Appunti 5_2007

Costi della politica, urgenza della politica

Paolo Pigni

Crisi della politica e spinte dell’antipolitica sono all’ordine del giorno. Prebende e costi, rischi di derive populiste o tecnocratiche, sono elementi di uno scenario complesso che ha le sue radici in una lunga storia: un ciclo di «politica debole» che rischia ad ogni angolo di irrigidirsi in ceto professionalizzato, chiuso e privilegiato. Occorre però rifiutare la retorica dei meri «costi», per chiedersi quanto una società vuol investire nella politica necessaria, in una buona politica.

L’argomento numero uno di questi mesi, il vero giallo dell’estate 2007, va sotto il nome di «costi della politica». Già Giuliano Amato lo scorso inverno disse che intravedeva il rischio di una ondata di antipolitica che poteva «travolgere tutto». Massimo D’Alema in primavera ribadì in una intervista di vedere in atto «una crisi di credibilità della politica» di ampie proporzioni. Da quel momento in poi, il tema è esploso realmente. Libri, convegni e raccolte di firme si susseguono, con riflessioni ragionevoli e meno ragionevoli, attorno al tema dei privilegi e della remunerazione della classe politica, del pubblico impiego ed in particolare dell’alta dirigenza. Il volume di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, La casta, arrivato peraltro dopo quello di Cesare Salvi e Massimo Villone, spopola in libreria1. Alcune inchieste di Riccardo Iacona su Rai 3 hanno dato lo spunto a «L’Espresso» per alzare i toni e rilanciare le indagini su conti e conticini, sprechi e privilegi. E infine è arrivato il ciclone Beppe Grillo, che montava da tempo sul web ma è diventato un fenomeno politico reale con gli incontri nelle piazze per firmare la sua triplice proposta di legge anti-deputati condannati, per la limitazione dei mandati e le primarie a tutti i livelli. Le manifestazioni di piazza stanno quindi per dilagare.
Il bubbone è scoppiato con il governo Prodi. Perché? Perché sono cadute le speranze di un cambiamento. Dietro le più o meno impolitiche manifestazioni popolari e i successi editoriali, c’è una richiesta di limitare i danni da spreco, che forse nasconde un’angoscia ben più profonda. La percezione che l’offerta politica di oggi, di chi governa e di chi ha appena governato (e dunque non può, da questo punto di vista rappresentare una alternativa effettivamente credibile) sia inadeguata al bisogno che c’è di guida, di rappresentanza, di mediazione, di supporto all’innovazione nell’attuale fase storica. Non voglio fare lo psicologo sociale, ma credo ci sia questa angoscia dietro la rabbia bipartisan contro «i politici» che monta da mesi. Le difficoltà di questo governo ad incarnare le istanze di cambiamento che l’hanno condotto a vincere le elezioni sono un elemento centrale del quadro.
Naturalmente in tutto questo fermento si possono agevolmente distinguere diversi filoni e diverse intenzioni. C’è in qualche caso un disegno cultural-politico abbastanza chiaro in senso tecnocratico-liberista (penso al «Corriere della Sera» e dintorni). C’è un arruffata esigenza di colmare il gap tra politica e cittadini. C’è un classico tema «da sinistra moderna» come quello dell’autonomia delle istituzioni dai maneggi partitici. C’è una esigenza di «politica altra» in molti elettori arrabbiati e delusi delle performance del centro-sinistra al potere, che si sfogano come ai tempi dei girotondi nella critica al «palazzo». Comportamenti e retoriche di critica della politica sono anche fatti propri da spezzoni di classe politica che, in mancanza di altri argomenti, li utilizzano per farsi largo all’interno del mercato politico. Classificare tutto assieme sotto la categoria dell’«antipolitica» farebbe correre rischi seri. Occorre restare lucidi e distinguere il più possibile.

