Appunti 1_2008

                           

Una problematica svolta mancata: l’Italia verso le elezioni

Guido Formigoni

Avevamo deciso da tempo di lanciare in questo numero un ampio «focus» sul nuovo Partito democratico, con viva attenzione non disgiunta da alta preoccupazione per quello che cominciavamo a vedere. Siamo a presentarlo nel contesto di una  crisi politica che non ha altro sbocco che un triste ritorno alle urne.  Cerchiamo quindi di inquadrare il discorso sul Pd in un’analisi dell’attuale delicatissimo momento storico-politico. C’è infatti una diffusa richiesta di pensiero e di prospettiva, per non lasciarsi prendere dallo sconforto sulla nequizia dei tempi.

Che il governo Prodi fosse appeso a un filo lo sapevamo da tempo: la modalità con cui è stato affondato, però, accumula sconsolazione e pessimismo. Si è rappresentata una classe politica che balla impunemente sul filo di personalismi e volgarità, proprio nel momento in cui è al livello più basso da sempre nella considerazione del paese. Anche i segnali di coerenza e rigore dati dallo stesso Prodi, compresa la sua dignitosa uscita della scena politica (al momento attuale),  oltre al comportamento lineare delle autorità istituzionali, non valgono a lenire una ferita che si è aperta nei giorni di gennaio in Senato.
Ma al di là di questa congiuntura decadente che ammorba l’aria del paese, potremmo dire che il passaggio che stiamo vivendo è un passaggio storico cruciale per il sistema politico? Il rimescolamento delle carte con la nascita di nuove formazioni partitiche è il più elevato dal 1994 ad oggi. Di più: qualcuno ha addirittura rapidamente evocato la fine della «seconda repubblica». Cosa c’è di vero? Come sapete, a noi non è mai piaciuto il vezzo di numerare le fasi del sistema, perché la svolta del 1993-’94 non ha causato nessuna discontinuità del sistema istituzionale e costituzionale complessivo, ma solo una modificazione profonda del sistema politico. Ma tant’è: oggi il sistema politico è in una nuova fase di sommovimento reale o si tratta solo di increspature di superficie? La nostra impressione è che siamo stati vicini a una svolta (peraltro problematica), che l’accelerazione della crisi di governo ha però imbalsamato e in parte fatto rientrare.

Forme istituzionali e sostanza politica

Per capire questa «svolta mancata», il problema è sempre collegare le scelte istituzionali e quindi il complesso dibattito sulle «regole» del sistema, con l’analisi serrata delle condizioni politiche, delle scelte e delle capacità dei vari protagonisti. Non esiste infatti una tecnica elettorale o costituzionale che possa forzare il sistema politico più di tanto. Le tecniche costituiscono come delle chiuse in un sistema di canalizzazione, che però vengono riempite a seconda dei contenuti e delle risorse degli attori: se non c’è acqua, hai voglia ad aprire la chiusa…
Qual è il punto chiave del dibattito aperto qualche mese fa tra le forze politiche? Diciamolo schematicamente, a costo di forzature. Il maggioritario introdotto dal 1993 ha garantito l’alternanza scelta dai cittadini, ma non la governabilità reale del paese. Erano due promesse congiunte: la prima è stata sostanzialmente realizzata, la seconda complessivamente tradita. Dal 1994 al 2006 abbiamo infatti votato secondo una certa logica. Che è stata quella di un bipolarismo sempre più rigido e di una certa connessa verticalizzazione della politica. La legge elettorale imposta dalle destre nel 2005, il cosiddetto Porcellum di Caldiroli, checché se ne dica, non ha modificato radicalmente il quadro del Mattarellum del 1994. Per carità, è una legge fatta male, con l’assurdità dei premi di maggioranza regionali al Senato, i livelli di sbarramento solo cosmetici e si potrebbe dire molto altro… Le liste bloccate — contro cui ora si levano molti strali — non sono però molto diverse a mio parere dai precedenti collegi uninominali: anche in quel caso le candidature erano decise dall’alto in modo rigorosamente centralizzato (a parte un quarto scarso dei collegi marginali combattuti, i capi dei partiti potevano far eleggere anche prima chi volessero in collegi sicuri, a prescindere da ogni sbandierato nuovo rapporto tra elettori ed eletti!). Insomma, i due sistemi, relativamente a questo punto, differiscono solo per grado, non per genere.
Il punto vero ci sembra un altro: la svolta proporzionale del 2005 riguardava solo la modalità di redistribuzione dei seggi tra i partiti, mentre non mutava affatto l’approccio bipolare e maggioritario con cui il sistema si presentava all’elettorato. Anzi, tale riforma per qualche verso rigorizzava il principio della presentazione all’elettorato di una proposta di governo incarnata in coalizioni, in quanto prevedeva il premio di maggioranza connesso a una dichiarazione di convergenza su un «unico capo delle coalizioni». L’elettore, insomma, tendeva ancora e sempre più a votare non tanto per un partito ma per un governo, anzi per un leader (evitiamo per favore la traduzione in tedesco o in latino italianizzato…) cui affidare la guida del governo.

