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E. Gorrieri, Parti uguali tra disuguali, Il Mulino, Bologna 2002

«Sparte ricchezza e addeventa puvertà». L’antico proverbio napoletano ben si adatta alla crisi finanziaria del nostro Welfare state, causa anche d’inaccettabili iniquità. Erogare le medesime prestazioni sociali a tutti i cittadini – a risorse date e a prescindere dalla loro condizione di vita – significa, infatti, distribuire poco a tutti, penalizzando perciò chi ha più bisogno. Due in sostanza le vie d’uscita: uno stato sociale sempre più «residuale» che assicura protezione solo alle categorie estremamente svantaggiate e demanda al mercato la copertura degli altri bisogni; oppure un sistema di protezione sociale che, pur garantendo l’universalismo delle prestazioni, introduca criteri di selettività in base alle necessità di ciascuno.

A favore della seconda prospettiva si schiera – e non da adesso – Ermanno Gorrieri, tornato decisamente sull’argomento con un agile e denso saggio dall’eloquente titolo, mutuato da una celebre frase di don Milani: Parti uguali fra disuguali.

 


Uguaglianza e libertà

 


Nel tempo dell’elogio della libertà – considerata il valore per eccellenza della modernità e il motore della società competitiva – Gorrieri rilancia la questione dell’uguaglianza, sottolineando la forte connessione oggi esistente «fra la disuguaglianza nel godimento dei beni disponibili in una società ricca e dinamica e l’esercizio concreto della libertà, inteso non solo nei suoi aspetti giuridici e politici, ma nella possibilità di scegliere e programmare la propria vita». In questo senso, «la riduzione delle disuguaglianze è il presupposto per l’ampliamento della libertà», ma anche per il buon funzionamento dell’economia, che non sopporta tassi troppo elevati di conflittualità sociale.

Se l’uguaglianza è la condizione della libertà, va da sé che è la politica a dover rendere compatibile il mercato con le relazioni di comunità. Senza adeguati correttivi, infatti, la competizione produce squilibri sociali ostacolando gli individui più deboli nell’approdo al traguardo della piena cittadinanza. I correttivi, in questo caso, sono quelle politiche redistributive diventate ormai un vero e proprio tabù, strette nella tenaglia dei vincoli di bilancio imposti dal patto di stabilità europeo e dalle piattaforme politiche «neoliberiste» orientate a ridurre la pressione fiscale e quindi l’intervento pubblico. E’ una tendenza questa che giocoforza porta al ridimensionamento (e non alla riforma) del welfare state e della sua irrinunciabile funzione di coesione sociale, in una fase nella quale peraltro cresce, sebbene venga modificandosi e differenziandosi, la domanda di protezione sociale.

La transizione «postfordista», segnata dalle trasformazioni del mercato del lavoro, dalla stagnante crescita demografica e dal mutamento dei ruoli di genere e dell’assetto della famiglia, tende infatti a ridisegnare la mappa del rischio sociale e modifica il concetto stesso di povertà (e quindi di disuguaglianza). A differenza di ieri, quando coincideva soprattutto con l’assenza di occupazione e di reddito, la povertà viene oggi configurandosi come un fenomeno dinamico, trasversale alle diverse categorie sociali e connotato da una multiproblematicità che può spingere nell’incertezza anche individui apparentemente garantiti.

 


Una soglia minimale di benessere

 


Debolezze di carattere cognitivo e professionale combinandosi con un fragile retroterra relazionale (familiare e sociale) espongono gli individui ad una vulnerabilità dai confini mobili che ne limita l’autonomia e che rischia di relegarli ai margini della società per periodi più o meno lunghi, quando non definitivamente. Siamo di fronte a quel processo di «insediamento nella precarietà» e di «erosione delle posizioni intermedie» di cui ha parlato Robert Castel
[1] a proposito delle trasformazioni del lavoro, concetti che possono essere considerati chiave interpretativa di più ampia portata dei mutamenti sociali in atto.

Prevenire o ridurre il rischio sociale, in un’ottica di promozione della persona, necessita quindi del rinnovamento degli schemi di protezione sociale; ciò presume che si attivino e si rendano tra loro coerenti e integrati una gamma di strumenti – non solo monetari – al fine di potenziare quelle che Amartya Sen chiama le capabilities, ossia le abilità personali nell’utilizzare le risorse e nel decidere della propria vita. Nell’ottica di Gorrieri, ciò significa ridurre quelle «disuguaglianze eccessive e ingiuste» che persistono oltre la soglia di povertà, ed assicurare a ciascun individuo non un «minimo vitale», bensì una «soglia minimale di benessere».

