Il Partito democratico tra speranze e timori

«Pensare politicamente la cronaca»

Nota congiunta dell’Associazione Città dell’uomo (fondata da Giuseppe Lazzati) e della Sezione di Roma di Città dell’uomo

IL PARTITO DEMOCRATICO TRA SPERANZE E TIMORI

La costruzione del nuovo Partito Democratico si è imposta sulla scena politica italiana come l’evento più significativo e ricco di conseguenze dell’ultimo decennio. Pone in un certo senso il sigillo ad un ciclo iniziato con la prima alleanza dell’Ulivo nel 1995, porta un contributo notevole a razionalizzare il sistema politico, pone le premesse di una dialettica più chiara nel paese. Lo stato dei fatti nella sua modalità di costituzione rischia tuttavia di non essere all’altezza delle possibilità e delle speranze, compromettendone pesantemente i futuri sviluppi. Un’associazione attenta al livello complessivo della cultura politica del paese, oltre che interessata per collocazione culturale a quanto si muove nell’area riformista e democratica del paese, si sente sfidata da questa situazione a proporre qualche riflessione.

1. Una forma-partito incerta

Scarso è stato ad esempio il dibattito sulla nuova forma-partito. Non dobbiamo dimenticare che la «fusione» tra partiti, che struttura sostanzialmente la nuova formazione, induce a portar dentro la tradizione esistente, e quindi certamente la solidità di un apparato organizzativo come quello diessino, che ha retto le prove di questo decennio di transizione, e anche la capacità di manovra di alcuni gruppi correntizi personalizzati di matrice ex democristiana. Queste risorse possono però anche costituire un problema, ove non si rimettessero profondamente in discussione attorno a un nuovo modello. L’orizzonte del dibattito sulle nuove regole è però ancora molto iniziale. O meglio, è abbastanza chiaro a tutti quello che non si vuole fare. L’idea originaria è stata abbandonare il modello novecentesco del partito di massa – da tempo entrato in una irrimediabile crisi – per tentare riattivare un circolo virtuoso di rapporti tra istituzione e società civile, con l’obiettivo di arginare, se non di risolvere, i problemi legati alla sempre più progressiva carenza partecipativa ed alla perdita drammatica di rappresentatività della politica. In sostanza, si parla insistentemente della modulazione del nuovo soggetto sulla base di elementi, in una certa misura tipici della tradizione partitica americana. La snellezza dell’apparato burocratico; la struttura federale che dovrebbe consentire un miglior radicamento nel territorio ed una più efficace circolazione delle élites; una capacità programmatica finalmente post-ideologica, possono considerarsi elementi innovativi e modernizzanti il complessivo sistema politico italiano. Tuttavia, le modalità con cui questi processi verranno fattivamente compiuti condizioneranno in modo decisivo i risultati. Occorre evitare che la snellezza dell’apparato burocratico significhi una sostanziale assenza del radicamento capillare del partito nella comunità sociale; che la struttura federale comporti il ripristino od il mantenimento di poteri notabiliari, spezzettando il partito in gruppi incomunicanti a detrimento della sua funzione nazionale primaria; che la de-ideologizzazione equivalga ad una rinuncia ad aspirazioni ideali. L’evocazione del modello americano deve dunque commisurarsi anche ai possibili approdi negativi – sempre possibili nelle fasi di profonda trasformazione – e soprattutto deve presumere la coscienza dei limiti del modello stesso.