I limiti del maggioritario gestito da una politica debole

Cosa è successo nel dibattito politico degli ultimi mesi? Che ci si è resi ampiamente conto che questa stagione politica aveva appunto avuto il vantaggio di «restituire lo scettro al principe», facendo scegliere direttamente l’elettore, rispetto ad alternative di governo apparentemente chiare prima del voto. Ma non era affatto privo di altri punti critici. In particolare, prevedendo la contrapposizione di due coalizioni senza alternative, era venuto a costituire un gioco a somma zero. Ogni spezzone di consenso od ogni scheggia di classe politica persi dalla mia coalizione erano di per sé regalati all’avversario, nell’ottica della classe politica. Quindi, si sono ovviamente privilegiate le esigenze di ampliare al massimo le coalizioni per vincere le elezioni. Con il risultato della loro frammentazione ed eterogeneità: in seguito queste coalizioni si sono rivelate faticosamente  capaci di convergenza reale su un’azione di governo. Naturalmente, soprattutto i cosiddetti autoproclamati moderati di centro hanno sguazzato in questo sistema: quante volte ha cambiato fronte Mastella, prima dell’ultimo coup de théatre? Ma non solo loro, anche spezzoni di destra estrema o sinistra estrema sono stati imbarcati da coalizioni e singoli partiti, frammentando poi la rappresentanza il giorno dopo le elezioni. Vi ricorderete Berlusconi che diceva: non mi lasciano governare? La crisi Tremonti dell’estate 2004? I mal di pancia dei trotzkysti sulle missioni militari? E via di questo passo.
Era una deriva obbligatoria e in qualche modo insita nelle regole originarie? No, ma era il frutto di un adattamento alle regole da parte di una politica strutturalmente «debole», insicura di sé, che né a destra né a sinistra, al di là di proclamazioni di principio, aveva una coscienza solida di essere in grado di costruire consenso allargato nel paese. Per la sinistra, o il centro-sinistra, questo discorso è addirittura palese: non riuscendo a superare del tutto i fantasmi del proprio passato, che la consegnavano a una irriducibile condizione di minoranza nel paese, ci si è affidati a una concezione dell’Ulivo-Unione come mero «comitato di liberazione anti-berlusconiano», per certi versi ampiamente comprensibile di fronte alle aberrazioni del ruolo politico dell’imprenditore-tycoon, ma alla lunga di scarso respiro, perché poco capace di produrre progressivamente omogeneità politica. Ma anche la destra, che invece si sente ampiamente maggioranza nel paese, è tutt’altro che dotata delle capacità politiche e amministrative che occorrerebbero per saldare alcuni sotterranei conflitti nel proprio «blocco sociale» di riferimento: si pensi alla contraddizione tra le esigenze dell’impresa ad avere manodopera extracomunitaria e le xenofobie delle piccole comunità di periferia; oppure alle tensioni tra statalismi degli apparati burocratici di riferimento e ultraliberismi del «popolo delle partite iva». In sostanza, sono queste debolezze parallele che hanno condotto alla paralisi del sistema, consegnato in ostaggio a singoli manovratori o abilissimi frequentatori di corridoi parlamentari.
Il referendum Guzzetta — se avesse mai vinto di fronte all’elettorato — non avrebbe modificato drasticamente questo schema tendenziale (come nessuna altra magica regola elettorale potrebbe fare, da sola, per la verità). Infatti, accanto a scelte molto giuste come la eliminazione della possibilità di candidature multiple nei diversi collegi (cosa che ha permesso con il gioco delle opzioni di gestire ancor più scandalosamente dal vertice i nomi degli eletti), il referendum si limita a cancellare la possibilità delle coalizioni. E quindi il premio di maggioranza andrebbe solo al partito che prendesse più voti. Ma delle due l’una: o i singoli partiti in questo caso correrebbero l’alea di andare ciascuno da solo di fronte all’elettorato (a rischio di sonore sconfitte), e il risultato sarebbe tale da dare il 55% dei seggi a partiti che potrebbero prendere, che so io, il 30% dei voti (il Pdl berlusconiano o il Pd è realistico che non superino di molto questa soglia), con un risultato di distorcimento maggioritario tale da far impallidire la legge Acerbo di mussoliniana memoria. Oppure, nessuno si sentirebbe in grado di correre questo rischio e si ricreerebbero «listoni» camuffati da partito, con le bande all’assalto della diligenza e gruppi e gruppetti pronti il giorno dopo le elezioni a comportarsi in modo autonomo in parlamento. A nulla vale dire che i soggetti ci penserebbero a tradire il mandato elettorale: perché qualcuno degli one man parties sopra citati negli ultimi anni ha avuto di queste remore?

