Appunti 4_2007

            

              

Il Partito democratico e Beniamino
Giovanni Colombo

Parte un partito nuovo? Parte una fusione fredda gestita come un’alchimia finanziaria? Sono le domande del momento rispetto al Partito democratico in gestazione. Nel turbinio di nomi e nel cicaleccio di voci per il futuro, mentre si delineano correnti e fazioni prima ancora che il partito nasca, c’è la proposta ambiziosa, alta e libera di un modo di starci, in questo partito, diverso da molti altri. È l’evoluzione della linea di pensiero che muove dalla sintesi di «Persone e comunità».

«E sèmm partii e sèmm partii, cumè una cicàda cuntra la bufera… e sèmm partii, e sèmm partii cumè tòcch de vedru de un büceer a tòcch, una vita noeva quaand finìss el maar mentre quèla végia la te pìca i spàll…».
Davide «Van de Sfroos» Bernasconi forse è l’unico bardo che Veltroni non conosce. Del resto abita troppo a nord, sul lago di Como, canta in un dialetto ostico e non piace a «Repubblica». Walter potrebbe però recuperare in fretta e ascoltare una di queste sere il disco del Van: «…e semm partii» (dedicato a tutti quelli che sono partiti e da qualche parte sono arrivati).
Anche noi siamo finalmente partiti verso quel Partito democratico a lungo sospirato. Purtroppo, già dalle prime mosse, il viaggio non sembra avere niente a che fare con l’epopea, con lo sputo contro la bufera, con lo scoppio di un bicchiere, con la scoperta di una vita nuova. Sembra piuttosto una fiction interpretata dai soliti noti. E dire che ne avevamo una voglia matta.


La voglia matta

Abbiamo desiderato a lungo la nascita di un Partito democratico — chi ha letto «Appunti» negli ultimi dieci anni lo sa bene — sospinti da due convinzioni: questo partito nuovo sarà lo sbocco naturale dello scongelamento dei mondi ideologici; il suo sorgere creerà le condizioni per il rilancio della partecipazione popolare.
1. Lo scongelamento dei mondi ideologici, già intuito dalla metà degli anni Ottanta, ancor prima della caduta del muro, ha finalmente aperto la possibilità di creare soggetti politici frutto della convergenza e della contaminazione di storie e identità diverse. Per arrivarvi ci viene però chiesto di superare la dimensione dell’esilio e di vivere convintamente la dimensione della diaspora. Che differenza c’è tra esilio e diaspora? Fisicamente nessuna: si sta in un luogo che non è quello di casa. La differenza è mentale ed è rilevante. Chi è in esilio si pensa come un diaframma. Ha un rapporto fisso col proprio passato. Per esistere vuole ritornare in un luogo conosciuto e protetto ma soprattutto rifare tutto quello che c’era prima. Pensarsi in esilio significa restare impermeabili al tempo, considerare che le sollecitazioni e i contatti siano una distrazione e un tradimento rispetto alla propria identità. Chi è in diaspora invece si pensa come una spugna, si trasforma nel tempo, si mischia, si ibrida, prende le novità e le rimescola con ciò che trasporta dal passato. Essere in diaspora non significa dimenticare la propria condizione di partenza: il passato non si perde mai, si rimodella. Il passato non dice chi siamo, è parte di ciò che diventiamo.
Noi in questi anni abbiamo scelto — a livello spirituale e culturale prima ancora che a livello politico — di vivere la diaspora, di lasciare tante cose, anche tante cose care, per cercare l’inedito. Capito questo, si capisce perché non ci siamo mai scaldati più di tanto per quanto succedeva nell’ex-mondo democristiano di sinistra — Partito popolare prima, Margherita poi — e nell’ex-mondo comunista — Pds prima, Ds poi. Tante vicende che pure hanno occupato uno spazio enorme sui giornali e nel dibattito pubblico le abbiamo sentite come inutili preliminari da superare al più presto per puntare diritti all’unico obiettivo di sostanza, il Partito democratico appunto.
2. «Democratico» è diventata una parola eversiva. Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito ad un’inesorabile verticalizzazione del potere. Le decisioni si sono spostate in ambiti sempre più ristretti, all’ultimo piano dei palazzi ministeriali (mentre interi piani sottostanti restano desolatamente vuoti) o dei municipi (mentre le riunioni dei consigli comunali sono ridotte a cineforum). I governanti ai vertici di comuni, province, regioni, appartenenti sia al centrodestra sia al centrosinistra, ubriacati dall’elezione diretta, si sono trasformati in podestà, sceriffi, governatori — «faccio tutto io». La verticalizzazione è andata a braccetto con la personalizzazione. Tutti alla caccia del candidato bello e disinvolto: dall’etica si è passati all’estetica. Il «leader», una volta prescelto, richiede un pompaggio continuo attraverso i mass media: la rappresentanza ha lasciato il posto alla rappresentazione.
La politica si è verticalizzata e personalizzata ma soprattutto si è fatta via via dipendente dalla sfera economica. Chi realmente conta sono gli oligarchi-plutocrati, coloro che possiedono ingenti quantità di denaro (di cui spesso non si conosce l’origine) e hanno tra le mani potenti leve economiche. Sono loro i protagonisti della borsa, sono loro che fanno le fusioni delle banche. Tutti quanti insieme compongono il grande consiglio di amministrazione che guida il Paese e le città e che decide, in ultima istanza, anche le cariche pubbliche. Gli altri, i cittadini semplici, sono confinati al rango di plebe che può, a seconda dei casi, applaudire o implorare.
Noi continuiamo a credere — a livello spirituale e culturale prima ancora che a livello politico — che la democrazia sia molto meglio della signoria. E quindi da una parte abbiamo fatto opposizione — quanti no! — alle pratiche di asservimento della politica agli affari, alle leggi elettorali che impediscono ai cittadini di scegliere i candidati, ai leader che galleggiano come sugheri, dall’altra abbiamo chiesto, in ogni occasione opportuna o inopportuna, l’avvento di un partito che fosse democratico nel nome e nei fatti.

