Cari vescovi, la coscienza è sacra
Cari padri del Consiglio permanente della Cei, ma davvero credete che i cittadini che eventualmente faranno scelte difformi dai vostri auspici in materie come quelle considerate con attenzione nella vostra nota del 28 marzo si appelleranno «all’autonomia dei laici in politica»? Così avete scritto e così leggo. Con sorpresa e con disagio, perché amo pensarvi al di sopra di confusione di principi etici e banalità di analisi. Mi rivolgo a Voi perché non mi preoccupo per una laicità ferita, ma per la religiosità che interpretate.
Non credo proprio che una scelta controcorrente (e questa di cui si parla, in certa misura, lo sarebbe e lo è), possa seriamente motivarsi adducendo “libertà di voto”, “autonomia”, “pluralismo”. Va scomodato, seriamente, un principio più serio ed esigente, e cioè il dovere di «agire secondo le convinzioni della propria coscienza». Se esistono, esse vanno dette e spiegate da chi la scelta la fa, e vanno rispettate da chi non la fa.
Davvero voi credete che potrebbe venire del bene se cittadini, attenti e informati di tante cose, tra cui certamente anche il magistero della Chiesa cattolica, agissero contro le convinzioni delle loro coscienze? Perché non vi limitate a dire quanto pensate sia giusto e opportuno, e non vi affidate ai liberi e responsabili convincimenti delle persone, di tutte le persone ? Non ricordate che anche ai tempi difficili e impegnativi degli attivissimi Comitati civici (da voi promossi in ogni parrocchia), lo slogan centrale era “Votate, Votate bene, Votate uniti”, e ci si fidava che la faccenda funzionasse? Essa funzionava perché allora ve ne erano molte ragioni, e abbastanza convincenti.
Perché oggi, a mezzo secolo di distanza, vi appalesate più invadenti, o più spaventati? La vostra nota del 28 marzo, in realtà, è molto ben scritta e su una sessantina di righe, quasi cinquanta sono a mio parere sagge e utili da leggersi: ma il veleno della paura e dell’illusione infetta un paio di periodi là dove avete voluto indicare, a cittadini e parlamentari italiani, un obbligo di obbedienza specifica.
Con questa indicazione, di sapore letteralista, io penso raccoglierete pochissimo e disperdete molto di più, in termini di autorevolezza e credibilità subito, e forse di consenso sociale profondo, domani. Se non ci saranno correzioni pastorali adeguate.
L’obbedienza alla quale alludete non ha fondamenti costituzionali nelle regole della nostra Repubblica, e questo penso sia chiaro a tutti, voi compresi.
Ma non mi pare abbia legittimità neppure nell’ambito della disciplina ecclesiale, così come è normata. La Chiesa ci ha sempre insegnato che non si può obbligare neppure a “credere”, con tutta l’enorme grandezza di significati e rilevanza di conseguenze che ha la fede cristiana: o si crede o non si crede.
Magari si crede poco e male, ma la fede o è un fatto vivente, o è un mentire.
Per simmetria e parità non si può, neppure a fin di bene, obbligare ad agire contro una convinzione di coscienza, contro una propria “competenza” civile o professionale. Perché delle proprie azioni ciascuno è sempre personalmente responsabile.
Un cristiano non può certo obbligare qualcuno ad agire contro la coscienza, neppure un genitore con dei figli. Perché dirlo allora? È prudente parlare a vuoto? Può essere questo l’esempio dato dai Vescovi del Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana?
Non credo proprio che una scelta controcorrente (e questa di cui si parla, in certa misura, lo sarebbe e lo è), possa seriamente motivarsi adducendo “libertà di voto”, “autonomia”, “pluralismo”. Va scomodato, seriamente, un principio più serio ed esigente, e cioè il dovere di «agire secondo le convinzioni della propria coscienza». Se esistono, esse vanno dette e spiegate da chi la scelta la fa, e vanno rispettate da chi non la fa.
Davvero voi credete che potrebbe venire del bene se cittadini, attenti e informati di tante cose, tra cui certamente anche il magistero della Chiesa cattolica, agissero contro le convinzioni delle loro coscienze? Perché non vi limitate a dire quanto pensate sia giusto e opportuno, e non vi affidate ai liberi e responsabili convincimenti delle persone, di tutte le persone ? Non ricordate che anche ai tempi difficili e impegnativi degli attivissimi Comitati civici (da voi promossi in ogni parrocchia), lo slogan centrale era “Votate, Votate bene, Votate uniti”, e ci si fidava che la faccenda funzionasse? Essa funzionava perché allora ve ne erano molte ragioni, e abbastanza convincenti.
Perché oggi, a mezzo secolo di distanza, vi appalesate più invadenti, o più spaventati? La vostra nota del 28 marzo, in realtà, è molto ben scritta e su una sessantina di righe, quasi cinquanta sono a mio parere sagge e utili da leggersi: ma il veleno della paura e dell’illusione infetta un paio di periodi là dove avete voluto indicare, a cittadini e parlamentari italiani, un obbligo di obbedienza specifica.
Con questa indicazione, di sapore letteralista, io penso raccoglierete pochissimo e disperdete molto di più, in termini di autorevolezza e credibilità subito, e forse di consenso sociale profondo, domani. Se non ci saranno correzioni pastorali adeguate.
L’obbedienza alla quale alludete non ha fondamenti costituzionali nelle regole della nostra Repubblica, e questo penso sia chiaro a tutti, voi compresi.
Ma non mi pare abbia legittimità neppure nell’ambito della disciplina ecclesiale, così come è normata. La Chiesa ci ha sempre insegnato che non si può obbligare neppure a “credere”, con tutta l’enorme grandezza di significati e rilevanza di conseguenze che ha la fede cristiana: o si crede o non si crede.
Magari si crede poco e male, ma la fede o è un fatto vivente, o è un mentire.
Per simmetria e parità non si può, neppure a fin di bene, obbligare ad agire contro una convinzione di coscienza, contro una propria “competenza” civile o professionale. Perché delle proprie azioni ciascuno è sempre personalmente responsabile.
Un cristiano non può certo obbligare qualcuno ad agire contro la coscienza, neppure un genitore con dei figli. Perché dirlo allora? È prudente parlare a vuoto? Può essere questo l’esempio dato dai Vescovi del Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana?
