astraiamo per un attimo dalla contingenza (d’altra parte il rito era iniziato ben prima) ci accorgiamo subito che le ragioni precise per cui si dovrebbe accedere al rito non sono affatto chiare. Già sul piano generale non si comprende quale sia la componente culturale che avrebbe indotto nella sinistra questa tara originaria: non lo statalismo — che in altre e più numerose occasioni le viene rimproverato — che presuppone semmai accentramento dei poteri, regole precise e rigide, scarsa autonomia del sociale (nelle sue forme fisiologiche e patologiche) rispetto al controllo statale. Si cita allora, piuttosto, la componente anarcoide, libertaria e insofferente alle regole, ma è sin troppo agevole replicare che tale componente ha sempre avuto nella sinistra italiana un ruolo minoritario, sicché non si spiega per qual motivo dovrebbe sopravanzare nell’immaginario collettivo l’immagine più ordinata e statalista di cui si è detto.
E ancora si usa citare (lo faceva in una intervista al «Corriere della sera» il presidente della provincia di Milano Filippo Penati, esponente del Pd, uno di quelli che a furia di cospargersi il capo dalla cenere se ne è ormai fatto un elmetto da battaglia) le tendenze «perdoniste» che fanno leva sul ritornello «la colpa è della società». Ma anche qui, non si può negare che nella cultura progressista (specie se di matrice cattolica) sia quantomeno altrettanto forte la componente opposta — del tutto ignota alla cultura liberale — secondo la quale il senso della responsabilità personale va addirittura oltre l’orticello delle proprie azioni (per intenderci, la cultura dell’«i care»).
… e la latitanza reale della destra
L’interrogativo diviene poi inestricabile quando ci si sposta dal piano dei principi a quello storico e concreto, comparando il ruolo che i due schieramenti hanno assunto nella storia recente del nostro paese: non solo perché la destra ha avuto qui inevitabilmente — a seguito dell’imprinting berlusconiano — una componente fortemente individualista, competitiva, insofferente alle regole (che mal si concilia con l’immagine dirigista che dovrebbe ispirare il tutore della sicurezza) ma soprattutto per l’esperienza che la destra ha dato di sé nell’ultimo quinquennio di governo.
Come è noto, basta scorrere l’elenco completo di tutti i provvedimenti legislativi varati dai due governi Berlusconi 2001– 2006, per prendere atto che non vi si troverà un solo provvedimento volto a intervenire efficacemente sulle problematiche cui tutti i cultori della sicurezza annettono così grande rilievo (rapidità dei processi, pene effettive e certe, carceri funzionanti), mentre si troveranno innumerevoli provvedimenti che (sotto il più che nobile richiamo della tutela delle libertà individuali) concentravano la loro attenzione molto più sul presunto imputato che non sulla presunta vittima1, e così via.
Tale essendo la carta d’identità della destra in materia di sicurezza, sarebbe davvero il caso di ripensare il rito della cenere: ma — qui sta il punto — non per difendere una bandierina, ma perché questa comparazione semplificatoria («loro sì che avevano capito…») condanna oggi al silenzio e all’immobilismo tutta l’opposizione e sottrae alla collettività l’apporto che invece può e deve derivare da una componente culturale e politica che su questa materia — se attingesse davvero al suo patrimonio — molto di utile avrebbe da dire.
Sicurezza e legalità: la questione degli stranieri
Un secondo interrogativo riguarda il rapporto tra legalità e sicurezza. A lume di naso sembrerebbe logico che ciascuno tenda a sentirsi più sicuro in un sistema perfettamente «legale» dove le regole sono chiare, dove la gran parte dei cittadini le rispetta e dove chi non le rispetta viene sanzionato. Eppure è sotto gli occhi di tutti che l’ondata emotiva a favore della sicurezza non è affatto accompagnata da analoga ondata emotiva a favore della legalità : dal grande al piccolo, dalla evasione fiscale al disprezzo della vita umana di guidatori folli, giù giù fino al cane che sporca ai giardinetti e alla guida con il telefonino, i comportamenti degli italiani continuano a sembrare improntati ad una scarsissima affezione per le regole.