L’ipotesi di svolta: alla ricerca di accordi più solidi

Ecco perché sembrava maturare abbastanza ampio e generalizzato un consenso attorno a un discorso di modifica della legge elettorale che andasse in senso proporzionale, abolendo i premi di maggioranza. I partiti maggiori sembravano decisi (a partire dalla indubbia forzatura realizzata da Veltroni con il dialogo diretto con Berlusconi), quelli intermedi anche: restavano solo i piccoli inquieti. Anche alcuni pasdaran del maggioritario sembravano esserne diventati convinti (si pensi alla proposta presentata da Salvatore Vassallo, maturata da ambienti di giuristi del Pd che precedentemente erano degli ultras  dell’uninominale maggioritario). Quale sarebbe stata la logica di questa svolta? L’innovazione ci sarebbe stata, eccome. La definirei così: uno scambio tra la cessione da parte dei cittadini della decisione sul governo e la promessa di coalizioni di governo meno frammentate e più solide. Infatti, il proporzionale senza premio di maggioranza — per dirla brutalmente — fa tornare a scegliere un partito, al cui vertice si affida poi la scelta delle coalizioni di governo da costruire in parlamento, a seconda delle condizioni realizzate con le elezioni. Contestualmente, si pensava di ridurre la frammentazione politica attraverso una certa razionalizzazione, che si sarebbe ottenuta attraverso meccanismi diversi (soglie di sbarramento, o collegi geograficamente ridotti senza recupero nazionale dei resti, a seconda della preferenza per modelli tedeschi o spagnoli, ma queste sono technicalities in fondo irrilevanti, se non per cambiare le opzioni possibili dei diversi partiti minori, che in un caso o nell’altro sarebbero sfavoriti o avvantaggiati).
In questo modo si ipotizzava tra un numero ridotto di più solidi e autonomi partiti di poter realizzare coalizioni meno eterogenee e quindi più durature nella capacità di realizzare assetti di governo convincenti. Era un mero auspicio, non una realtà,  si badi bene, ma insomma di fronte a un fallimento evidente, a volte basta un auspicio per muovere i consensi. E le convergenze apparivano molto ampie solo qualche settimana fa. Non si poteva dire che il passaggio politico non avesse una sua coerenza.