Merger of equals

Dopo dieci anni di tira e molla, i dirigenti del centrosinistra hanno finalmente deciso: il Partito Democratico si farà. Il ritornello, nei due congressi di aprile di Ds e Margherita, è stato lo stesso: non sarà un nuovo partito (cioè puro restyling) ma un partito nuovo (cioè vera rivoluzione). Ma, spenti i riflettori, si è già vista la cruda realtà. Anche questa volta non si vola. Si è arrivati all’appuntamento troppo tardi e nel momento meno indicato, con un governo Prodi in vistoso calo di consensi. Non si è mai visto nascere un’entità nuova da una fase di depressione. Le nascite avvengono nell’eccitazione e richiedono la disponibilità e la volontà di cambiare. Nessuno dei dirigenti viene percepito autentico nel proporre la novità ed è in grado di scaldare l’anima degli iscritti, degli elettori storici e dei simpatizzanti. Si va avanti perciò con una fusione. Fredda, anzi freddissima.
La formula giusta è da mutuare dalla metodologia della finanza: merger of equals. I Ds hanno dato mandato a Merril Lynch, Jp Morgan e Unicredit. La Margherita si è affidata a Goldman Sachs, Morgan Stanley e Intesa San Paolo. Queste banche d’affari hanno lavorato alacremente e hanno già consegnato da alcune settimane i loro dossier. Gli amministratori non hanno avuto neppure il tempo di finire la lettura che due di loro, i veri capi, D’Alema e Marini, hanno operato l’accelerazione sulla governance e nominato in quattro e quattr’otto l’amministratore delegato della nuova società nella persona di Walter Veltroni, il «sindaco d’Italia», «il Sarkò de noantri», il figlio della tv (in senso letterale, suo padre è stato il primo direttore del telegiornale Rai), che può battere definitivamente il padrone delle tv. La sua nomina verrà ratificata con una cerimonia il 14 ottobre prossimo venturo. I consulenti di immagine hanno insistito con il richiamo americano alle primarie, che ha già funzionato due anni con Prodi, ma tutti sanno che le primarie vere sono tutt’altra cosa. Il 14 ottobre verranno pure scelti 2500 delegati che avranno il compito di arrivare a Roma, tutti quanti insieme, lo stesso giorno, dai luoghi più lontani del Paese, per fare la «ola» al nuovo vertice aziendale.
A proposito del vertice, i prossimi mesi saranno decisivi per completarne la composizione. Gli advisors hanno consigliato la formula duale: il consiglio di sorveglianza, che «approva le maggiori iniziative strategiche proposte dal consiglio di gestione e nomina i componenti», e il consiglio di gestione, che è «responsabile della gestione, basata sulle linee strategiche definite dal consiglio di sorveglianza». La governance duale dovrebbe permetterebbe di sistemare tutti i vecchi dirigenti e di cooptare due o tre finti giovani. I posti però dipenderanno dai rapporti di forza e sui concambi nessuno intende fare sconti. Da una prima proiezione pare che D’Alema — Fassino — Bersani avrebbero il 51% per cento giusto giusto, mentre il 28,4% andrebbe al raggruppamento degli ex popolari Marini — Franceschini — Fioroni. Il 10,6 toccherebbe a Rutelli, un 2,6 a testa a Rosy Bindi e Arturo Parisi, l’1,9 ciascuno a Lamberto Dini e ad Enrico Letta, l’1 per cento infine alla «società civile» (divisa tra l’Associazone per il Partito Democratico e i Cittadini per l’Ulivo). Si dà per certo che avrà un posto nel Consiglio di gestione Marco Follini, che rappresenta solo se stesso, ma fa niente, il figliol prodigo che è stato in mezzo ai porci va premiato con il vitello grasso.

