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R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti, tr.it., Einaudi, Torino 2004

C’era una volta la «società salariale», nella quale anche chi non possedeva risorse e mezzi economici propri – l’individuo non proprietario – poteva aspirare all’indipendenza e alla sicurezza sociale. La chiave di accesso? Un lavoro dipendente stabile, che fungeva anche da generatore di diritti (previdenza, cassa integrazione guadagni, tutela contro malattia e infortuni, ecc). Il lavoratore dipendente (al pari dell’individuo proprietario) attraverso la socializzazione del salario – il cui valore era superiore al prezzo di mercato – poteva godere di risorse aggiuntive e differite nel tempo per far fronte ai rischi futuri: una sorta di «proprietà sociale». A ciò concorrevano favorevoli condizioni di contesto: la crescita economica, uno Stato nazionale sovrano nelle politiche fiscali e redistributive, la produzione organizzata nella grande impresa manifatturiera, una contrattazione collettiva regolativa grazie alla forza rappresentativa del sindacato. Poi venne la neoglobalizzazione e lo scenario mutò. La libera circolazione dei capitali su scala globale e l’allargamento dei mercati rese l’economia instabile. Aumentò la competizione. Il mutamento della domanda e la necessità di ridurre i costi richiesero un’organizzazione produttiva snella più congeniale alla piccola impresa, ai distretti e alle reti. Dal lavoro si passò ai lavori: si allargò l’area dei lavoratori dipendenti flessibili, discontinui, polivalenti, ma anche quella degli autonomi parasubordinati (come i co.co.co), spiazzando così le tutele vigenti e la contrattazione sindacale. Cambiarono le condizioni esterne: lo Stato, pressato dalla crisi fiscale e percepito come un vincolo allo sviluppo, fece un passo indietro, trasferendo all’impresa, con politiche di incentivi fiscali e normativi per ridurre il costo e le regole del lavoro, gli obiettivi della crescita economica e dell’occupazione. Morale della favola: con la crisi della «modernità organizzata» tornò l’insicurezza sociale e si insediò quella che Ulrich Beck ha definito «la società del rischio».

La «mitologia della sicurezza» e la domanda reale di protezione

Negli ultimi trent’anni – riassunta molto schematicamente – la storia è andata così. Ne parla in un interessante volume sull’insicurezza sociale, Robert Castel1, storico e sociologo del lavoro, con l’intento di tracciare alcune ipotesi di riforma del welfare state partendo dalle «linee di frattura che ridisegnano oggi la configurazione delle protezioni, fino a minacciare di rimettere in discussione la possibilità di continuare a formare una società di simili». Preliminarmente, tuttavia, Castel mette in guardia dall’avanzare nella società odierna della «mitologia della sicurezza»: l’indebolimento delle protezioni classiche e la comparsa di nuovi rischi per l’umanità (industriali, sanitari, ecologici, naturali) crea infatti negli individui una sorta di «frustrazione sicuritaria» che porta a distorcere la realtà e a inquinare, accrescendola a dismisura, la domanda di sicurezza sociale. Che alimenta peraltro quella «ideologia generalizzata e indifferenziata del rischio» usata dalla cultura neoliberale per decretare la fine delle forme pubbliche di protezione e l’ineluttabilità dello sviluppo delle assicurazioni private. In questo senso vi è «una relazione stretta tra l’esplosione dei rischi, l’iperindividualizzazione delle pratiche e la privatizzazione delle assicurazioni». Per Castel invece non c’è alternativa: una maggior sicurezza è possibile solo nell’ambito di politiche pubbliche e collettive, pena l’accentuazione delle disuguaglianze e della marginalità, che quando investono figure sociali già a rischio di esclusione danno luogo al riemergere delle «classi pericolose» e con essi alle paure e all’intolleranza dell’opinione pubblica e quindi, politicamente, allo slittamento della questione sicurezza dal piano sociale a quello dell’ordine pubblico. Ciò amplifica i limiti attuali del welfare state, chiamato a fare i conti con i mutamenti strutturali dell’organizzazione capitalistica – foriera di una «messa in mobilità generalizzata delle relazioni di lavoro» – e con le accresciute aspettative di protezione verso lo Stato («salvo poi rimproverargli di essere troppo invadente») indotte dagli stessi benefici del welfare che ha reso più autonomi gli individui dalla comunità di origine (famiglia in primis), per cui di fronte alla crisi del vecchio sistema di garanzie «l’individuo diventa al tempo stesso fragile ed esigente, poiché è abituato alla sicurezza ed è roso dalla paura di perderla». Su quali pilastri allora si può ridisegnare la protezione sociale in un contesto socio-economico dove: a) il lavoro (in forme plurali) rimane il fattore chiave ma non esclusivo dell’integrazione sociale; b) la povertà – come mostra il fenomeno dei working poor – non coincide più solo con la disoccupazione; c) l’emergente ruolo femminile e l’instabilità della famiglia rimettono in questione le modalità del lavoro di cura e il canale «fordista» di distribuzione del reddito e dei diritti (il lavoro del capofamiglia maschio); d) i percorsi di cittadinanza divergono da quelli passati per le crescenti aspettative soggettive professionali e non?