Sciogliamo l’aspetto solo formale del discorso fin qui condotto: in questa logica sia l’Udc che An avrebbero potuto portare a compimento lo sganciamento dall’ingombrante leadership berlusconiana, mentre specularmente Forza Italia avrebbe potuto procedere ad aggiornare il proprio look senza dipendere dai riottosi alleati (vi ricordate il comizio di San Babila dell’uomo di Arcore, con la proposta estemporanea di un nuovo partito, dovuta proprio all’insofferenza verso i lunghi tira e molla sul partito unico della destra: sembra preistoria, ma era solo qualche settimana fa!). Tanto più che ormai l’asse «tremontiano» Fi-Lega si è sempre più chiaramente qualificato come la componente realmente «estremista» della coalizione, mentre gli altri due partiti potevano sperimentare un accordo tra loro e un’azione parlamentare più autonoma (a parte il problema costituito dalla persistente base neofascista del partito di Fini, ma non tutto si può avere dalla vita). A sinistra, la separazione consensuale nell’Unione avrebbe liberato un Pd ormai fuori dall’interminabile processo di aggregazione costituente, dandogli la possibilità di competere senza il «contrappeso» costituito nell’ottica di molti dirigenti dalla cosiddetta «sinistra radicale». La quale a sua volta avrebbe potuto presentarsi libera da sirene governiste, dopo un processo di aggregazione che per la verità procede stentato e lento. Una volta visto il risultato, si sarebbe potuto riproporre una coalizione di centro-sinistra con una maggior forza del partito-perno (questa, secondo i bene informati, sarebbe fondamentalmente l’aspettativa di Veltroni e del gruppo dirigente che attorno a lui ruota), oppure giocare ad allargare gli accordi di governo al centro (in questa direzione dicono vadano piuttosto le simpatie di D’Alema), fino addirittura a una (peraltro improbabile) Grosse koalition con Berlusconi.
Insomma, in questo dibattito stava un nodo del tutto critico dell’attuale situazione politica. Che come avete probabilmente capito, non era solo un problema di regole, ma di prospettiva intera di sistema. Dal nostro punto di vista, la valutazione di questa svolta non poteva essere senza riserve serie, in quanto lo scambio tra responsabilizzazione dell’elettorato e governabilità è un scambio rischioso: c’era lo spettro di un ritorno a giochi di palazzo riservati e incomprensibili per gestire le maggioranze di governo. Per altro verso, però, senza una inversione netta di tendenza nella debolezza politica degli attori principali del sistema, era chiaro che dalla crisi era difficile uscire. Detto in altre parole, il problema vero stava e sta a monte di questo dilemma, in una politica che si trova in difficoltà a mediare le istanze sociali e le dinamiche interne allo stesso ceto dei professionisti, e che quindi abdica alla possibilità di tenere responsabilmente insieme capacità di governo dei problemi e rendicontazione agli elettori.