2. La necessità di un «asse culturale»

La questione è tanto più pregnante se riferita ai contenuti di cui si dovrà dotare il nuovo Partito Democratico. Sotto questo profilo, il richiamo ai democratici statunitensi è improponibile. La democrazia americana non ha un equivalente nella nostra tradizione nazionale e quella sintesi storica è del tutto peculiare. Le discussioni avviatesi sui contenuti ideali e programmatici, in occasione della campagna elettorale per la segreteria nazionale, sono ricche ma spesso anche ambigue e si caratterizzano spesso per un alto grado di approssimazione. Le incertezze relative alla definizione dello stesso profilo identitario del partito non aiutano a dipanare la matassa. Siamo convinti che non basti infatti l’appellativo «riformista» per identificare il partito: il riformismo è solo un metodo che si distingueva a suo tempo da altri metodi (rivoluzionari) quando l’obiettivo della sinistra politica e del movimento operaio era chiaro. Oggi non c’è un obiettivo storico condiviso e definito, che si imponga con la stessa forza. Occorre cercarlo. La storia ci può aiutare: ricordando ad esempio il grande investimento di energie sul primo progetto del centro-sinistra «storico». Oppure le risorse ancora inespresse del testo costituzionale del 1948 – che il partito farebbe bene a ricordare, difendere e promuovere – come ispirazione di un grande disegno prospettico. I termini sintetici, quale orizzonte migliore di quello insito nel nome, per fare un tentativo di creatività in questa direzione? Democratico non può voler identificare solo un partito che difende una democrazia formale sempre più stanca e ripetitiva, sempre meno coinvolgente passioni e progetti (e che comunque nessuno oggi in Italia avverte come discussa). Deve diventare un nome-programma, un asse culturale. Cercato attorno alla «democrazia dei moderni», che nacque propriamente come spinta al riscatto della maggioranza dei non privilegiati rispetto alla società individualistica e notabiliare dell’Ottocento. Un orizzonte che può essere di grandissima attualità, riparametrato ovviamente alle condizioni reali della nostra società affluente e post-moderna. Ma su questo punto non occorrono slogan, quanto reali mobilitazioni di risorse culturali e progettuali.

3. Il problema della fusione di culture

Il nuovo Partito Democratico nasce come espressione di culture politiche diverse, desiderose di un comune innesto, che hanno una lunga ed articolata tradizione alle spalle. La dimensione socialdemocratica faticosamente acquisita dalle forze post-comuniste, l’eterogeneo universo del cattolicesimo politico e la polimorfa cultura liberale sensibile alle istanze etico-sociali possono considerarsi senza dubbio i tre grandi pilastri del PD. Nella capacità di amalgama di queste grandi famiglie e, contemporaneamente, di innovazione – raccogliendo anche spunti ed indicazioni da universi ideali e culturali diversi – sono riposte, con ogni probabilità, le speranze di riuscita per questo nuovo soggetto. Nella concreta disponibilità a recuperare la ricchezza di tali patrimoni e nella capacità di aggiornarli tenendo conto delle notevoli trasformazioni avvenute, a tutti i livelli, negli ultimi decenni risiede, a nostro avviso, l’efficacia di un’azione politica tesa a dare concrete risposte alle sfide della modernità – o, se si preferisce, della post-modernità – senza sterili indicazioni di modelli e categorie appartenenti al passato e non più proponibili e, contemporaneamente, senza adesioni pregiudiziali ed utopiche deradicate dal contesto politico e culturale nazionale.  L’adozione di un metodo laico di discussione e di argomentazione e la pervicace ricerca di un massimo comune di valori condivisi sia nel seno della comunità nazionale sia sul piano delle relazioni internazionali, in grado di indicare una via di soluzione fattiva anche alle nuove e gravi questioni «eticamente sensibili», appare in questo senso una urgente necessità. Il nuovo partito non potrà adottare la facile scorciatoia del «rispetto delle coscienze dei singoli» se non come ultima istanza: prima del caso estremo, occorrerà cercare e trovare sintesi politiche credibili attraverso una mediazione alta tra i valori universali e la complessità delle situazioni, oltre che tra culture diverse che mettono in relazione diversa i valori stessi. Per gli stessi credenti che militeranno nel partito questo metodo sarà un esigente percorso di ricerca del modo migliore di realizzare i valori, mediandoli nella storia, non un modo per tradirli nel compromesso.

