Appunti 1_2008
La questione salariale e la politica
› Intervista a Roberto Schiattarella di Rosario Iaccarino
La questione salariale resta un nodo centrale per il futuro del paese; da un lato infatti nell’ultimo quindicennio la ricchezza prodotta è andata sempre più a vantaggio di rendite e profitti, riducendo la quota dei salari sul reddito prodotto e indebolendo i lavoratori dipendenti; dall’altro, per una serie di motivi strutturali, è andata aumentando la forbice sociale. Ritorna dunque con forza la necessità di coniugare equità e sviluppo di lungo periodo, proteggendo i salari attraverso una giusta politica dei redditi, spingendo le imprese a reinvestire in economia più che in finanza e riequilibrando in modo sano il mercato del lavoro.
Nel nostro paese è tornata alla ribalta la «questione salariale»; si ha tuttavia l’impressione, visto che a porla non è solo (legittimamente) il sindacato ma anche gli imprenditori e perfino la Banca d’Italia, che venga agitata anche per altri fini oltre a quello di irrobustire la crescita economica sostenendo i consumi: ad esempio, per condizionare il dibattito sulla riforma del sistema contrattuale oppure perché venga ridotta la spesa sociale per compensare un’eventuale riduzione delle imposte sulla busta paga. Lei come vede la questione?
Non c’è dubbio che in Italia da molti anni si ponga una questione salariale. E la si pone ad un doppio livello. Da un lato sotto un profilo congiunturale. Se le maggior parte delle famiglie hanno redditi che crescono poco o nulla è difficile pensare che lo sviluppo della domanda possa essere garantito dai redditi di una parte ristretta della società; e, di conseguenza, è difficile pensare ad una crescita economica sostenuta. Dall’altro in termini di più lungo periodo. La politica dei redditi, pur in presenza di un sindacato non remissivo, si è trasformata col tempo in una politica di contenimento dei salari. Ha probabilmente avuto successo come strumento di lotta all’inflazione ma è fallita nella sua funzione di garanzia dei redditi delle parti coinvolte. L’obiettivo di un progetto che voglia coniugare equità e sviluppo di lungo periodo non può che essere quello di individuare nuove regole, di pensare ad una nuova politica capace di correggere i limiti dell’esperienza del passato; più capace di quella appena sperimentata di garantire la crescita dei redditi della parte meno forte della società. Ma se non si passa per una esplicita riflessione sui problemi che ci lascia una politica dei redditi durata quasi quindici anni, è molto difficile che questo progetto possa prendere corpo.
La moderazione salariale degli ultimi quindici anni, cui faceva riferimento è conseguenza dell’accordo del luglio del 1993 sulla politica dei redditi che, se ha consentito al nostro paese di uscire da una fase economica assai critica, si è rivelato insufficiente a garantire un’equa redistribuzione delle risorse, se come dicono le statistiche la (scarsa) ricchezza prodotta in questi anni è andata soprattutto a vantaggio di rendite e profitti. In che direzione bisognerebbe intervenire per invertire tale tendenza?
Credo che la constatazione, molto pertinente, contenga in sé già la risposta. La politica dei redditi degli anni Novanta ha reso possibile una forte crescita dei profitti. Crescita che ha comportato una riduzione della quota dei salari sul reddito prodotto. La politica di moderazione di alcuni si è trasformata nel vantaggio di altri. E ciò era esattamente quello che aveva previsto Federico Caffè all’inizio degli anni Ottanta, al tempo del referendum sulla scala mobile. Dal punto di vista dell’interesse generale credo che le questioni da affrontare siano almeno tre. La prima, cui ho già fatto cenno, è relativa ad un nuovo progetto di politica dei redditi capace di coniugare lo sviluppo, il contenimento dei prezzi e la tutela dei redditi da lavoro dipendente. La seconda afferisce al modo in cui vengono utilizzati i profitti in un contesto di mercati finanziari integrati a livello internazionale. Fino agli anni Ottanta, infatti, era molto ragionevole ipotizzare che una fase di alti profitti avrebbe spinto le imprese verso una politica di maggiori investimenti. La crescita dei profitti degli anni Novanta viceversa non ha comportato grandi variazioni nella politica di investimento delle imprese, in parte per i caratteri specifici del mondo imprenditoriale italiano, in parte perché i mercati finanziari offrono infinite possibilità di investimento alternativo che non possono che diminuire il legame tra i luoghi di formazione delle risorse (i profitti) ed i luoghi di impiego delle risorse stesso (gli investimenti nell’impresa). La terza questione riguarda il mercato del lavoro.
A proposito di quest’ultima questione, possiamo dire che il fenomeno tutto italiano della «occupazione senza crescita» sia l’altra faccia della questione salariale? Più individui infatti dividono fra loro — in presenza peraltro di forti disuguaglianze legate alla posizione occupata nel mercato — una torta che cresce poco. Non crede che sulle questioni del mercato del lavoro andrebbe mutato un approccio che tende a rendere più flessibile e meno costosa l’offerta di lavoro per le imprese poco innovative?
