Appunti 6_2007

Cittadini, semi-cittadini, ospiti: il «decreto antiromeni»

Alberto Guariso

Le recenti polemiche attorno al delicato tema delle espulsioni e degli allontanamenti di cittadini rom, europei a tutti gli effetti, hanno sollevato un problema che va al di là della presenza di gruppi o stranieri «poveri», culturalmente percepiti come «altri» o mediaticamente «poco graditi». La questione tocca infatti il futuro stesso dell’Europa e la sua capacità di gestire confini e flussi di persone. Dal cosiddetto «decreto anti-rom» si arriva a riflettere sul tema della cittadinanza, del diritto alla mobilità e del binomio «casa-lavoro».

Anche in occasione del «decreto antiromeni» (il decreto-legge n. 181 del 1° novembre scorso), come troppo spesso accade nel nostro agone politico, la discussione ha preso rapidamente i toni della rissa inconcludente. Già l’avvio del dibattito non prometteva nulla di buono, marchiato com’era dal vizio originario di una decisione in tema di «espulsioni» adottata in via d’urgenza con il dichiarato obiettivo di reagire ad un evento (l’efferato assassinio di Roma) che con le espulsioni non aveva nulla a che vedere, essendo noto a tutti, già sulla base del buon senso comune, che chi commette un delitto deve essere processato e condannato sul territorio italiano (come già accade da sempre, secondo il nostro diritto) e non certo espulso o consegnato ad altri, con il rischio di perderne poi le tracce.
Ma il seguito è stato anche peggio; soprattutto quando politici, commentatori e notisti hanno cominciato a discutere se il decreto rappresentasse un punto a favore del nascente Partito democratico, o se l’una o l’altra modifica del testo potesse rappresentare un colpo basso a Veltroni, una vittoria di Rifondazione comunista o un pareggio per Prodi: con ciò dimostrando che nella piccola provincia italiana i problemi della libertà di circolazione all’interno dell’Unione europea — a partire dai quali i padri dell’Europa cominciarono l’avventura di una nuova «nazione» — sono per noi solo un fastidioso accidente rispetto alla tanto più elevata e appassionante diatriba del teatrino nostrano.
Eppure quella discussione — estrapolata dal teatrino e ricondotta ai suoi riferimenti concreti — poteva e può ancora essere fondamentale per la nostra coscienza civile: ci impone infatti di determinare i confini di «casa nostra», i confini all’interno dei quali alcuni possono entrare e restare liberamente, siano essi ricchi o poveri, graditi o sgraditi (e sono questi i titolari della «cittadinanza» in senso giuridico); altri no. Fino ad ora la diatriba su questo punto aveva avuto una soluzione relativamente semplice: entrano coloro ai quali viene concesso di entrare, nei limiti numerici stabiliti di anno in anno in relazione alle esigenze del nostro sistema economico; quando l’ammesso non risponde ai requisiti richiesti, perché diviene povero, disoccupato, o forse perché delinque, ecco il diritto dello Stato di accompagnarlo alla porta (l’espulsione).
È questa, come noto, la struttura portante della disciplina per i cittadini di paesi «non UE». Su di essa molto c’è e ci sarà da discutere, ma è indubbio che essa offre — sul piano teorico — uno schema rassicurante, garantendo che povertà/diversità/illegalità possano essere messe alla porta ogni qualvolta lo Stato lo decida.