4. Il ruolo del cattolicesimo democratico

In particolare ci è caro il richiamo, non formale, alla tradizione di quel cattolicesimo democratico che si è storicamente cristallizzato attorno alla vicenda politica di personalità quali Giuseppe Lazzati e Giuseppe Dossetti e che, ancora oggi – pur nelle profonde differenze di contesto e pur nella diversità degli strumenti a disposizione – può fornire le coordinate ideali e culturali per una adeguata valutazione della realtà storica, politica ed ecclesiale, nonché per indicare forme e contenuto tanto dell’elaborazione teorica quanto della prassi politica. Il principio della mediazione culturale; la laicità dell’azione politica; il realismo politico fondato sul rifiuto congiunto dell’ipermoralismo e del machiavellismo; la valutazione storicistica della realtà pur nella comprensione e nel superamento dei limiti dello storicismo; l’intransigenza democratica nei contenuti e nelle modalità dell’azione politica; l’indicazione dell’umanesimo cristiano come l’espressione di un universo valoriale condivisibile dall’intera comunità, costituiscono alcuni tra i tratti costitutivi di questo filone culturale che permangono, ancora oggi, in tutta la loro attualità. Lo stesso più ampio patrimonio del cattolicesimo politico del dopoguerra, di cui Alcide De Gasperi fu fondamentale interprete nella sua rigorosa promozione della laicità della politica, presenta – pur nelle sue forme precipue – uno dei termini di confronto ineludibili per la classe dirigente del nuovo partito democratico. Vorremmo pensare che questa cultura non si esaurisca con la nascita di un partito plurale e composito dal punto di vista culturale, anzi trovi potenzialmente un suo compimento. Tale contributo sarà più fecondo e attivo nella misura in cui non si racchiuderà in circuiti correntizi, pur nobilmente ispirati dall’idea di tenere in vita una tradizione culturale, ma feconderà un cammino comune di molti, capace di produrre nuove identità e – perché no ? – anche eventualmente nuove componenti interne al partito che nasce. Il cattolicesimo democratico non può diventare un recinto, ma una ispirazione largamente comune, fecondata nell’incontro con altre spinte ideali.


5. Il problema delle alleanze

Nel dibattito di queste settimane è riemerso il problema delle alleanze del nuovo partito. Ciò sembra per certi versi particolarmente inopportuno dal punto di vista politico contingente, dato che il nuovo partito è parte essenziale di una coalizione di governo impegnata in una responsabilità verso il paese. Una coalizione che può essere anche fragile e incerta, ma che non è possibile indebolire precocemente prefigurando «alleanze di nuovo conio» in modo un po’ irresponsabile. Detto questo, è chiaro che il nuovo partito dovrà costruire una politica delle alleanze che potrà essere anche mobile e elastica, a seconda dell’evoluzione della politica italiana: in politica niente è veramente irreversibile. Ma quello che crediamo fin da ora è che appare radicalmente perdente, oltre che contraddittorio con i valori espressi nel manifesto fondativo del partito, immaginare che la qualificazione politica del Pd si ricavi soprattutto sul crinale di una distinzione netta della cosiddetta «sinistra radicale». La rottura avvenuta in sede congressuale nei Ds e il ripensamento in corso in quell’area sono un fatto di importanza notevole per il futuro della democrazia italiana: non si deve sottovalutare l’auspicio di una conclusione realistica e responsabile di tale processo. Quindi è ovvio che non tutte le carte siano in mano al nascente partito, il quale peraltro ci sembra tradirebbe la sua intenzione più vera e il travagliato cammino dell’Ulivo di questi anni, se non ipotizzasse come prima soluzione per la sua politica delle alleanze un dialogo a sinistra che riesca a ricondurre su una piattaforma comune i partiti dell’Unione. Tutte le ipotesi di soluzioni neo-centriste della crisi italiana ci sembrano ambigue e rischiose, particolarmente nei chiari di luna del «pensiero unico» oggi dominante. E’ del resto ipotizzabile fin da ora che il partito riuscirà a essere guida di un centro-sinistra allargato nella misura in cui sarà esso stesso solido e forte, capace di creare consenso. E solo in questa veste autorevole potrà anche svolgere un ruolo di stabilizzazione del bipolarismo italiano, riuscendo a costruire intese concrete con l’opposizione sulle riforme «di sistema» che non mettono in questione l’indirizzo politico di governo (cosa di cui si sente l’urgente bisogno).


Conclusioni

Nella rivendicazione di un ruolo attivo e  propulsivo della politica, nello sforzo di innovazione finalizzato al superameno della propria autoreferenzialità – e di una concezione privatistica della cosa pubblica – nel confronto aperto e coraggioso con i nuovi problemi imposti dalla questione antropologica e dalla crisi della politica si dovrà definire, a nostro avviso, il quid novum del Partito Democratico. Il futuro stesso della politica in questo paese ha bisogno di un contributo di alto profilo: il rischio di un fallimento non può essere sottovalutato e quindi l’attenzione e la cura da attribuire a questo percorso è massima.

4 ottobre 2007