Certo, anche questo fenomeno è un effetto della politica di moderazione salariale. La cultura degli ultimi anni sembra tendere ad una conclusione. Tutto ciò che va bene alle imprese, va bene anche dal punto di vista dell’interesse generale. I limiti di un approccio di questo tipo ai problemi dell’economia sono evidenti proprio in relazione alla nuova legislazione sul lavoro. Non c’è dubbio infatti che una maggiore flessibilità nel modo di regolamentare i rapporti di lavoro abbia contribuito a favorire lo sviluppo dell’occupazione. Ma ha anche reso facile in molti casi (insieme alla moderazione salariale) la realizzazione di profitti per le imprese senza la necessità di grandi investimenti. In qualche modo ha allentato quei vincoli che derivano dalla concorrenza e che sono il motore del cambiamento, dell’innovazione. Il risultato è stato che si è allargata una fascia di produzioni a basso contenuto di produttività e di salario con la conseguenza di una dinamica perversa della produttività a livello aggregato di sistema.
Ragionando sulle terapie, si discute molto della (giusta) riduzione del peso del fisco sulla busta paga; rimangono invece un po’ in ombra le questioni strutturali che rallentano la crescita della produttività nel nostro paese e di conseguenza l’incremento delle retribuzioni. Lei ha condotto una serie di ricerche sulle cause del declino italiano dalle quali tuttavia emerge che non è il costo del lavoro, né la (presunta) mancanza di flessibilità del lavoro, né la presenza del pubblico nell’economia a giustificare le performance scadenti del nostro sistema economico. Allora qual è la radice del declino italiano?
La mia impressione è che la nuova attenzione alla cultura dell’impresa — certo non negativa in sé — abbia finito per far sottovalutare i problemi dell’apparato produttivo italiano o almeno a semplificarli. È indiscutibile infatti che una parte dei problemi di competitività del sistema italiano sia in una certa misura legata all’esistenza di settori «protetti» dal mercato, di aree di cosiddetta rendita che consentono la sopravvivenza di situazioni di inefficienza. Ma l’idea di una contrapposizione tra imprese buone ed efficienti, quelle che operano in condizioni di mercato, e imprese cattive e inefficienti, quelle che operano sui mercati protetti, è assolutamente poco convincente. Basta pensare, a questo proposito, ai risultati della stagione delle privatizzazioni che ha visto un progressivo consolidarsi di un intreccio tra settore esposto alla concorrenza e settore non esposto. O basta guardare ancora al fatto che negli anni duemila la crescita dei prezzi nell’industria italiana è stata nettamente superiore a quella che si è realizzata negli altri paesi europei nonostante una dinamica più bassa del costo del lavoro per unità di prodotto. La verità è che nel dopoguerra la classe dirigente del nostro paese, cosciente dei limiti esistenti nelle capacità imprenditoriali, aveva sviluppato il proprio progetto politico anche in funzione del loro superamento. Oggi è vero che il ritardo del nostro sistema imprenditoriale è infinitamente minore di cinquanta anni fa, ma è anche vero che sempre nuovi problemi si pongono in mercati internazionali in cui la competizione è molto più accentuata che in passato e richiede competenze sempre più complesse.
Allargando la riflessione, vorrei chiederle cosa pensa dell’approccio ai problemi dell’economia che il Partito democratico nascente sta mostrando? Lei ha scritto un originale e puntuale saggio su «La sinistra e l’economia in Italia» apparso recentemente sulla rivista «Democrazia e diritto» nel quale alla fine di un excursus storico conclude che oggi le differenze con la destra in campo economico sono di grado e non di approccio ai problemi, che vige una sorta di conformismo della sinistra alle ricette dominanti e che è scomparsa dall’agenda politica la questione del rapporto tra interessi economici e politici. Perché è così severo?
Perché la riscoperta da parte di alcune componenti della sinistra della necessità in Italia di una «rivoluzione» liberale non può che lasciare perplessi. E non tanto perché non sia vero che nel nostro paese la cultura liberale, al di là delle dichiarazioni di facciata di imprenditori e politici, sia stata assolutamente marginale. Ne è una testimonianza il fatto che una istituzione fondamentale per il funzionamento del mercato come l’antitrust sia nata in Italia in pratica cento anni dopo che negli Stati Uniti. Il problema vero tuttavia è se una cultura liberale, almeno nell’accezione attuale, sia in grado di dare risposte a questioni come quella dell’uguaglianza che sono, a giudizio di chi scrive, fondanti dell’identità della sinistra. La stessa fiducia nel mercato è sembrata col tempo trasformarsi in una delega al mercato stesso del progetto del futuro, in una rinuncia della politica ad immaginare un percorso di cambiamento e i suoi possibili punti di arrivo. Senza l’apparente consapevolezza che il mercato, per definizione, non può avere alcun progetto di futuro e che, in assenza di progetto, l’unica cosa che diventa probabile è che gli interessi forti (legittimi) finiranno col condizionare in maniera decisiva percorsi e punti di arrivo. Con gli ovvi dubbi sul fatto che questi possano coincidere con l’interesse generale del paese e con la realizzazione delle condizioni per lo sviluppo di lungo periodo.
