Appunti 3_2007
Fine del cattolicesimo politico?
Lettera aperta ai vescovi italiani
Vorremmo porre, come rivista e come associazione, con questo editoriale, una questione cruciale: la presa di posizione della Cei nel recente dibattito sulla famiglia è interpretabile come una svolta storica? E precisamente come la conclusione dell’almeno secolare parabola del «cattolicesimo politico»? Ci sembra questione su cui ragionare e chiedere al contempo lumi autorevoli.
L’attesa nota del Consiglio permanente della Cei sulla controversa questione dei DiCo è arrivata, in data 28 marzo. E’ del tutto legittimo farne una esegesi attenta e articolata, per valorizzare il fatto che essa si presenta come frutto di una «sollecitudine pastorale», apre e chiude con un appello alla coscienza, e che in fondo il richiamo contro la «legalizzazione delle unioni di fatto» (con il rinvio come fondamento magisteriale a due documenti della Congregazione per la dottrina della fede, non a testi papali) si accompagna alla tesi per cui questa scelta non impedirebbe di tutelare giuridicamente «la persona che convive», obiettivo «perseguibile nell’ambito dei diritti individuali, senza ipotizzare una nuova figura giuridica che sarebbe alternativa al matrimonio e alla famiglia». Il progetto sui DiCo è stato attentissimo esattamente a questo: parlare di diritti delle persone e non istituire una nuova figura giuridica.
Ma tant’è: confessiamo francamente che non ci sembra una via d’uscita sufficiente. L’intenzione e l’intonazione del testo sono chiare: se non si parla di un concreto progetto di legge, esso mira esattamente contro il progetto governativo, attualmente in sede di esame parlamentare. Vorremmo allora porre un problema, nella sua forma più netta, che deriva da questa presa di posizione e pende sul nostro futuro. Un intervento di questo tipo mette fine alla lunga parabola del cattolicesimo politico? Inaugura cioè definitivamente una nuova epoca, rispetto al distillato della storia complessa del Novecento?
Noi sappiamo che la storia del cattolicesimo politico affonda le sue radici nell’epoca dell’intransigentismo e dei primi partiti «cattolici» che si affermarono nello spazio delle vituperate «libertà moderne», per affermare i diritti della Chiesa e combattere contro le guide anticlericali e laiciste delle rivoluzioni contemporanee. Si è evoluto poi in un diverso modello, quello dei «partiti di ispirazione cristiana», che hanno assunto il compito di mediare nella vicenda politica il bagaglio programmatico e valoriale del pensiero sociale cattolico, con l’intenzione di una riforma a tutto tondo dello Stato moderno, non più solo di affermare i circoscritti «interessi cattolici». Ha conosciuto diversità e a tratti rotture, pluralismi e convergenze, fino alla parabola (almeno italiana, ma non molto diversa in altri paesi europei) di gruppi e personalità che hanno continuato a fare politica da credenti, collocati sulle frontiere mobili del bipolarismo politico, tipico di quasi tutte le democrazie contemporanee.
L’approccio ecclesiastico a questa evoluzione è stato talvolta timido e talvolta critico, talvolta promozionale e talvolta completamente oppositivo. Ma anche nelle contrapposizioni più nette su singole posizioni e su specifici progetti politici, in fondo, ha tenuto sempre aperto un dialogo sulla forma possibile del cattolicesimo politico, intesa come responsabile mediazione dei valori cristiani nel dibattito civile, affidata a laici cristiani adulti nella fede e in dialogo con tutte le componenti del popolo di Dio. Il modello del Vaticano II, in questo senso, ha soltanto convalidato e precisato il frutto di un lungo e difficile itinerario storico.