A fronte di una realtà sociale in movimento e fortemente differenziata non ha senso quindi erogare servizi e sussidi «a pioggia», prestazioni che si rivelano ingiuste ancorché inefficaci. Eppure il rischio che le politiche sociali nel nostro paese imbocchino definitivamente questa strada è elevato. E ciò – sottolinea Gorrieri – anche per responsabilità del centro-sinistra che, malgrado si sia distinto nella recente esperienza di governo per aver rimesso a posto i fondamentali dell’economia senza produrre gravi contraccolpi sociali, ha teso ad assecondare, per ragioni di consenso, la deriva «individualista» della nostra società, ignorando la questione dell’uguaglianza e alimentando di fatto «tesi universalistiche che si oppongono ad ogni diversificazione degli interventi in base alle condizioni economiche dei destinatari».

 

Le virtù dell’universalismo selettivo

 

Di questo ne è prova la scelta della via fiscale alla redistribuzione operata dai governi D’Alema e Amato (con ministro dell’economia Visco) che nel campo delle politiche sociali – malgrado alcuni interventi fondati sull’universalismo selettivo, quali il «reddito minimo di inserimento» e l’«assegno familiare» per i nuclei con tre o più figli, ai quali sono state tuttavia destinate scarse risorse – hanno privilegiato lo strumento delle detrazioni fiscali, che prescinde dalle condizioni dei beneficiari e quindi penalizza i più deboli. Tra questi, ad esempio, vi sono i cosiddetti «incapienti» (che in Italia, secondo uno studio del Cer, sarebbero oggi circa cinque milioni), i quali, percependo un reddito molto basso, sono automaticamente tagliati fuori da ogni beneficio di sgravio fiscale.

La filosofia che ha ispirato nella scorsa legislatura l’ex ministro Visco si distacca peraltro dal programma dell’Ulivo del 1996 e dalle conclusioni della Commissione Onofri sulla riforma della spesa sociale varata dal governo Prodi attestate sulla linea dell’universalismo selettivo, per cui le politiche redistributive del centro-sinistra sono risultate tutt’altro che alternative a quelle della destra; anzi, come Gorrieri rileva, addirittura si registrano delle convergenze con il governo Berlusconi su provvedimenti come l’abolizione della tassa di successione, l’integrazione al minimo delle pensioni e l’adozione delle detrazioni fiscali come unico strumento per alleggerire il costo dei figli.

Il paradosso è che questa filosofia è stata sposata anche in ambito cattolico. Ad esempio dal Forum delle associazioni familiari che invece di porre all’attenzione politica la questione delle famiglie in difficoltà, comprese le unioni di fatto, ha preferito in questi anni perseguire l’obiettivo della legittimazione, e quindi del sostegno, per via politica della famiglia fondata sul matrimonio; «a quanto pare – scrive Gorrieri – la difesa dell’istituzione (il cui valore ormai pochi mettono in dubbio) viene prima della solidarietà e dell’aiuto ai genitori e ai bambini che vivono in condizioni di bisogno».

La questione della famiglia rappresenta nella visione di Gorrieri l’altro elemento discriminante delle politiche redistributive, in quanto la condizione del singolo – «oltre il 90% degli italiani vive nell’ambito di una convivenza di tipo familiare» – è sensibilmente influenzata dalle risorse complessive di cui dispone la famiglia della quale egli è parte; ovviamente, ai fini della qualità della vita, diventa determinante il numero dei componenti del nucleo familiare sul quale esse vengono ripartite anche in rapporto ai loro bisogni. Perciò politiche ispirate all’universalismo puro, che adottano come parametro redistributivo l’individuo svincolato dal nucleo familiare, rischiano di accentuare, invece che ridurre, le disuguaglianze sociali.

Condizione indispensabile, tuttavia, per introdurre criteri selettivi nelle prestazioni sociali e nei trasferimenti monetari, al fine di definire chi effettivamente ne abbia diritto, è l’accertamento dei redditi e dei patrimoni dei destinatari, altrimenti detto «prova dei mezzi»; una misura questa che, pur presentando «margini di approssimazione» e richiedendo la sperimentazione di nuovi strumenti di controllo, si rende comunque indispensabile se non si vuole, come dice l’autore, «rinunciare a qualsiasi selettività e distribuire a pioggia gli interventi sociali secondo la logica perversa di un contentino a tutti».

Quello di Ermanno Gorrieri è un pensiero radicalmente riformista, finalizzato al cambiamento sociale nel segno della giustizia e dell’uguaglianza e autenticato da un lungo e coerente impegno politico a favore dei più deboli, che poco ha a che vedere con la retorica riformista oggi fortemente in auge. Come ha ricordato recentemente Giorgio Ruffolo: «il riformismo era connesso al significato di una società più giusta. Ora è stato appiccicato a quello di una società più competitiva. Una volta era riformista chi voleva estendere l’area dei diritti sociali, del reddito, del lavoro. Ora è riformista chi vuole ridurla. E non solo a destra. Anche a sinistra c’è chi civetta con questo nuovo tipo di riformismo, in modo alquanto maldestro»[2].


[1] R. Castel, Disuguaglianze e vulnerabilità sociale, in «Rassegna italiana di sociologia», gennaio-marzo 1997.

[2] G. Ruffolo, Il turbo-capitalismo e i falsi riformisti, in «La Repubblica», 12 dicembre 2002.