Protezione e promozione degli individui

Per il sociologo francese la sfida è ardua, senza certezze sugli esiti, ma irrinunciabile, in quanto riprodurre meccanicamente un modello di protezione incardinato sul lavoro standard aggraverebbe il dualismo tra chi è garantito e chi è precario. Tuttavia, i tentativi in corso di riforma del welfare, ad avviso di Castel, pur tamponando meritoriamente situazioni di esclusione sociale destinate a peggiorare, non rappresentano un’alternativa radicale al sistema dato (che copre ancora la maggioranza degli individui) e inoltre rischiano di ridurre, in un’ottica di welfare minimo, la protezione «a un aiuto, spesso di mediocre qualità, riservato ai più deprivati». In particolare il sociologo francese si riferisce ad alcune politiche di «welfare to work» (l’assistenza sociale verso il lavoro) che tendono a spostare il baricentro delle protezioni dal sistema collettivo della «proprietà sociale» ai programmi individualizzati di inclusione sociale, e dal diritto al merito, come se i destinatari di tali misure «fossero essi stessi i principali responsabili della condizione in cui si trovano». Se, infatti, la protezione sociale rappresenta «la condizione basilare affinchè tutti possano continuare ad appartenere a una società di simili», il welfare state, non può limitarsi al contrasto della povertà per chi è in situazione estrema, né al risarcimento dei danni, ma deve offrire a tutti i cittadini (sia pure con criteri selettivi secondo le necessità e il reddito di ciascuno) uno scudo verso i rischi sociali, fatto al tempo stesso di misure di protezione e percorsi di promozione sociale. Che oggi significa, per fare solo qualche esempio di ampliamento delle tutele, supportare l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, ampliando anche i servizi sociali (asili nido) e riducendo il costo dei figli a carico delle famiglie numerose; offrire opportunità formative e sostegno al reddito ai lavoratori con carriere discontinue (i nuovi ammortizzatori sociali); destinare risorse e servizi agli anziani non autosufficienti, ecc. Quale prospettiva allora ci attende? Castel, pur consapevole che il lavoro rischia di rappresentare oggi «la principale variabile di aggiustamento per massimizzare i profitti», si chiede tuttavia come a fronte della richiesta di maggiore flessibilità, polivalenza e capacità di adattamento al nuovo modo di produrre, un lavoratore possa «comportarsi in questo modo senza un minimo di sicurezza e di protezioni?». L’interrogativo ne richiama un altro più grande: quale sarà nell’era della neoglobalizzazione il percorso di sviluppo delle società cosiddette avanzate? Sapranno esse posizionarsi sulla via alta della competizione continuando ad assicurare qualità della vita e delle relazioni sociali?

Il diritto sociale di prelievo

Il lavoro, attorno al quale «continua a giocarsi una parte essenziale del destino sociale della grande maggioranza della popolazione», rimane in questo senso, pur nelle sue forme plurali, il fattore discriminante del processo di riforma del welfare, in quanto fonte principale – anche se non più l’unica – di redistribuzione dei diritti e del reddito. Perciò, secondo Castel, bisognerebbe ridisegnare lo statuto del lavoro trasferendo i diritti dall’impiego alla persona lavoratore, per garantire «una continuità dei diritti attraverso la discontinuità dei percorsi professionali»: «diritti di transizione» per conciliare mobilità e protezioni. Un esempio è il diritto alla formazione erogata nell’arco dell’intero percorso professionale. Castel rilancia dunque una delle proposte elaborate da Alain Supiot curatore del «Rapporto sul futuro del lavoro» redatto da un gruppo di esperti per la Commissione europea2, (che nel nostro paese, visto il tenore del dibattito sulla flessibilità, non poteva che avere scarsa eco). Si tratta della definizione di uno status professionale degli individui, che includa tutte le tipologie di lavoro, dipendente o indipendente, e che garantisca un diritto sociale di prelievo. Ciascun lavoratore maturerebbe «un credito su dei fondi di cui potrebbe fare libero utilizzo (di qui la nozione di diritti di prelievo) in diversi momenti della vita»3, ossia la disponibilità di un capitale (in moneta o in diritti) da utilizzare secondo le personali esigenze: per congedi parentali, aspettative per motivi di studio, per periodi sabbatici, per l’aggiornamento professionale e culturale, per l’impegno in attività sociali, per la copertura del reddito nella fasi di non-lavoro volontario o involontario. Un sistema di «sicurezza attiva» sostenuto collettivamente e co-finanziato anche da Stato e imprese, in grado di rispondere alla domanda individuale di cittadinanza ma nel quadro di protezioni collettive, che darebbe modo al cittadino-lavoratore di poter usare la flessibilità (oggi gestita prevalentemente dall’impresa) anche a proprio vantaggio, nella prospettiva di una migliore conciliazione tra lavoro e vita sociale, con un indubbio beneficio per la società nel suo insieme in termini di innovazione, qualità e coesione sociale. Vivremo ancora in una società di simili? E cosa significa «essere protetti» nella società del rischio? Castel ritiene che la partita della protezione sociale si giochi oggi soprattutto «nel punto di intersezione tra il lavoro e il mercato»: per questo, al fine di un necessario nuovo compromesso, magari a livello sovranazionale, tra politica ed economia, tra capitale e lavoro, rilancia la questione ancora attuale e ineludibile posta da Karl Polanyi, ossia se si può e come addomesticare il mercato. 1 R. Castel, L'insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino 2004 2 A. Supiot (a cura di), Au-delà de l'emploi, Flammarion, Paris 1999, Trad. it. (a cura di P. Barbieri ed E. Mingione), Il futuro del lavoro, Carocci, Roma 2003 3 Ibid.