Le radici profonde della questione

In generale, però, la questione è tutt’altro che esplosa oggi. È solo una nuova febbre che rivela la malattia, che è un morbo cronico, in lento decorso da tempo. La malattia è la crisi della democrazia contemporanea. È il frutto di un ciclo trentennale di «politica debole», con una scarsa legittimazione sociale e uno scarso investimento collettivo: una politica ritenuta incapace di affrontare i veri problemi della contemporaneità, di cambiare il mondo. Una politica erede del grande disincanto. E quindi ridotta, sclerotizzata, verticalizzata. Pensiamo alla lunghissima teoria di iniziative che ha spostato il peso della politica dalla rappresentanza alla governabilità, spesso orientata alla riduzione del «rumore di fondo» della democrazia piuttosto che ad effettivi miglioramenti istituzionali. I partiti ridotti a maquillage mediatico del leader. Una democrazia stilizzata, ridotta alle elezioni una volta ogni cinque anni, senza passioni e senza ideologie. E alle elezioni — ci spiegano oggi — è bene che la scelta sia semplificata al massimo, altrimenti gli elettori si confondono e poi le preferenze ingenerano corruzione. Una democrazia siffatta è un brodo di coltura da cui naturalmente il cittadino si allontana con la testa e con il cuore, e si consolida invece una classe politica professionale, che è capace di gestire i meccanismi ristretti del potere, e che comprensibilmente si adagia in una sensazione, quanto meno, di routine amministrativa, mostrandosi molto più preoccupata della gestione dell’ordinario che di fiutare il vento e capire quello che si muove nella società.
Badate bene, il fenomeno è «biunivoco», come dicevano le professoresse di matematica. Cioè non ci sono solo responsabilità dei politici (della politica) in una situazione di questo tipo, ma anche della troppo mitizzata società civile. La quale ha scelto in questi decenni di farsi sostanzialmente gli affari propri. Diciamolo brutalmente. Dov’è la borghesia colta dotata di senso civico che presta qualche tempo o spazio della vita alla politica? Quale imprenditore più o meno arrivato considera positivamente che la propria progenie possa mettersi in un cammino di formazione per un servizio di pubblica utilità? Dove sono gli investimenti culturali delle agenzie formative sulla cultura civica, sulla capacità politica, sulla responsabilità collettiva? Ma ancora di più: dov’è il frutto politico del grande tessuto sociale di volontariato, di «terzo settore», di servizio agli ultimi, che in questi anni si è sviluppato in Italia? Al massimo, nella cosiddetta società civile si mobilitano coloro che sono già in servizio politico indiretto (c’è un associazionismo che è di fatto storicamente collaterale e connesso con la classe politica da molteplici interscambi). Oppure ci sono alcuni soprassalti periodici ma circoscritti di protesta, agitazione, indignazione. Anche giusta, per carità, ma spesso senza sbocchi. Infatti è una legge abbastanza chiara: il movimentismo sociale è positivo nella sua fase di effervescenza, ma se alla lunga non riesce a produrre imprese politiche reali alternative all’esistente, tende a sbiadire, a illanguidire e prima o poi si spegne. E quali persone, quali ambienti, quali forze hanno tentato realmente di produrre imprese politiche seriamente e coerentemente nuove in questi anni? Poche, pochissime, direi.
Il problema è quindi se questo ennesimo sussulto febbrile riuscirà a stimolare la guarigione dalla malattia, avviando un circolo virtuoso di nuovo impegno civile e di riforma delle istituzioni, oppure se contrassegnerà un altro passo di un malinconico declino, che semplicemente inacidirà un circolo vizioso di chiusure oligarchiche della classe politica a fronte di una rassegnata e lamentosa indifferenza del cittadino.

Le provocazioni dell’attualità

Per uscirne in positivo, occorre entrare a piedi uniti anche nel dibattito attuale. Per dire che c’è qualcosa di profondamente giusto e qualcosa di profondamente ambiguo nelle posizioni che emergono. Da una parte, esistono infatti i privilegi, le rendite di posizione, le piccole e grandi arroganze del ceto politico. La pletora dei consigli di amministrazione moltiplicati solo per creare posti per gli amici. Particolarmente odiosi e immotivati i privilegi «a vita» di chi è stato una volta parlamentare su aerei, treni e autostrade. E potremmo continuare a descrivere il problema. La classe politica reduce dallo scossone di Tangentopoli — almeno i salvati di quel terremoto — si è di nuovo tranquillamente adagiata in questi anni nella sua condizione privilegiata.
Ma ci sono almeno due aspetti di ambiguità. Il primo è che il problema dei privilegi non è solo politico, ma riguarda una sfera della dirigenza sociale che è ampiamente spalmata tra pubblico e privato. Volendo guardare bene, la tendenza sociale fondamentale di questi anni è stata una dinamica di allargamento della forbice sociale, in cui una piccola minoranza ha moltiplicato i propri redditi allegramente, mentre la gran parte del ceto medio (anche impiegatizio o tecnico, o addirittura dirigenziale, ai livelli non apicali delle scale retributive) ha conosciuto un processo di progressiva proletarizzazione, di cui i contorni non sono ancora chiari, ma che ha orizzonti drammatici. Tra un dirigente Fiat con responsabilità produttive, centinaia di sottoposti, impegni lavorativi di alto profilo, che prende 70.000 euro all’anno e quella crosta non poi così sottile di top-manager, direttori finanziari, amministratori delegati ecc. ecc., che guadagnano dieci volte tanto (e in più hanno valanghe di stock options e altri benefits di ogni tipo), oggi si è scavato un solco profondo. Come naturalmente scavano un solco le notizie sugli alti dirigenti della regione Sicilia pagati mezzo milione di euro l’anno, o i 22 direttori centrali assunti da Letizia Moratti con stipendi attorno ai 200-250 mila euro. Ma chissà com’è: il bubbone del premio alle (in)competenze nel settore privato non è ancora scoppiato, mentre quello del pubblico è sotto gli occhi di tutti.
Il secondo aspetto è che pare decisamente mal posto l’indice sui «costi» della politica come fattore indipendente. Quasi che si potesse allegramente tagliare sui costi, giustificando così «meno politica», meno invasività della politica. Il problema semmai è valutare attentamente quante e quali risorse una comunità vuole destinare alla politica, con il loro mantenimento, potenziamento o riduzione in funzione della capacità di determinare maggiore qualità della politica. Perché di buona politica abbiamo un estremo bisogno. Un paese moderno non può affrontare questioni del genere in un’ottica ragionieristica, ma in un’ottica di grande investimento sociale sulla qualità della vita collettiva. Non deve pagare balzelli, oppure sopportare gioghi medievali. Nemmeno un euro come «costo», ma tutte le risorse che sono necessarie per una funzione pubblica che, nelle sue articolazioni, serva il paese per il meglio.

