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E. Zucchetti, La disoccupazione. Letture, percorsi, politiche, Vita e Pensiero, Milano 2005

Se c’è un tema in grado di accendere il dibattito politico, come ha esemplarmente mostrato anche l’ultima campagna elettorale, è il lavoro, in particolare per ciò che concerne la lotta alla disoccupazione, una patologia sociale, quest’ultima, che nella società cosiddetta «postfordista» più che accentuarsi sembra mutare, assumendo caratteristiche inedite e tuttavia non meno preoccupanti di ieri. E’ un dibattito dai toni accesi, alimentato dalla recente riforma del mercato del lavoro varata dal governo Berlusconi all’insegna dell’«ultraflessibilità» — la legge 30/2003, conosciuta anche come «Legge Biagi» — e che oggi, con il cambio di fase politica e l’avvento del governo Prodi, che ha promesso di combattere il precariato, vede inasprirsi il confronto (lo scontro) tra i difensori ad oltranza della «Biagi» — tutto il centrodestra più qualche frangia cosiddetta «liberale» del centrosinistra, gli «abrogazionisti» — prevalentemente posizionati nella parte più radicale dello schieramento di centrosinistra, e i «neo-riformatori» (della riforma) — collocati nell’area della sinistra di governo e decisi a rivederne gli aspetti più penalizzanti per i lavoratori.
In verità, non è infondata la preoccupazione che tanto clamore (politicamente comprensibile e giustificato per molti versi), unito a dosi elevate di ideologia e alla cospicua produzione di normative sul lavoro — il decreto attuativo della legge 30/2003 contiene ben 85 articoli! — celino un certo balbettio della politica sui temi dell’occupazione, le cui nuove forme organizzative e i contenuti professionali combinati con le diverse aspettative e condizioni sociali di individui e famiglie — contesti segnati dalla riorganizzazione economico-finanziaria a livello globale e dai profondi mutanti sociali di questi anni — presentano oggi una forte discontinuità e problematiche differenti rispetto al passato anche recente. Per la politica è dunque irrinunciabile comprendere più puntualmente ciò che sta accadendo nell’economia e nella società, se vuole riportare sui giusti binari — a vantaggio cioè degli individui e della coesione sociale — quel processo di modernizzazione istituzionale largamente incompiuto che riguarda le politiche del lavoro, superando così quel paradosso, tutto italiano, che a fronte di un crescente disagio sociale connesso al lavoro «che manca e che cambia» fa registrare tanta enfasi nel dibattito pubblico sulla disoccupazione quanta inefficacia nella soluzione dei problemi. A suggerire con robusti e approfonditi argomenti la necessità di operare questo salto cognitivo e politico è l’ultimo denso e interessante volume di Eugenio Zucchetti — sociologo dell’economia e del lavoro presso l’Università Cattolica di Milano — apparso recentemente in libreria1.