La vicenda italiana degli ultimi quindici anni aveva già progressivamente ristretto questo campo e insensibilmente spostato i termini della questione. L’accettazione finale del pluralismo politico dei credenti, avvenuta al convegno ecclesiale di Palermo del 1995, forzata dalla consumazione dell’ultima parvenza di unità politica dei cattolici nel Ppi (che, non dimentichiamolo, conobbe la scissione definitiva tra destra e sinistra proprio in quei mesi), è andata assieme a una sorta di progressiva riduzione dell’investimento sulla presenza dei cattolici in politica, in ogni sua forma. Quasi che la politica nella sua ordinarietà fosse questione tutta banalmente tattica e amministrativa, e che assumesse spessore etico solo attorno ad alcuni pochi selezionati ambiti e problemi, su cui chiamare ancora alla mobilitazione identitaria in nome dei «valori non negoziabili».
La Nota della Cei deve essere intesa come scioglimento di ogni residua ambiguità e apertura di una fase del tutto nuova? E’ possibile infatti leggerla simbolicamente – proprio perché arrivata al culmine di un duro scontro politico e mediatico — come rivendicazione definitiva alla gerarchia ecclesiastica dell’esclusiva competenza sulla mediazione dei valori cristiani in politica e nella legislazione. Per cui, là dove c’è la presenza di questioni «sensibili», i vescovi non si fermano al richiamo articolato del valore in gioco, ma intervengono fino a dirimere le questioni legislative, mentre negli altri campi dell’attività politica il loro silenzio porta a ritenere che sostanzialmente non ci siano elementi forti su cui investire la responsabilità cristiana. E’ così che la dobbiamo intendere? Lo chiediamo agli autorevoli promotori della Nota, lo chiediamo ai vescovi del Consiglio permanente, la cui posizione presumiamo non essere univoca in materia così complessa. Lo chiediamo all’assemblea della Cei, suggerendo con discrezione di discutere per una volta ampiamente questo tema. Lo chiediamo insomma a tutti i nostri pastori, rispettosamente ma apertamente. Vi preghiamo di riflettere sui rischi, di valorizzare un tempo di meditazione e riflessione, di ricreare nella comunità ecclesiale quelle condizioni di dialogo che aiutino ciascuno, laici ed ecclesiastici, a capire meglio le sfide del tempo. Ma comunque occorre arrivare a dire come si vede questo problema, per favore, con chiarezza possibilmente definitiva.
Poi, naturalmente, ciascuno valuterà nella sua coscienza. Infatti, noi cattolici democratici ci siamo abituati da decenni a stare nell’agone civile senza pretendere di avere un «mandato» o una legittimazione gerarchica diretta. Mentre rivendichiamo la prerogativa di avere sempre riflettuto con consapevole attenzione agli inviti dei pastori, senza immeschinirli con facili strumentalizzazioni o archiviarli con cinica furbizia, siamo naturalmente del tutto consapevoli di non poter ambire a rappresentare le posizioni «cattoliche», oppure ancora di non avere nessun tipo di monopolio della verità. Ma un conto è essere consapevoli di questo, e altro è sentirsi organicamente partecipi di un grande impegno comunitario al discernimento e all’orientamento, vivere di «familiari relazioni» tra laici e pastori, prendere parte a un dibattito culturale aperto e rispettoso, partecipare di un appassionato compito comune, alla ricerca dei modi migliori per incarnare i valori cristiani nella democrazia. Un conto è dover accettare di scegliere questa via come testimonianza del tutto personale e coscienziale, nell’emarginazione sostanziale dagli ambiti «ufficiali» della Chiesa: via più ardua, ma che continueremo a perseguire, con umiltà e fermezza. Come continueremo a negoziare i valori laddove, e solo laddove, ciò valga a preservarli nella misura più alta possibile, secondo un giudizio di discernimento etico-politico. Stiano tranquilli tutti coloro che in questi giorni ci danno lezioni di «fedeltà».
Sappiano anche i cattolici di destra, di centro, di tutte le altre definizioni politiche che stanno sul terreno della democrazia, sappiano tutti coloro che hanno fatto la fila per partecipare al Family Day e ricevere una illusoria benedizione ecclesiastica, che l’eventuale fine certificata del cattolicesimo politico riguarda anche loro. Se oggi sono i credenti del centro-sinistra ad essere in sofferenza, domani toccherà a loro su altre questioni. A meno che non concepiscano il loro ruolo come semplice paravento di decisioni altrui. Il che lascerebbe qualche dubbio anche sul semplice concetto di «fedele cristiano».