Benianimo

Questa cronaca immaginaria è ispirata purtroppo da fatti e comportamenti reali. Sarei assai felice di essere smentito (scrivo a metà di luglio) ma dubito fortemente che ciò accadrà. Al livello nazionale non credo che si possa incidere più di quanto possa fare un mosquito nella giungla tropicale, lo si è visto chiaramente nella composizione del Comitato promotore e nella formulazione del Regolamento per le Primarie. Altre candidature alla Segreteria Nazionale, che con tutta probabilità sortiranno nei prossimi giorni, potranno creare qualche effetto mediatico ma non avranno la forza di intaccare la sostanza dell’operazione, non riusciranno a staccare la testa della Medusa per far uscire Pegaso, il cavallo alato. Forse a livello locale, nei luoghi dove da tempo si è in minoranza, potrebbe scaturire qualche disponibilità in più per tentare una rigenerazione. Ma bisognerà evitare che gli eletti dell’Assemblea Costituente si proclamino tout court dirigenti regionali, provinciali, cittadini. Per quanto mi riguarda, non smetto di sperare — spes contra spem — che nel Pd si costituisca una presenza di tutti coloro che si riconoscono nella prospettiva di «persone e comunità».
«Persone e comunità» si collega alla (e si alimenta dalla) tradizione cattolico-democratica e sociale, ma è qualcosa di più. È la definitiva accettazione del carattere laico, non ideologico, della politica e nel contempo la scelta di insistere su una proposta calda e «viscerale» (opzione ben diversa da quella degli amici ex fucini che negli ultimi quindici anni hanno scelto di occuparsi in prevalenza di regole e referendum). «Persone e comunità» è il progetto del futuro perché il futuro dell’esistenza umana, intesa come esperienza somatica, psichica, relazionale, va in quella direzione. Da una parte il paradigma relazionale: tutto ciò che ci succede, sul piano cognitivo, affettivo, emotivo, comportamentale è sempre, in qualche modo, condiviso, rispecchiato, intersecato con quello che avviene nella mente altrui. Dall’altra il paradigma personale: noi siamo irriducibili ad una pur complessa rete sociale, ciascuno di noi è qualcosa di irripetibile, unico, ineliminabile. La politica nuova, il partito nuovo si fa con questi due paradigmi che orientano verso chiare opzioni programmatiche: la tutela dell’interiorità, la formazione al sapere critico, la convivenza delle differenze, la riforma dei meccanismi di Welfare a favore dei più deboli, lo sviluppo economico inclusivo e sostenibile, la laicità delle istituzioni, la costruzione dell’Europa delle regioni. «Ci sarà un mondo che sia il mio e, insieme, quello degli altri: un mondo che sia tale per i soggetti, per tutti i soggetti»1.
«Persone e comunità» potrebbe chiamarsi Benianimo, come il gruppo di cultura e politica che opera a Genova. L’ho incontrato nella campagna elettorale delle ultime amministrative e ho visto un modo diverso e piacevole di ritrovarsi e agire. Beniamino, chiamiamoci Beniamino, che è l’ultimo dei figli di Giacobbe e di Rachele ma ha anche il più simpatico, il figlio della fortuna, della prosperità, del buon auspicio. E iniziamo a muoverci da Beniamino, con uno stile e un metodo che siano in sintonia con il bel nome che portiamo e con le alte parole che proclamiamo, contro la scissione ormai insopportabile tra contenuti e metodi, tra nomi e cosa. E sèmm partii e sèmm partii… Noi di Beniamino partiremo senza finte, così come siamo, autentici nelle nostre fragilità. E andremo non a uno a uno, ma a due a due. È fondamentale avere un amico sul cuore del quale poter riposare e con il quale continuare a verificarsi. Se è solo, l’uomo diventa presto dittatore per poi perdersi nel delirio. La prima parola che porteremo in questa politica sbandata sarà il gesto della nostra comunione, la vittoria sulla solitudine. «Noi non arriveremo alla meta/ a uno a uno, ma a due a due./ Se noi ci ameremo / a due a due,/ noi ci ameremo tutti./ E i figli rideranno/ della leggenda nera/ dove l’uomo piangeva/ in solitudine» (Paul Eluard).

15 luglio 2007

1  Rinvio alla lettura di Persona e comunità. La proposta della Rosa bianca per una nuova politica,  Città aperta edizioni, Troina 2005, che rimane a tutt’oggi il testo più utile per chi ama l’aria di montagna e l’alta strategia.