Arricchire le categorie interpretative

L’invito dello studioso è quello di affrontare la questione arricchendo e ampliando le categorie interpretative della disoccupazione, andando perciò oltre le chiavi di lettura tradizionali proposte sia dall’economia neoclassica (che prende di mira la presunta rigidità dell’offerta di lavoro e l’alto costo dei salari) sia da quella di matrice keynesiana (più sensibile alle dinamiche della domanda e della crescita economica), ma anche da quelle più recenti di taglio socio-culturale che, sia pure con accenti e prospettive diverse, parlano di «fine del lavoro» e dell’approdo ad una utopistica «società dell’ozio» nella quale la cittadinanza e il legame sociale vengono ripensati a prescindere, o quasi, dal lavoro (la scuola francese di Gorz e Aznar o quella tedesca di Offe e Beck, oppure le tesi di autori come Rifkin, De Masi, Bencivenga, Medà ecc.). Questi approcci sono ovviamente utili per cogliere aspetti non trascurabili del fenomeno e tuttavia rappresentano, ciascuno di essi, solo parzialmente quanto si muove in un universo socio-economico che oggi si presenta più complesso di ieri e che, in assenza di strategie politiche integrate di cittadinanza (sull’asse lavoro-Welfare-famiglia), rischia di accrescere le disuguaglianze e diffondere il disagio esistenziale. Per tali motivi, secondo Zucchetti, è urgente assumere sulla questione–disoccupazione un punto di vista più ricco e articolato che «superi e integri un approccio limitato alle variabili di tipo economico, vada oltre la lettura in termini statistico-quantitativi, indaghi più a fondo i processi di costruzione sociale del fenomeno, uscendo dalla sterile contrapposizione tra analisi macro e analisi micro» (p. 14). Viene insomma sostenuta l’esigenza di definire un metodo interdisciplinare per la ricerca empirica e per lo sviluppo della teoria, all’interno del quale la ricerca sociale torni a giocare un ruolo decisivo. E’ in questa chiave che l’autore recupera alla riflessione, in quanto ancora attuale per molti versi, l’indagine sociologica di inizio secolo scorso, riproponendo tra l’altro la rilettura di un classico degli anni ’30 quale I disoccupati di Marienthal2. In quello studio sulla disoccupazione Zucchetti rintraccia alcuni criteri utili anche per la comprensione odierna del fenomeno, in particolare rispetto ai profili relativi: a) alla relazione tra individui e nucleo familiare sul quale si scaricano gli effetti negativi della mancanza di lavoro e dove maturano strategie e risposte al problema; b) ai processi integrativi e condizionanti della società di cui l’individuo è parte; c) alla risposta soggettiva alla condizione di disoccupato e quindi alle aspettative, alle dotazioni cognitive e psicologiche che ciascuno è in grado di mettere in campo per far fronte a questo evento.
Ciò ovviamente non significa sottovalutare l’importanza della politica economica (domanda di beni e servizi, livello dei consumi, innovazione tecnologica, ecc.), la quale tuttavia pur mantenendo un ruolo significativo nella dinamica dell’occupazione/disoccupazione, a causa dell’imperfezione del mercato nell’allocare le risorse — come ricorda l’economista Luigi Pasinetti, citato da Zucchetti — non riuscirebbe a rendere efficiente l’incontro tra domanda e offerta di lavoro se non coadiuvata dalla mediazione istituzionale. Su un punto economisti e sociologi sembrano convenire, nella presa d’atto che oggi «la disoccupazione si presenta come un processo di rottura della simmetria fordista tra dinamica della produzione di merci e dinamica dell’occupazione» (p. 30).