Come ha potuto dunque prosperare ed essere tollerata una simile schizofrenia? E come è possibile che così pochi segnalino quanto sia pericolosa una frattura tra legalità e sicurezza ? Perché è ovvio che una qualsiasi autorità nella quale il cittadino riponga fiducia (fosse anche quella mafiosa) può di per sé garantire sicurezza anche se non garantisce affatto legalità; sicché una società dove il bisogno di sicurezza prospera slegato dal discorso sulla legalità, si espone inevitabilmente al rischio di derive autoritarie e populiste.
Va qui aggiunto che dentro questo schizofrenico binomio è rimasta schiacciata la questione stranieri. L’equazione che si è imposta all’agenda politica è di una semplicità disarmante: chi entra in Italia senza un titolo di soggiorno è in una situazione di «illegalità»; ogni illegalità è una minaccia per la sicurezza dei cittadini; ergo la questione degli stranieri è una questione di sicurezza. Ora, a qualunque pacato osservatore non può non apparire subito evidente che delle tre asserzioni, la seconda è certamente falsa, tanto che appunto, come si è detto, una quantità infinita di grandi e piccole illegalità viene talora ignorata, talora criticata aspramente, talora allegramente tollerata, ma comunque senza che da ciò si pretenda di trarre alcun effetto in termini di insicurezza del cittadino.
In questo contesto, la illegalità «da ingresso» ha semmai qualche caratteristica specifica che andrebbe tenuta in adeguata considerazione e che basterebbe da sola a far saltare il sillogismo di cui sopra: muoversi attraverso i confini è non solo un fenomeno che ormai sovrasta qualsiasi tentativo di regolazione che voglia basarsi solo sul principio di autorità, ma è uno dei diritti fondamentali delle persone tanto che, ad esempio, l’Europa lo ha imposto a tutti gli stati membri ben prima che questi acquisissero la forma giuridica di un’unica nazione. E a differenza di altre illegalità, deve fare i conti con quel pacchetto di diritti fondamentali che ciascuno porta con sé passando da un confine all’altro e che le nostre leggi riconoscono: il diritto alle cure mediche essenziali, il diritto alla scuola per i minori regolari o irregolari che siano, il diritto a essere retribuiti anche in caso di lavoro «nero», il diritto a non essere respinti verso un paese ove non siano riconosciute le libertà democratiche e così via. È dunque, semmai, una illegalità «attenuata», come tutte quelle che nascono dal bisogno e che in qualche modo l’ordinamento è costretto a tutelare nel momento stesso in cui la reprime.
D’altra parte, la banalissima e ormai ripetutissima constatazione che il 99% degli onesti lavoratori stranieri che consideriamo ospiti graditi e necessari sono stati in precedenza per un periodo più o meno lungo clandestini illegali, come pure la pacifica tolleranza con la quale viene vissuto dal cittadino il fenomeno, ogni qualvolta tale illegalità torni comoda (si veda il famoso caso delle badanti) dimostra quanto poco la illegalità in questione abbia a che vedere con la sicurezza. Resta ovviamente la questione di stabilire un numero di ingressi e riuscire a farlo rispettare, ma questa è tutt’altra questione: se davvero chi entra con una delle tre finalità «legittime» riconosciute dall’ordinamento (la ricerca di un lavoro, il ricongiungimento con la propria famiglia, la fuga da situazioni di persecuzione politica) potrà entrare legittimamente, allora davvero l’ingresso sommerso e anonimo sarà un fenomeno ridotto a chi entra mosso da finalità illecite e potrà porsi in collegamento con altre e criminose «illegalità»; ma fino ad allora (e siamo ben lontani da ciò se si pensa che delle circa 700.000 domande dell’ultimo decreto flussi corrispondono a lavoratori già presenti sul territorio e già utilmente occupati, ma di queste solo 170.000 saranno accolte) ogni equazione tra clandestinità e sicurezza costituisce solo un intollerabile e strumentale corto circuito.