Prebende dei politici e livelli di governo

E quindi sviluppiamo pure i dettagli della questione. Partiamo dalle prebende dei politici. Di stipendi dei parlamentari, rimborsi per appartamenti, rimborsi per portaborse ecc. ecc. si è discusso all’infinito. La prebenda, non dimentichiamolo, nasce come segno di democrazia (per evitare che possano fare politica solo i ricchi di famiglia). La prebenda deve essere però elemento di qualità della politica: allargando il numero di coloro che possono economicamente permettersi un impegno politico, dovrebbe essere più facile selezionare buoni politici. Se non lo è, vi è un problema. Mentre ritengo vi sia una adeguatezza sostanziale degli stipendi degli amministratori locali (con riguardo alle competenze necessarie ed all’impegno richiesto), è condivisibile una critica forte verso alcuni emolumenti ad amministratori regionali e parlamentari, che possono determinare un approccio strumentale a quella carriera, e dunque produrre «costi della politica» senza elevare la qualità dell’attività politica medesima.
Stesso discorso vale per l’area complicatissima delle società e degli enti la cui gestione va pagata: alcuni utilissimi, altri più o meno inutili. Il riferimento per giudicare di questo sottobosco, ed eventualmente disboscare ampiamente là dove le spese sono improduttive, è comunque sempre quello del miglioramento della qualità dell’azione politica, cioè la possibilità di spendersi sul mercato politico da parte di persone, con professionalità politica e personalità adeguate. Eliminando o riducendo il rischio di un uso strumentale della carica politica per fini personali.
Nella stessa linea, si è aperto un fronte polemico contro la moltiplicazione dei livelli di governo. Si parte, in Italia come in tutte le democrazie occidentali, da un solo livello di governo, una funzione statale, articolata territorialmente, con competenze comunali limitate e si arriva nel corso del XX secolo all’articolazione attuale delle autonomie locali. Che presidia due aspetti fondamentali: la produzione normativa e la programmazione strategica, da una parte e la gestione dei servizi e delle politiche, dall’altra. Senza demagogia, attorno a queste due aree bisogna ricostruire equilibri adeguati all’attuale contesto socio-economico, spostando competenze, personale, risorse e senza la paura di adeguare modelli alle specificità locali: Belluno non è Milano, non è nemmeno Salerno. Detto questo, se vogliamo autonomie, non possiamo non volere anche livelli di controllo e di governo che crescono. Le regioni, ad esempio, hanno mostrato in questi anni tendenze all’elefantiasi burocratica notevole. Ma la domanda di servizi e competenze nei loro confronti è stata crescente, quindi non potevano che rispondere adeguando le strutture. Hanno esagerato? Si deve intervenire, con pacatezza e serietà.

