S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Einaudi, Torino 2004
Nel tempo della modernità «liquida», per usare un termine del sociologo Bauman, i punti di riferimento si sciolgono in un indistinto «reale». In cui la memoria perde la sua «solidità». Essa diventa, per dir così, incolore. Ognuno, nel guardare al «suo» passato, cerca una possibile legittimazione nel presente. Tutto viene parificato, livellato, «giustificato». Dalle piccole alle grandi «narrazioni» civili.
Così è, e così funziona il «revisionismo» storico. L’iconoclastia «revisionistica», ammantata da uno pseudo senso storico, in questi ultimi anni, della cosiddetta «seconda Repubblica», è servita, tra l’altro, per attaccare la «narrazione civile» che sta alla base della nostra identità politica e sociale: l’antifascismo e la guerra di liberazione. «Fare storia» è però cosa ben più seria dell’uso politico, per fini politici attuali, della storia. Scrive, al riguardo Marc Bloch — un grande maestro della ricerca storica e fondatore della scuola degli «Annales» — che la storia deve proporre «invece d’una semplice enumerazione… una classificazione razionale e una progressiva intelligibilità»1. «Progressiva intelligibilità» è altra cosa dalla «grande bugia revisionista», come la definisce Giorgio Bocca. Non si da ricerca storica, e quindi memoria di una nazione, senza una distinzione delle ragioni e dei torti.
Ebbene il revisionismo nostrano mira proprio a parificare le ragioni e i torti, in una sorta di «buonismo» bipartisan, della guerra di liberazione dal nazifascismo. Così si mettono sullo stesso piano, ad esempio, i caduti martiri di Cefalonia, trucidati dai nazisti per non essersi arresi dopo l’armistizio dell’8 settembre, con i caduti di El Alamein, vittime sì ma di «una guerra di aggressione che, laddove vittoriosa, avrebbe comportato l’avvento su scala mondiale della pax hitleriana». Contro questo pericoloso tentativo, messo in atto dal nuovo «verbo post-antifascista», si scaglia Sergio Luzzatto nel suo libro La crisi dell’antifascismo2.
Tra storia e memoria
Quello di Luzzatto è un tentativo, onesto ed appassionato, di mettere in chiaro il pericolo, che corrono in particolare le nuove generazioni, rappresentato dalla vulgata post-antifascista (composta da una sorta di «comandamenti» tutti tesi a rideclinare la storia dell’Italia contemporanea). Centrale, infatti, nell’analisi proposta da Luzzatto è l’elogio della «memoria divisa»: «Pensiamoci due volte — scrive — prima di sottoscrivere il quarto comandamento del verbo post-antifascista “Onora il padre e la madre”. Qualunque padre e qualunque madre. Cos’altro invitano a fare — in effetti — gli storici, giornalisti, i politici che perorano la causa di una riconciliazione nazionale tra i figli dei resistenti e i figli dei saloini, o che sognano addirittura lo spettacolo di un abbraccio in extremis tra gli epigoni delle brigate partigiane e gli epigoni delle brigate nere, se non annacquare le motivazioni ideologiche, psicologiche, etiche degli uni e degli altri nell’oceano di un embrassons nous generale?»3. Cioè, per Luzzatto, è fondamentale superare l’equivoco tra memoria condivisa e memoria collettiva. Quest’ultima non equivale necessariamente alla memoria condivisa: «perché — prosegue — …rimanda ad unico passato, cui nessuno di noi può sottrarsi e che coincide appunto con la nostra storia; mentre l’altra (quella condivisa ndr) sembra presumere una operazione più o meno forzosa di azzeramento delle identità e di occultamento delle differenze. Il rischio di una memoria condivisa è una “smemoratezza patteggiata”, la comunione nella dimenticanza»4 Insomma, per lo storico torinese, non vi possono essere storie compatibili in chi stava su fronti opposti: «quel che conta non è l’uguaglianza nella morte, ma la disuguaglianza nella vita»5.
Per questo non si può che rimanere sconcertati, ad esempio, di fronte ad opere come il dizionario Italiane, pubblicato dal Ministero per le Pari opportunità, dove, nella prefazione, la ministra Prestigiacomo afferma che a tutte le duecentocinquanta donne del dizionario «noi dobbiamo comunque dire grazie. Tutta l’Italia deve un grazie. Ed ha il dovere civile di coltivarne la memoria». Qui sono messe sullo stesso piano, ad esempio,una donna come Piera Matteschi Fondelli, fascista della prima ora e comandante del Servizio ausiliario femminile della Repubblica di Salò, e Tina Anselmi, partigiana valorosa e luminoso esempio di cattolica democratica. Oppure le donne del duce (la moglie e l’amante) con Nilde Iotti e Camilla Ravera. Insomma, al fondo, l’idea insopportabile che una vita valga l’altra e che «anche i frutti più bacati contribuiscano alla riuscita di una buona macedonia»6.
Così, sessant’anni dopo, vale la pena tenere in vita l’antifascismo, dopo che sono cadute le ideologie totalitarie del novecento? Ha ancora senso? Noi pensiamo di sì. L’antifascismo non è una malattia senile. Anzi proprio la fragile transizione italiana, che qualcuno ha definito un «cantiere sempre aperto», ci fa ricordare che quella lotta di liberazione dal nazifascismo ci ha lasciato un’eredità preziosa: una «cultura della liberazione» che ha nell’antifascismo un perno essenziale. «La cultura della liberazione — ha scritto Pietro Scoppola — non implica un punto d’arrivo, non ha, come la cultura della rivoluzione, modelli definiti di società da proporre, si coniuga con il realismo della politica, ma rappresenta un principio costante di non appagamento rispetto a tutti i risultati raggiunti e costituisce perciò quell’elemento di tensione utopica che tiene viva la democrazia e ne garantisce lo sviluppo»7.
Questa è la nostra buona memoria!
1 Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, tr. it., Einaudi, Torino 2003, p. 34.
2 S. Luzzatto, La crisi dell'antifascismo, Einaudi, Torino 2004, pp. 105.
3 Ibid., p. 21.
4 Ibid., p. 23.
5 Ibid., p. 41.
6 Ibid., p. 67.
7 P. Scoppola, 25 Aprile. Liberazione, Einaudi, Torino 1995, p. 100.