I mutamenti del lavoro e la tenuta del legame sociale

Nel rileggere in questa ottica l’evoluzione odierna del mercato del lavoro, emergono fattori inediti che se per un verso influenzano l’ingresso o il reinserimento degli individui al lavoro, per un altro mettono alla prova anche la tenuta del legame sociale. Secondo l’analisi di Zucchetti, infatti: 1) la disoccupazione si presenta come fenomeno strutturale che tende tuttavia a destandardizzarsi rispetto a quella tipica del periodo fordista, rendendo più incerti i confini tra autonomia e dipendenza, tra lavoro e non lavoro, aprendo quindi il varco alla precarietà; 2) il fenomeno diventa trasversale e diffuso, toccando oggi anche ceti sociali finora sostanzialmente immuni dal rischio di disoccupazione, e agendo in maniera più o meno grave sull’esistenza personale a seconda delle condizioni sociali in cui ciascun individuo è posto; 3) si afferma una maggiore autonomia dell’offerta di lavoro, relativa alla accresciuta soggettività e scolarizzazione degli individui e alle relative aspettative rispetto alla collocazione sociale e professionale; 4) il pluralismo culturale della nostra epoca influenza anche i significati del lavoro, aumentando la selettività verso le possibili scelte professionali che spesso porta anche alla rinuncia o al ritardare l’ingresso nel mercato del lavoro. Alla luce di questo processo — conclude Zucchetti — la disoccupazione diventa un percorso tortuoso «tra lavori, lavoretti e instabilità dentro un quadro societario di individualizzazione, di depotenziamento delle istituzioni regolatrici e di erosione dei legami sociali» (p. 89).
Il volto plurale della disoccupazione
Stando ai dati statistici, la disoccupazione nel nostro paese sembra in sensibile calo (a ciò concorrono anche il calo del tasso di attività di donne e giovani, oltre a controversi criteri di misurazione), tuttavia, ricorda l’autore, per capirne l’effettiva portata e le implicazioni soggettive è necessario rifarsi anche ad una definizione sociale del fenomeno, soprattutto «per capire quali itinerari diversi le persone disoccupate percorrono e come si strutturano oggi le loro identità, aspettative e comportamenti» (p. 135). Sotto la lente di ingrandimento della ricerca rimangono i lavori cosiddetti «atipici» che se nell’arco del decennio 1993-2003 sono cresciuti del 76%, hanno tuttavia eroso solo parzialmente lo stock di lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato (che oggi ammontano circa al 90%). Il lavoro temporaneo si rivela dunque uno strumento flessibile soprattutto per l’ingresso al lavoro. Questa realtà tuttavia è meno felice di quanto appaia, innanzitutto perché emerge un uso spregiudicato dei contratti flessibili, se è vero che in Italia queste forme di lavoro vengono utilizzate prevalentemente nelle aree economicamente più dinamiche e non solo in caso di crisi aziendali. E ciò ha un impatto sociale non proprio virtuoso, visto che il ritardo nell’inserimento definitivo al lavoro può diventare una «trappola», sia per i giovani che «in un contesto in cui il lavoro si presenta come risorsa scarsa, definiscono atteggiamenti adattivi se non proprio strumentali nei confronti del lavoro stesso», sia per gli adulti per i quali «la nuova situazione può rivelarsi più pesante e costosa poiché, di fatto, le nuove forme contrattuali atipiche destabilizzano soggetti che erano stabili, introducendo dunque una forma di discontinuità sul versante del percorso lavorativo ma anche sul piano esistenziale» (p. 128). Il discorso si fa ancora più problematico nel caso del lavoro delle donne, soprattutto in relazione al contratto part-time (e più in generale al lavoro flessibile) che pur essendo un canale fondamentale di inserimento al lavoro e di possibile conciliazione con la vita familiare, paradossalmente rischia di intrappolare le donne in percorsi che non consentono avanzamenti nella carriera professionale e nel reddito e soprattutto di legittimare simbolicamente l’idea che sulla donna debba continuare a gravare gran parte del lavoro riproduttivo, accrescendo peraltro le disuguaglianze tra chi ha e chi non ha carichi familiari.
Per capire cos’è oggi la disoccupazione bisogna dunque passare dai dati ai volti di chi ne fa esperienza, guardando al fenomeno non solo e non tanto in termini statistici, ma con «gli occhi del sociale», secondo un’efficace espressione di Accornero e Carmignani3. C’è un volto tradizionale che riguarda gli squilibri di genere e quelli territoriali Nord/Sud e che vede concentrati nel Mezzogiorno i senza lavoro italiani tra i quali spiccano le donne (25,3% contro il 5,4% di disoccupazione femminile al Nord). C’è un volto emergente della disoccupazione che riguarda i giovani del Sud (5 su 10 sono addirittura alla ricerca del primo lavoro) e gli adulti del Nord espulsi dal lavoro; buona parte di essi (il 52%) vengono da un’esperienza di lavoro a termine che lascia il segno anche per molti anni rispetto alla possibilità di una possibile ricollocazione. C’è quindi un volto resistente della disoccupazione, quello più preoccupante perché autoalimenta la difficoltà di inserimento al lavoro: riguarda i disoccupati di lunga durata (alla ricerca di impiego da oltre 12 mesi) i quali rappresentano il 60% dell’insieme dei disoccupati e sono collocati soprattutto al Sud. C’è infine un volto inesplorato relativo alla disoccupazione degli immigrati, una condizione scarsamente indagata sia perché il lavoro degli immigrati va a costituire il segmento secondario del mercato del lavoro italiano — fatto prevalentemente di attività manuali e dequalificanti — sia perché corrisponde spesso alla domanda di lavoro nero in un’economia sommersa che in Italia è assai consistente.

Dal Workfare al Wellwork  (lavoro buono)

