M. Franzinelli-R. Bottoni (a cura di), Chiesa e guerra nel Novecento, Il Mulino, Bologna 2005
Un libro collettivo indaga una storia lunga un secolo. L’evoluzione dell’approccio della Chiesae e del cattolicesimo alla tragica questione della guerra, tra contraddizioni e squarci di novità. Un percorso da storicizzare, ma ricco anche di insegnamenti per l’attualità.
Il volume Chiesa e guerra 1 raccoglie gli atti di un Convegno di studi promosso congiuntamente dall’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia e dal Centro ecumenico europeo per la pace, svoltosi presso l’Archivio di Stato di Milano nell’aprile 2003. Oltre all’Introduzione di Mimmo Franzinelli e alle Conclusioni di Giovanni Miccoli, raccoglie 20 contributi, tutti di indubbio spessore scientifico, che focalizzano una questione di grande rilevanza teorica e insieme di estrema attualità: l’atteggiamento della Chiesa nei confronti della guerra. Un atteggiamento che è andato progressivamente evolvendo, anzitutto in chiave teologica e quindi nelle sue ricadute in chiave storico-politica.
«Nella tradizione cristiana la questione della guerra ha conosciuto tre esiti: pacifismo, “guerra giusta”, crociata» (A. Prosperi, p. 44). Sono le tre letture più nette, che dalla parola evangelica fanno discendere posizioni diverse (e diversamente collocate in sede storica) per quanto attiene l’atteggiamento dei cristiani. Da un lato il rifiuto della violenza non può non trovare una ispirazione diretta nelle parole stesse di Gesù, dall’altro l’appellativo di «giusta» può accompagnarsi alla guerra in determinati casi, specie se condotta a scopo di difesa. Ma cosa si tratta di difendere? La propria casa, la propria gente, oppure i confini (mai definitivamente sanciti) di uno Stato o di una civiltà «cristiana»? Ecco allora che i parametri si diversificano, fino a contemplare l’opzione delle crociate e della guerra «santa».
La tensionalità percorre nell’intimo la vita della Chiesa. Si può citare emblematicamente il saggio Benedetto XV e la sacralizzazione della prima guerra mondiale (R. Morozzo della Rocca, pp. 165ss). Sia Pio X che Benedetto XV furono assai fermi nel condannare la guerra (definita «inutile strage», «suicidio dell’Europa civile», «tragedia della follia umana»); e tuttavia era difficile trascurare il fatto che gran parte dei soldati, su un fronte come sull’altro, erano proprio cristiani. A Parigi, l’autorevole domenicano padre Sertillanges predicava: «Santo Padre, non vogliamo saperne della vostra pace!». La spaccatura della cristianità non poteva essere più eclatante. La questione, è noto, si sarebbe ripresentata con tinte ancora più drammatiche qualche decennio dopo, imponendo reazioni tese ad evitare gli stermini di massa, ma anche a salvaguardare (come «male minore») alcuni diritti essenziali della Chiesa.
Un riferimento particolare merita la guerra coloniale in Etiopia (L. Ceci, pp. 321ss.). E’ il momento di massima espansione dell’impero fascista, ed è pure l’occasione per una crescente presenza missionaria in territori finora considerati «lontani». Per tacere di altri interventi, si può ricordare che nel 1935 l’ordinario militare, mons. Bartolomasi, benediceva i cappellani militari in partenza per l’Africa orientale con le seguenti espressioni: unitamente ai militari, essi portano «il nome grande e la civiltà cristiana ed italiana in una nazione — se nazione può chiamarsi un aggregato di razze, di lingue, di costumi e di religioni — la quale è in arretrato di secoli della civiltà che affratella e sublima gli uomini nella fede e nella libertà di figli di Dio». I missionari presenti in Etiopia — grazie alla loro conoscenza del territorio, e fino alla trasmissione di documenti e cartine topografiche — furono spesso di utile supporto alle strategie militari fasciste. Si tratta di pagine non gloriose, a dire quanto i condizionamenti culturali abbiano sfocato, a volte fino a travisarlo nel profondo, il discernimento cristiano. Certo vi sono episodi in controtendenza, forse meno noti ma non per questo di poca rilevanza (vedi lo sforzo profuso dalla stampa clandestina cattolica in epoca fascista: R. Bottoni, pp. 449ss.), eppure è difficile sottrarsi alla percezione circa le molte occasioni perdute in ordine ad una più lucida testimonianza cristiana.