Proclamare norme o agire giustizia?
Un terzo interrogativo, che lascia ancor più sconcertati è come sia possibile che, in un paese dove la giustizia penale ha dato così modesta prova di efficienza, una mano misteriosa sia riuscita a orientare il bisogno di sicurezza esclusivamente sulla giustizia penale, per di più intesa nella sua accezione più ristretta: ad ogni emergenza si risponde con un aumento della pena edittale (quella prevista in astratto dal codice per quel tipo di reato) e con l’introduzione di nuovi reati. E così, mentre tutti riconoscono che il problema è quello, sempre irrisolto, di processi rapidi e di pene certe, si finisce in un groviglio inestricabile dove il rapporto tra valore collettivo e misura (astratta) della punizione perde qualsiasi ragionevolezza: con la «aggravante clandestinità» inserita nel decreto legge Maroni, il furto di una maglietta in un negozio da parte di un clandestino sarà punito con la reclusione minima (sia chiaro: minima) di tre anni; e massima di dieci. E ancora il nuovo reato di immigrazione clandestina (ivi compreso quello della badante che accompagna il nonno ai giardinetti o del disperato che fugge dal deserto del Sudan) verrebbe punito con la pena (minima) di un anno e massima di quattro; previsioni che — ovviamente — possono essere tollerate da una comunità civile solo sull’ipocrita presupposto che una pena di questo genere non verrà mai applicata; il che, purtroppo, nel nostro caso non è neppur vero.
Un ultimo e più istintivo interrogativo riguarda l’altro stucchevole ritornello delle settimane post elezioni: quello della sinistra salottiera e aristocratica contrapposta alla destra capace di ascoltare la gente, di parlare come la gente di urlare come la gente: perché è lì, tra la mitica «gente», che sarebbe nata l’invocazione di sicurezza che ovviamente non poteva arrivare sino al chiuso dei salotti della sinistra. Ora, la questione non dovrebbe comunque spaventare nessuno che si voglia muovere sulla scena con buon senso e con saggezza politica: se è clamorosamente stupido pensare che «il popolo non ci capisce, ma abbiamo ragione noi», così è macroscopicamente errato adagiarsi su qualunque urlo provenga dalla gente, quasi che questa estremizzazione della rappresentanza fosse il solo compito della politica.
Ascoltare e indirizzare: il compito della politica
La via della saggezza sta ovviamente e banalmente nel mezzo: ascoltare, ascoltare attentamente (specie quando i meccanismi di selezione della classe politica ne favoriscano un così clamoroso scollamento dalla collettività) ma prendere atto che non tutti gli urli hanno la stessa dignità, non a tutte le domande potrà darsi la risposta che la gente si aspetta. Men che meno se la risposta che la gente aspetta è semplice e la questione — come accade per l’immigrazione — è tremendamente complicata.
Agli assalti anti-rom di Ponticelli tutto ciò che la destra ha saputo rispondere è che la gente fa ciò che la politica non è in grado di fare: come se i roghi e la politica esprimessero un poco più e un poco meno, un troppo e un giusto, ma collocati nella medesima direzione di marcia. Si leverà almeno una voce a rivendicare che la direzione pensata nei «salotti della sinistra» è un’altra; e che è altra non per gusto intellettuale, ma per passione carnale verso valori che gli appiccatori di roghi non conoscono ? Mah ! Al momento siamo al solito assordante silenzio.
1 Si pensi alla ridicola vicenda (oggi dimenticata) delle «rogatorie internazionali», con rissose sedute parlamentari occupate a far approvare una legge che impediva ai giudici di utilizzare documenti provenienti da autorità giudiziarie straniere ove trasmessi in fotocopia, o all’incauta abbreviazione dei termini di prescrizione, alla restrizione alla perseguibilità del falso in bilancio, che è anche uno dei principali strumenti per procurarsi fondi per attività illecite o nascondere proventi delle stesse.