Il sistema di protezione sociale fordista centrato sull’occupazione industriale (e prevalentemente maschile) a tempo pieno e indeterminato è stato spiazzato dalle nuove forme di lavoro e di organizzazione sociale. Come è possibile allora ricostruirne uno modellato sulle nuove esigenze sociali e in grado di garantire quella che il sociologo francese Robert Castel definisce «una continuità dei diritti attraverso la discontinuità dei percorsi professionali»4? E come si può scongiurare che nella società odierna avanzi un lavoro che «consuma società» a svantaggio di un lavoro che «produce società»? Zucchetti non crede che la possibile via d’uscita possano essere le politiche di Workfare, ossia quelle misure che tendono a dare tutele in cambio dell’accettazione di un lavoro qualsiasi, spostando tuttavia la protezione sociale dal diritto al merito, come se chi si trovasse in condizione di disagio ne avesse una particolare colpa.
Tali politiche che hanno riscosso in questi anni una certa audience ad esempio nell’Inghilterra di Tony Blair (un po’ meno in Italia), rischiano tuttavia di generare altri problemi, in quanto danno per scontato che il disoccupato sia in grado tout court — senza cioè una complessiva presa in carico e sostegni personalizzati — di attivare le dotazioni (scarse) a disposizione e trasformarle in abilità utili per il reinserimento professionale. Spesso peraltro si tratta di occasioni di lavoro instabile che combinandosi con fragilità individuali di diverso tipo finiscono per «escludere la parte più debole dell’offerta dagli interventi messi in atto, rinforzando in qualche modo i processi di segmentazione del mercato del lavoro e della forza lavoro» (pp. 208-209). A questa strada Zucchetti preferisce quella del Wellwork (lavoro buono) che ripensa il lavoro come cardine della cittadinanza (non come luogo della paura e dell’insicurezza sociale) e come fattore chiave anche per la ricostruzione del legame tra individuo e società.
La sfida riformista per la politica si colloca dunque ad un livello più elevato della mera (de)regolamentazione del mercato del lavoro perché è dalla qualità e stabilità dell’occupazione (il «lavoro decente»), dall’investimento in un nuovo progetto di Welfare state, dal sostegno alle responsabilità familiari che può dipendere la qualità delle relazioni sociali e il volto della comunità. In questa prospettiva tre criteri devono informare le politiche del lavoro: a) la promozionalità come azione che tende a rinforzare il capitale culturale sociale e professionale degli individui che si presentano sul mercato del lavoro rendendoli più abili a cogliere le opportunità; b) la differenziazione, ossia l’adozione di politiche mirate a seconda dei contesti e delle problematiche locali, finalizzate a creare nuova occupazione o a favorire l’incontro tra domanda e offerta; c) l’integrazione, sia tra le politiche del lavoro e quelle di Welfare e a sostegno delle responsabilità familiari, per rendere esigibile la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro; sia tra quelle attive e quelle passive per favorire l’uscita definitiva dalle situazioni di disoccupazione e di disagio sociale; sia tra soggetti sociali e attori istituzionali, al fine di costruire una rete che faccia da volano per uno sviluppo partecipato e condiviso.
Infine una segnalazione merita la questione della formazione che nella società della conoscenza comincia ad essere considerata un «diritto transizionale» a tutela dei lavoratori sul mercato, ma spesso non è esigibile, capitalizzabile, certificabile. L’obiettivo è creare un sistema di learnfare (assistenza attraverso la formazione), che supporta i lavoratori nei passaggi da posto a posto. Anche in questo caso, secondo Zucchetti, è necessario ragionare in termini di «bene collettivo», non solo perché nella nuova economia delle reti il sapere non nasce e vive esclusivamente nell’azienda, ma si forma in un contesto plurale di esperienze e va ad arricchire l’intero sistema sociale e produttivo, ma anche perché finchè il rischio dell’investimento formativo rimane individuale, ossia ricade solo sul lavoratore o solo sull’imprenditore prevarranno logiche di piccolo cabotaggio che limiteranno la diffusione della formazione a tutto svantaggio dell’intero sistema. In questo senso l’autore rilancia due strumenti utili al superamento dell’impasse che si registra attualmente su questo versante: il «conto formazione individuale» da mettere a disposizione in particolare dei lavoratori «atipici» affinché possano maturare dei crediti da spendere in percorsi formativi nei periodi di vuoto lavorativo; e il «fondo comune di manodopera» creato dalle imprese che investono nella formazione, e dal quale a seconda delle esigenze possono attingere superando l’attuale competizione nel sottrarsi reciprocamente i lavoratori più qualificati.

1 E. Zucchetti, La disoccupazione. Letture, percorsi, politiche, Vita e Pensiero, Milano 2005.
2 M. Jahoda – P.F. Lazarsfeld – H. Zeisel, I disoccupati di Marienthal, Edizioni Lavoro, Roma 1986.
3 A. Accornero – F. Carmignani, I paradossi della disoccupazione, Il Mulino, Bologna 1986.
4  R. Castel, L'insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino 2004.