L’ultima delle sei sezioni è dedicata alla «Pacem in terris» di Giovanni XXIII e alla svolta conciliare. I tempi sono mutati, ma soprattutto è mutato l’atteggiamento del magistero, ora più decisamente schierato a difesa dei fondamentali diritti umani, prima ancora che dei diritti della Chiesa stessa. Lo esprime bene L. Martini: «La novità di papa Giovanni, sotto questo profilo, mi sembra data piuttosto dalla ricerca di un contatto il più possibile diretto con gli “uomini di buona volontà”» (p. 637). Su temi quali la pace e la guerra, la responsabilità — grandissima — della Chiesa si incrocia con quella di ogni uomo e di ogni potenza terrena, nel comune sforzo per costruire una società più giusta.
Possiamo in conclusione porre una domanda, che investe i saggi contenuti nel volume e, attraverso di essi, interroga l’atteggiamento tenuto dalla Chiesa: a fronte di una dinamica così drammatica come la guerra, ma allo stesso tempo considerando l’estrema complessità dei fattori che sempre co-determinano le decisioni e le vicende storiche, quanto si può affermare che la parola della Chiesa assuma un carattere di assolutezza, e quanto invece risulta caratterizzata da una relatività che ne percorre in radice l’intenzione? In altri termini, ci troviamo di fronte ad una dialettica all’apparenza insanabile: da un lato il deciso no della Chiesa alla guerra dovrebbe risultare scontato; dall’altro i molteplici elementi in gioco risultano estremamente carichi di valenza, percorrendo l’ampio spettro semantico che va dall’attestazione della guerra «giusta» fino all’attenzione ai fattori concomitanti che finiscono per rendere meno univoca la reazione della Chiesa a fronte di determinate situazioni.
Come esempio si può citare — in relazione al saggio di G. Verucci, Pace e guerra nelle linee dei pontificati di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, pp. 685ss.) — la crisi internazionale seguita, nel 1982, alla decisione degli Stati Uniti e della Nato di installare in Europa occidentale i missili a lunga gittata Pershing e Cruise, da contrapporre agli SS20 già installati dall’Unione Sovietica. Non ci troviamo in condizioni belliche, ma gli scenari ne stavano adducendo tutte le premesse, in un crescendo di guerra fredda che nulla annunciava di buono. I vescovi statunitensi si erano pronunciati in maniera totalmente negativa, con documenti improntati ad un radicale antibellicismo; viceversa la Santa sede si mostrava assai più possibilista, concedendo il suo credito nei confronti di un riarmo finalizzato comunque non alla guerra, ma ad un equilibrio capace di preludere a una pace duratura. Significativo il richiamo del papa, nel messaggio della giornata della pace del 1° gennaio 1982, ad un principio in sé incontrovertibile, e tuttavia problematico nella sue applicazione ad una deterrenza portata fino alle soglie della guerra nucleare: «i popoli hanno il diritto ed anche il dovere di proteggere, con l’uso di mezzi proporzionati, la loro esistenza e la loro libertà contro un ingiusto aggressore».
Inizia così a profilarsi la risposta alle domande poste sopra: se i principi sono netti, chiari, occorre riconoscere che la loro applicazione non risulta univoca, anzi talora è destinata a dare adito a soluzioni tra loro profondamente diverse. È il gioco della dialettica storica, quella medesima dialettica che avrebbe condotto Giovanni Paolo II, dopo la caduta dei regimi comunisti, e dunque dopo la fine di una logica contrappositiva basata sulla deterrenza militare, a condannare con decisione gli interventi militari degli Stati Uniti in Iraq, inutilmente mascherati sotto il nome di «guerra preventiva» e di «esportazione della democrazia». Non sono cambiati i principi; sono invece cambiati gli scenari internazionali, e dunque le finalità pratiche di determinate decisioni.
Un’ultima considerazione: certamente il Concilio Vaticano II ha segnato una svolta decisiva, sia in ordine all’autocomprensione dottrinale che dal punto di vista dell’atteggiamento storico-concreto della chiesa. Sarebbe però scorretto giudicare a posteriori, a partire dalle acquisizioni conciliari, le prese di posizione della chiesa nei secoli e nei decenni precedenti. Ancora una volta non si può evitare di «relativizzare», almeno entro certi limiti e calandole nei loro contesti, le scelte e le azioni. Ciò non significa rinunciare al dovere di valutare criticamente gli eventi; piuttosto, ogni rilettura è chiamata a non trascurare il profilo di condizionatezza storica che le vicende recano necessariamente al loro interno. Compresa la guerra, per quanto sconcertante possa apparirci ogni cedimento nei confronti di una verità cristiana che proclama «beati gli operatori di pace» (Mt 5,9); e salvo aggiungere che il detto di Gesù «non sono venuto a portare la pace sulla terra, ma la divisione» (Lc 12,51) non voleva indicare i conflitti del potere e delle armi, ma la lotta spirituale del bene contro il male. Eppure la storia della Chiesa è segnata dalle crociate, dalle guerre di religione, dagli eccessi dell’Inquisizione, fino alla benedizione delle armi dei soldati che partivano per il fronte…