Rom, romeni e libera circolazione nell’Ue

La vicenda «rom» — che coinvolge in gran parte cittadini comunitari — scompiglia invece le carte: soggetti vissuti nel sentire comune come molto più lontani e molto più sgraditi di tanti extracomunitari, si scoprono invece titolari di una «cittadinanza» per certi aspetti identica alla nostra (la nozione di «cittadinanza europea» è stata formalmente istituita con il Trattato di Mastricht e campeggia oggi nell’art. 17 del Trattato stesso) e conseguentemente di uno status che fornisce loro diritti sconosciuti ai cittadini non Ue: certamente (come vedremo subito) il diritto di ingresso e in qualche misura anche il diritto di permanenza.
Lo schema ammissione/espulsione si rompe improvvisamente e si prospetta così la fastidiosa ipotesi che ci siano forme di povertà/diversità/illegalità «non italiane» che devono essere gestite e affrontate e non possono essere semplicemente messe alla porta. Il che certo sovverte molte abitudini mentali: in un contesto in cui persino la povertà dei «cittadini» fatica a essere riconosciuta e tollerata (la vicenda dei lavavetri ha fatto emergere qua e là la tentazione di risolvere il problema rispolverando il «divieto di mendicità» vigente agli inizi del secolo scorso, che la Corte Costituzionale ha da tempo dichiarato incompatibile con la nostra Costituzione), sembra ancora più inconcepibile che debba essere tollerata la povertà degli «ospiti». La questione ruota dunque attorno alla nozione di cittadinanza e alla definizione di chi è ospite e chi non lo è: e certo non sarà facile venirne a capo in un paese afflitto da forme esasperate di municipalismo, capace talvolta di considerare ospite persino chi viene dal comune a fianco.
Vediamo dunque di rimettere in ordine i dati del problema. La libertà di circolazione all’interno dell’Unione europea è collocata tra i principi fondamentali del Trattato con riferimento primario al cittadino-lavoratore (art. 39 del Trattato), con ciò volendosi tutelare insieme un diritto di libertà individuale, ma anche il principio di libera concorrenza economica. Altra cosa è il diritto di mobilità del cittadino europeo «in quanto tale» e dei suoi familiari, per il quale una disciplina organica, dopo numerosi interventi frammentati di regolamenti e direttive, si è avuta solo con la direttiva n. 38 del 2004, che è stata recepita in Italia con il Decreto Legislativo n. 30 del 6 febbraio 2007. Questi due provvedimenti contengono già gran parte delle risposte ai due nodi problematici che hanno tenuto il campo in queste settimane: quello dell’allontanamento di soggetti «pericolosi» e quello dell’allontanamento di chi non abbia mezzi di sostentamento.
Quanto ai primi va subito ribadito che la problematica non riguarda coloro che abbiano commesso reati, i quali, come si è detto, devono essere processati e scontare la pena in Italia (salvo che sia lo stesso giudice penale a decidere diversamente) ma coloro che, pur non essendo responsabili accertati di reati o avendo già scontato una pena, rappresentino pur sempre un generico «pericolo» per la sicurezza pubblica: il che già complica non poco la questione.
E la questione si complica ulteriormente ove si consideri che per la normativa comunitaria l’ingresso è un diritto non assoggettabile a limitazioni (basta il possesso di un documento di identità) e le successive limitazioni alla permanenza costituiscono prescrizioni assolutamente eccezionali, che vengono perciò circondate da infinite cautele: il provvedimento di allontanamento non è mai automatico (secondo la direttiva, «la sola esistenza di condanne penali non giustifica automaticamente l’allontanamento») deve essere «personalizzato» (occorre tener conto dell’età della persona, del suo stato di salute, della sua condizione familiare ecc.) e deve costituire comunque una limitazione «proporzionata» alle esigenze che lo Stato membro vuol salvaguardare: ovvio dunque l’assoluto divieto di qualsiasi allontanamento di massa o anche solo adottato senza la considerazione di tutti questi elementi. Poste queste cautele, l’allontanamento (si chiama proprio così, non espulsione) è ammesso, così come è ammesso il divieto di reingresso, che infatti il D.Lgs. n. 30 fissa in 3 anni.
Fin qui era tutto già previsto dal febbraio scorso sicché ci sarebbe da chiedersi il perché di tutte queste tensioni politiche attorno a un decreto d’urgenza che sul punto non modifica gran che: vi era, è ben vero, l’esigenza di alcuni correttivi tecnici (nel D.Lgs. 30 l’allontanamento per motivi di ordine pubblico spettava al ministro anziché al prefetto, il che complicava e rallentava il procedimento), di un miglior raccordo tra allontanamento e eventuale procedimento penale, ma per il resto il decreto legge non fa che introdurre una complicata graduazione, la cui utilità pratica appare discutibile: così ad esempio viene introdotta, per i casi più gravi, la nozione di «motivi imperativi di pubblica sicurezza» che consente, oltre all’allontanamento, anche il trattenimento provvisorio (di dubbia legittimità) nei centri di permanenza temporanea. Si tratta comunque di punti non marginali, ma che neppure stravolgono la disciplina già in essere e che pertanto ben potrebbero essere oggetto di pacata riflessione tra le varie forze politiche.