La retribuzione delle dirigenze e la questione dei controlli

Terza questione, la direzione dello Stato e della pubblica amministrazione ad ogni livello, dalla sanità agli enti locali. Anche qui vale un discorso di adeguatezza degli emolumenti. C’è un mercato a cui fare riferimento, pur con tutti i limiti del caso. L’adeguatezza insomma va vista non solo come assenza di sprechi, ma anche e soprattutto come garanzia di qualità, analoga al discorso sviluppato a proposito delle cariche politiche.
Ma con un importante elemento aggiuntivo: è fondamentale lavorare per una mobilità vera tra le figure e le professionalità, per migliorare le qualità del lavoro e mettere in discussione rendite di posizione. Una mobilità che riguardi ogni realtà pubblica e che apra spazi effettivi ad interscambi consistenti di management tra le realtà pubbliche e con il mondo dell’impresa privata. Una mobilità, e parliamo dell’alta dirigenza, che metta finalmente in discussione modelli di selezione completamente assurdi, a favore di selezioni condotte con strumenti scientificamente aggiornati ed adeguati alle singole situazioni, che permetta esperienze temporanee e rientri, che valorizzi economicamente per il dirigente pubblico la disponibilità a mettersi in gioco, a cambiare contesto e magari città.
Non si tratta, vorrei sottolineare, di tecnicismi. È in gioco la qualità della dirigenza pubblica, che per crescere ha bisogno di contaminazioni culturali e della massima valorizzazione delle professionalità. Due elementi che fanno letteralmente a pugni con l’accesso alle posizioni dirigenziali pubbliche con il tradizionale pubblico concorso (curriculum, prova scritta, prova orale e compagnia cantante) che oggi pare tornare di gran moda, quale garanzia di trasparenza. Ma quale trasparenza, e per farci cosa? Per ingessare una categoria di dirigenti forzatamente proveniente da anni di lavoro pubblico, che per di più non sono certo incentivati a spostarsi da ente a ente e tanto meno sono in condizioni di integrare esperienze presso realtà private? La mobilità nell’ambito della dirigenza pubblica, con forme il più possibile flessibili è oggi un’esigenza ineludibile per il miglioramento della qualità della funzione pubblica.
Si pone infine tutti i livelli un problema fortissimo di controlli e contrappesi. Non ci scandalizziamo delle crescenti autonomie dei politici e degli alti funzionari pubblici nello spendere soldi di tutti. Ma occorre rafforzare il sistema dei controlli e dei contrappesi. Le assemblee rappresentative, soprattutto a livello locale, hanno perso molta di questa capacità e molto mordente negli ultimi anni. L’opinione pubblica è ondivaga. Il giornalismo spesso assente, talvolta colluso: sono eccezioni le inchieste serie su questi argomenti. Il cittadino ha l’arma del voto, ma a fronte della scarsa trasparenza il voto è spesso cieco. Il controllo amministrativo è sostanzialmente fermo a un modello burocratico in cui la questione fondamentale è la legittimità e la procedura, non il merito delle scelte. Non vogliamo parlare del controllo di legalità affidato in ultima istanza alla magistratura: il problema non deve diventare solo individuare le infrazioni al codice penale. Occorre una capacità di monitoraggio sociale più ampio della opportunità e della sensatezza dell’investimento pubblico. Di esperienze interessanti, è pieno il mondo, a partire dalla rendicontazione sociale, per giungere alle più sofisticate (e complicate) esperienze di bilanci e progettazioni partecipate.
Ma il problema di una nuova governance della «cosa pubblica», che vuol dire niente di più e niente di meno di un riassetto complessivo del patto istituzionale è, a mio avviso, sempre più centrale. Probabilmente la risposta sta nel cominciare a praticare strumenti innovativi di governance, piuttosto che inventarsi nuove leggi e comitati di controllo (o task force di verifica sugli enti poco utili, come anche recentemente ha proposto Fassino). Le leggi verranno, la sistematizzazione troverà i suoi tempi. Da questo punto di vista, ancora una volta, gli enti locali sono molto più avanti. Forse perché più vicini alle persone, forse perché di dimensioni ottimali. Ma sono più avanti. Valorizziamo la loro esperienza. Superiamo la sindrome della notte nera in cui tutti i bovini sono neri.

Conclusioni: per un grande investimento sociale sulla politica

Insomma, per uscirne, occorre niente meno che un grande investimento sociale sulla politica e sulla funzione pubblica, motivato, articolato, controllato e convinto. Per far questo occorre uno sforzo della politica di autoriformarsi, ma questo non basta. Ci vuole un lavoro molto più capillare. Un progetto culturale. Un progetto culturale di rinnovamento della politica e delle istituzioni nel mondo di oggi, adeguato alla complessità ed alle sfide dell’oggi. Senza questo progetto culturale è difficile ottenere risultati adeguati dalla politica. Un nuovo progetto culturale nasce in una società vitale e da politici in grado di interpretarla, orientati a questo, non alla difesa personale. La difesa a riccio della classe politica, pur comprensibile, rende tutto più difficile… impedisce a monte il radicamento di progetti effettivamente competitivi. C’è spazio solo per un populismo spinto, che nessuna autoreferenzialità può fermare. Ma il populismo non produce risposte ed alla lunga alimenta soltanto l’angoscia.

1  S. Rizzo-G.A. Stella, La casta. Così i politici italiani sono divenuti intoccabili, Rizzoli, Milano 2007 e C. Salvi-M. Villone, Il costo della democrazia. Eliminare sprechi, clientele e privilegi per riformare la politica, Mondadori, Milano 2007.