L’accelerazione della crisi

Questo percorso si è interrotto a causa della insostenibilità della situazione del Senato (frutto della consapevole decisione della precedente maggioranza di «avvelenare i pozzi» per non lasciar governare i vincitori), della accelerazione mastelliana (forse in vista del rischio-referendum, oppure in vista di una riforma proporzionalista che l’avrebbe comunque costretto a qualche fusione) e forse anche delle difficoltà del governo Prodi a far emergere in modo convinto e organico i meriti dai frutti della propria azione. Essendo interrotto il processo, la svolta di sistema è fallita.  Si è precipitati verso elezioni al buio, in quanto si terranno con le vecchie regole, ma con gli attori ormai impegnati in un gioco di dislocazioni avviato da tempo.
Che ci aspetta, quindi? Staremo a vedere come ci si avvicinerà concretamente alle elezioni. Scriviamo quando le bocce non sono ancora ferme, infatti. La linea proposta con enfasi da Veltroni sulla partecipazione del Pd da solo alle elezioni (per dare l’idea di una coerenza del progetto di governo, non sottoposto a mediazioni stiracchiate con altre forze), se aveva un senso nell’ipotesi di una svolta sistemica come quella sopra delineata, è un azzardo inconcepibile con le vecchie regole, una sorta di suicidio programmato. Tanto più che la sirena elettorale ha invece rapidamente ricompattato la destra, dopo mesi occupati a scambiarsi parole di fuoco. Ma come? La posizione di Fini e Casini che si sono subito riallineati è apparsa biecamente opportunistica: vien quasi un moto di simpatia per Tabacci e Baccini che erano rimasti fermi sulle posizioni faticosamente maturate e si sono trovati soli. Se non fosse per l’improvvido scippo del nobile nome Rosa Bianca, altro segnale di una politica superficiale e arrogante che per un passaggio televisivo e un sussurro di rinascita democristiana svende memorie, realtà, trame sociali consolidate.
Inopinatamente, ci troviamo di fronte alla nuova prospettiva di una campagna elettorale condotta da un Berlusconi tronfio di vittoria attesa: speravamo che il tempo avesse allontanato questa prospettiva. Sullo sfondo di questa situazione, rimpiangiamo ancora di più che il governo Prodi non sia riuscito a porre sulle proprie gambe delle regole moderne sul conflitto d’interessi e sulla «questione televisiva», che avrebbero sgombrato il campo da inaccettabili condizioni di inquinamento della vita pubblica.
Ci sarà comunque almeno una svolta sistemica parziale, con lo stimolo offerto a tutti proprio dal nuovo ruolo del Pd? È presto per dirlo. Berlusconi ha giocato addirittura al nuovo anche lui, acquisendo l’inglobamento di An nella nuova lista del Partito delle libertà (ma dopo le elezioni cosa succederà?), mentre ha negato all’Udc di coalizzarsi con il proprio simbolo e la propria lista. Quindi, i centristi di Casini, dopo la scelta subalterna compiuta in occasione della crisi di governo, si sono trovati forzati a correre da soli contro la propria volontà.
Quello che è certo è che la nascita del Pd in un modo, piuttosto che in un altro, è parte integrante del problema sistemico. Il discorso veltroniano del partito «a vocazione maggioritaria» che si impegna da solo su un progetto di governo, non si può reggere solo sulle indubbie abilità di surfista della comunicazione del segretario plebiscitato. Dovrebbe mostrare risorse molto maggiori di quelle finora emerse, per poter sfondare nei cuori e nelle menti degli italiani. Dovrebbe rappresentare un messaggio veramente forte e innovativo, con scelte conseguenti di persone e idee. Se emergerà una forza politica convinta, coesa, dotata di una propria interpretazione condivisa delle grosse questioni che oggi stanno di fronte ai governi nei paesi occidentali, capace di rivitalizzare un circuito democratico tra società e politica, allora ci saranno le premesse per un nuovo ruolo autonomo di guida, e conseguentemente anche le risorse per articolare il sistema ed evitare il dilemma pericoloso sopra descritto (lo scambio tra alternanza e governabilità). Altrimenti, se prevarranno logiche di perpetuazione del ruolo di ristrette oligarchie, difese di interessi parziali, afasie sui grandi problemi pubblici, generici balbettamenti in nome di valori del tutto astratti, ripiomberemo nel circuito vizioso della «politica debole», che nessuna regola elettorale potrà mai salvare. E l’autonomia rivendicata dal Pd costituirà solo l’ancora di salvataggio per qualche parlamentare, all’interno di una sconfitta annunciata. I materiali di questo numero, che offriamo ad una ampia discussione, cercano di stimolare un salto di qualità proprio in questa direzione.