L’attesa nota del Consiglio permanente della Cei sulla controversa questione dei DiCo è arrivata, in data 28 marzo. E’ del tutto legittimo farne una esegesi attenta e articolata, per valorizzare il fatto che essa si presenta come frutto di una «sollecitudine pastorale», apre e chiude con un appello alla coscienza, e che in fondo il richiamo contro la «legalizzazione delle unioni di fatto» (con il rinvio come fondamento magisteriale a due documenti della Congregazione per la dottrina della fede, non a testi papali) si accompagna alla tesi per cui questa scelta non impedirebbe di tutelare giuridicamente «la persona che convive», obiettivo «perseguibile nell’ambito dei diritti individuali, senza ipotizzare una nuova figura giuridica che sarebbe alternativa al matrimonio e alla famiglia». Il progetto sui DiCo è stato attentissimo esattamente a questo: parlare di diritti delle persone e non istituire una nuova figura giuridica.
Ma tant’è: confessiamo francamente che non ci sembra una via d’uscita sufficiente. L’intenzione e l’intonazione del testo sono chiare: se non si parla di un concreto progetto di legge, esso mira esattamente contro il progetto governativo, attualmente in sede di esame parlamentare. Vorremmo allora porre un problema, nella sua forma più netta, che deriva da questa presa di posizione e pende sul nostro futuro. Un intervento di questo tipo mette fine alla lunga parabola del cattolicesimo politico? Inaugura cioè definitivamente una nuova epoca, rispetto al distillato della storia complessa del Novecento?
Noi sappiamo che la storia del cattolicesimo politico affonda le sue radici nell’epoca dell’intransigentismo e dei primi partiti «cattolici» che si affermarono nello spazio delle vituperate «libertà moderne», per affermare i diritti della Chiesa e combattere contro le guide anticlericali e laiciste delle rivoluzioni contemporanee. Si è evoluto poi in un diverso modello, quello dei «partiti di ispirazione cristiana», che hanno assunto il compito di mediare nella vicenda politica il bagaglio programmatico e valoriale del pensiero sociale cattolico, con l’intenzione di una riforma a tutto tondo dello Stato moderno, non più solo di affermare i circoscritti «interessi cattolici». Ha conosciuto diversità e a tratti rotture, pluralismi e convergenze, fino alla parabola (almeno italiana, ma non molto diversa in altri paesi europei) di gruppi e personalità che hanno continuato a fare politica da credenti, collocati sulle frontiere mobili del bipolarismo politico, tipico di quasi tutte le democrazie contemporanee.
L’approccio ecclesiastico a questa evoluzione è stato talvolta timido e talvolta critico, talvolta promozionale e talvolta completamente oppositivo. Ma anche nelle contrapposizioni più nette su singole posizioni e su specifici progetti politici, in fondo, ha tenuto sempre aperto un dialogo sulla forma possibile del cattolicesimo politico, intesa come responsabile mediazione dei valori cristiani nel dibattito civile, affidata a laici cristiani adulti nella fede e in dialogo con tutte le componenti del popolo di Dio. Il modello del Vaticano II, in questo senso, ha soltanto convalidato e precisato il frutto di un lungo e difficile itinerario storico.
La vicenda italiana degli ultimi quindici anni aveva già progressivamente ristretto questo campo e insensibilmente spostato i termini della questione. L’accettazione finale del pluralismo politico dei credenti, avvenuta al convegno ecclesiale di Palermo del 1995, forzata dalla consumazione dell’ultima parvenza di unità politica dei cattolici nel Ppi (che, non dimentichiamolo, conobbe la scissione definitiva tra destra e sinistra proprio in quei mesi), è andata assieme a una sorta di progressiva riduzione dell’investimento sulla presenza dei cattolici in politica, in ogni sua forma. Quasi che la politica nella sua ordinarietà fosse questione tutta banalmente tattica e amministrativa, e che assumesse spessore etico solo attorno ad alcuni pochi selezionati ambiti e problemi, su cui chiamare ancora alla mobilitazione identitaria in nome dei «valori non negoziabili».