Il binomio «casa-lavoro» e le pratiche di «allontanamento»

La questione più delicata è tuttavia quella sintetizzata dalle urla scomposte dell’opposizione sotto lo slogan «a casa chi non ha un lavoro». Anche su questo punto i dati di partenza, che molti degli urlanti fingono di ignorare, sono relativamente semplici. Ferma la libertà di ingresso e fermo il diritto di libero soggiorno fino a tre mesi, per prolungare il soggiorno oltre tale limite il «cittadino europeo» deve lavorare, o disporre di un reddito minimo annuo, che il D.Lgs 30 fissa in 5.000 euro. Mancando queste condizioni, l’allontanamento per motivi economici si può fare ed era già consentito dal febbraio scorso, senza che vi fosse necessità di intervenire sulla materia.
Vi sono però almeno due problemi: il primo è che la direttiva impone anche in questo caso che l’allontanamento rispetti i requisiti di proporzionalità e tenga conto della situazione personale dell’interessato, senza alcun automatismo: così, se non si può prescindere dalla «situazione familiare» dell’interessato, pare difficile ipotizzare che un uomo che abbia, ad esempio, due figli ben inseriti a scuola, possa essere legittimamente assoggettato all’allontanamento solo perché vive in una baracca (casi di questo genere sono già all’esame dei giudici: si vedranno le prime sentenze). Il secondo, e ben più rilevante, è che la direttiva reca a chiarissime lettere la seguente prescrizione: l’allontanamento per motivi economici non può comportare il divieto di reingresso (art. 15, comma 3). Dunque si esce al valico di frontiera, si gira attorno al gabbiotto delle guardie e si rientra — con pieno e inoppugnabile diritto — dal lato opposto.
Il decreto di novembre, per venire incontro alle grida dei rigoristi, ha provato a escogitare un complicato marchingegno: se si rientra senza aver fatto apporre un timbro dal consolato italiano nel paese di origine (il che dovrebbe così comprovare che l’interessato ha ottemperato all’ordine di allontanarsi), si incorre in una modesta sanzione penale, che però ovviamente non incide sul diritto al reingresso; in parole povere si sta qui ma ci si becca (magari un anno o due anni dopo il reingresso) un processino. Il marchingegno (se anche fosse compatibile con la direttiva comunitaria, del che vi è da dubitare) si prospetta di scarsissima efficacia e, se troverà conferma nella versione definitiva della norma, finirà per intasare i Tribunali con processi «bagatellari» privi di una effettiva efficacia deterrente e senza risolvere il problema di fondo.

Conclusioni: povertà anche «nostre»

La realtà è che se è «vietato vietare il reingresso», qualsiasi artificio per mettere alla porta un comunitario per ragioni economiche sarà sempre di corto respiro. Ora, le direttive comunitarie non sono ovviamente l’undicesimo comandamento e si possono cambiare. Finché però non si cambiano, restano la regola fondamentale sulla quale si fonda un progetto di unità nazionale europea che va ben al di là dell’una o dell’altra emergenza: non sono né «di destra», né «di sinistra», né a favore, né contro il Pd.
E queste regole fondamentali ci dicono oggi che il «concittadino europeo», per quanto povero, puzzolente e fastidioso, può essere disincentivato, punito, momentaneamente spostato, ma certo non può essere definitivamente «rimandato a casa», se non vuole andarci; perché questa è, in parte, anche casa sua, così come lo è la Lombardia per il piemontese o la Sardegna per il pugliese. Si rivela qui tutto il pressapochismo di chi fa finta di risolvere il problema soltanto radendo al suolo i campi rom o fa finta di disporre di qualche bacchetta magica con la quale spostare più in là la povertà e la diversità: ovviamente non ce l’ha, ma non ha il coraggio e l’onestà di dire che vi sono alcune nuove forme di povertà «importate» che dobbiamo incominciare a considerare come povertà «nostre». È accaduto ai tedeschi dell’ovest dopo l’unificazione e, a quanto pare, dopo qualche anno di assestamento, hanno rapidamente imparato che la povertà importata dall’est era affar loro e ci hanno lavorato su. Dovrà inevitabilmente accadere prima o poi anche a noi, rispetto ai nostri cugini europei, belli o brutti che siano.