La Nota della Cei deve essere intesa come scioglimento di ogni residua ambiguità e apertura di una fase del tutto nuova? E’ possibile infatti leggerla simbolicamente – proprio perché arrivata al culmine di un duro scontro politico e mediatico — come rivendicazione definitiva alla gerarchia ecclesiastica dell’esclusiva competenza sulla mediazione dei valori cristiani in politica e nella legislazione. Per cui, là dove c’è la presenza di questioni «sensibili», i vescovi non si fermano al richiamo articolato del valore in gioco, ma intervengono fino a dirimere le questioni legislative, mentre negli altri campi dell’attività politica il loro silenzio porta a ritenere che sostanzialmente non ci siano elementi forti su cui investire la responsabilità cristiana. E’ così che la dobbiamo intendere? Lo chiediamo agli autorevoli promotori della Nota, lo chiediamo ai vescovi del Consiglio permanente, la cui posizione presumiamo non essere univoca in materia così complessa. Lo chiediamo all’assemblea della Cei, suggerendo con discrezione di discutere per una volta ampiamente questo tema. Lo chiediamo insomma a tutti i nostri pastori, rispettosamente ma apertamente. Vi preghiamo di riflettere sui rischi, di valorizzare un tempo di meditazione e riflessione, di ricreare nella comunità ecclesiale quelle condizioni di dialogo che aiutino ciascuno, laici ed ecclesiastici, a capire meglio le sfide del tempo. Ma comunque occorre arrivare a dire come si vede questo problema, per favore, con chiarezza possibilmente definitiva.
Poi, naturalmente, ciascuno valuterà nella sua coscienza. Infatti, noi cattolici democratici ci siamo abituati da decenni a stare nell’agone civile senza pretendere di avere un «mandato» o una legittimazione gerarchica diretta. Mentre rivendichiamo la prerogativa di avere sempre riflettuto con consapevole attenzione agli inviti dei pastori, senza immeschinirli con facili strumentalizzazioni o archiviarli con cinica furbizia, siamo naturalmente del tutto consapevoli di non poter ambire a rappresentare le posizioni «cattoliche», oppure ancora di non avere nessun tipo di monopolio della verità. Ma un conto è essere consapevoli di questo, e altro è sentirsi organicamente partecipi di un grande impegno comunitario al discernimento e all’orientamento, vivere di «familiari relazioni» tra laici e pastori, prendere parte a un dibattito culturale aperto e rispettoso, partecipare di un appassionato compito comune, alla ricerca dei modi migliori per incarnare i valori cristiani nella democrazia. Un conto è dover accettare di scegliere questa via come testimonianza del tutto personale e coscienziale, nell’emarginazione sostanziale dagli ambiti «ufficiali» della Chiesa: via più ardua, ma che continueremo a perseguire, con umiltà e fermezza. Come continueremo a negoziare i valori laddove, e solo laddove, ciò valga a preservarli nella misura più alta possibile, secondo un giudizio di discernimento etico-politico. Stiano tranquilli tutti coloro che in questi giorni ci danno lezioni di «fedeltà».
Sappiano anche i cattolici di destra, di centro, di tutte le altre definizioni politiche che stanno sul terreno della democrazia, sappiano tutti coloro che hanno fatto la fila per partecipare al Family Day e ricevere una illusoria benedizione ecclesiastica, che l’eventuale fine certificata del cattolicesimo politico riguarda anche loro. Se oggi sono i credenti del centro-sinistra ad essere in sofferenza, domani toccherà a loro su altre questioni. A meno che non concepiscano il loro ruolo come semplice paravento di decisioni altrui. Il che lascerebbe qualche dubbio anche sul semplice concetto di «fedele cristiano».
