Social Watch 2002. Impatto globale della globalizzazione nel mondo, Emi, Bologna 2002
Lo scenario sullo sfondo
L’origine del progetto Social Watch (o Control ciudadano) risale al 1995. Nel marzo di quell’anno si tenne infatti a Copenaghen il World Social Summit, il vertice per lo Sviluppo sociale organizzato dalle Nazioni Unite. A quell’incontro presero parte 115 tra capi di Stato e di governo, stabilendo un record di partecipazioni ad «alto livello istituzionale», superato soltanto dal Millennium Summit tenutosi a New York cinque anni dopo. A Copenaghen tema principale di discussione fu lo «stato di crisi» dell’impianto generale delle politiche di sviluppo, cosiddetto «sostenibile». In quella sede, tra le altre cose, si discusse della necessità di istituire barriere e reti protettive per prevenire e affrontare le crisi finanziarie, si ritenne necessaria una rivalutazione dell’impatto sociale delle politiche di «aggiustamento strutturale» e si auspicò una maggior interazione tra istituti internazionali o sovranazionali e organismi nazionali, che implicava alla base un rilancio generale dell’Onu e delle sue agenzie specializzate. I rappresentanti degli istituti fondamentali del sistema di architettura finanziaria nato quarant’anni prima a Bretton Woods – Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale – si dissero disponibili a discutere una revisione delle proprie strategie e i delegati politici si impegnarono in dichiarazioni programmatiche di alto profilo. Il vertice si concluse quindi con una serie di impegni a favore dello sviluppo sociale, come recitava il documento finale in cui si poteva leggere: «sappiamo che la povertà, la mancanza di un’occupazione produttiva e la disintegrazione sociale sono un’offesa alla dignità umana. Sappiamo anche che sono negativamente rafforzate, costituendo una perdita di risorse umane e una manifestazione d’inefficienza del funzionamento dei mercati e delle istituzioni e dei processi economici e sociali…» . A Copenaghen l’urgenza della lotta alla povertà era risultato quindi il tema dominante; il problema era però da un lato identificare le forme in divenire di tale sempre più multiforme povertà e dall’altro rapportarli a precise scelte politiche che si confrontassero con i caratteri di un sistema economico internazionale che dalla fine del bipolarismo era andato facendosi sempre più aggressivo, invasivo, rapido (l’effetto della New Economy), «finanziarizzato» e concentrato.
Tra i vari punti esposti nel Programma d’azione elaborato al termine di quel summit si ammetteva quindi non soltanto l’esigenza di porre dei correttivi sostanziali ai criteri gestionali degli organismi sovranazionali (il richiamo indiretto andava al preambolo della Carta delle Nazioni Unite) ma anche alle politiche economiche dei singoli Stati, che dovevano riservare una crescente attenzione all’irrisolta questione della giustizia sociale, tanto da scrivervi: «…occorrono politiche pubbliche per correggere le disfunzioni del mercato, per garantire la stabilità sociale e creare un ambiente economico nazionale e internazionale che promuova la crescita sostenibile su scala mondiale». Nel tono e nelle forme quel passaggio sembrava un ritorno agli appelli che l’economista britannico John Maynard Keynes aveva fatto alla classe politica internazionale nel 1944, quando ancora era nell’aria la proposta di un’unica grande moneta super partes di riferimento per i mercati finanziari (il progetto del bancor) mentre si andavano delineando gli elementi strutturali di quello che sarebbe poi divenuto il Fmi.
I buoni propositi esposti pubblicamente a Copenaghen che, pur senza fissare obblighi precisi per gli Stati, annunciavano, in tempi brevi, significativi passi avanti sul fronte dello sradicamento della povertà, hanno in realtà avuto un ben diverso impatto spostandosi dal piano delle dichiarazioni di principio a quello delle applicazioni, scontrandosi in questo anche con una serie di fenomeni socio-economici acceleratisi nella seconda metà degli anni Novanta. I ripetuti richiami del segretario generale dell’Onu, il ghanese Kofi Annan, ad una revisione strutturale del più grande organismo mondiale permanente, sono caduti ripetutamente nel vuoto; i progetti di rilancio delle politiche di sviluppo studiati in ambito Unrisd (Istituto delle Nazioni Unite per lo sviluppo sociale) hanno faticato a decollare, così come gli appelli dell’Undp (Programma Onu per lo Sviluppo) ad un più razionale ed equo utilizzo delle risorse tecnologiche liberate dal processo di globalizzazione, hanno avuto spesso interlocutori politicamente disattenti. Intanto la delocalizzazione dei sistemi produttivi, accelerata sin dall’avvio della stagione della deregulation, unita alla nuova dimensione di mercati sempre più vasti ma non necessariamente solidi (si è fortemente accentuato ad esempio l’elemento di volatilità), né effettivamente liberi così come è stato fatto credere, ha avuto una serie di significative ripercussioni politiche, rimettendo in discussione il ruolo stesso degli Stati, sempre più uniformi nel delineare strategie di lotta alla povertà improntate ad un eccessivo e spesso avventuroso «snellimento» delle reti di protezione sociale. Una lunga serie di terremoti finanziari più o meno localizzati (dalla crisi asiatica, passando per quella russa e brasiliana, fino a quella argentina) ha quindi scosso il sistema, contribuendo a radicalizzare ulteriormente tale processo.
Il passaggio del millennio, simbolicamente rappresentato dalla fine del Gatt e dall’avvento prepotente sulla scena dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, ha quindi evidenziato una serie di significative contraddizioni. Un decennio di crescita apparentemente inarrestabile del sistema economico occidentale, trainato dalla corsa dell’economia statunitense e legato a fenomeni quali il boom della New Economy e l’abbassamento del sistema di tariffe internazionali, si è chiuso in modo preoccupante ed interlocutorio nelle forme di una nuova recessione.
Tra i risultati vi è quello che il mondo oggi appare segnato da un fenomeno di crescente polarizzazione della ricchezza, sia a livello globale che all’interno dei singoli Stati, sia nel Sud che nel Nord.
Una nuova forma di partecipazione politica?
Questo quindi lo scenario sullo sfondo in cui si può collocare il progetto Social Watch. A Copenaghen, tra le varie strategie dirette a fortificare un «sistema integrato» di lotta alla povertà, si era auspicata da parte di molti una maggior collaborazione tra attori istituzionali (nazionali e sovranazionali) e organismi della società civile. Mentre si tenevano i lavori del Social Forum, la capitale danese ospitò parallelamente nella ex base navale di Holmen l’Ngo Forum, un grande e multiforme consesso di organizzazioni non governative, associazioni, reti e movimenti religiosi, politici e culturali, provenienti dai cinque continenti e impegnati nel campo dello sviluppo sociale. Mentre si apriva una porta ad una collaborazione più sistemica con gli apparati istituzionali, s’instauravano quindi nuovi meccanismi di collegamento in reti e network associativi, con modalità e caratteri assolutamente inediti nella storia dei movimenti civili e con grande denominatore comune proprio l’impegno nella lotta alla povertà. Mai prima di allora una tale gruppo di organismi diversi tra loro, per storia, finalità e caratteri si era riunito per provare a lavorare e confrontarsi su una serie di basi programmatiche e formule propositive. In un certo senso quello fu anche il primo significativo appuntamento di una serie di «forum alternativi» che di lì in poi, passando per Pechino, Seattle, Il Cairo, Johannesburg e Porto Alegre, avrebbero accompagnato, con alterne fortune e cambiando in parte fisionomia e impatto politico, i diversi appuntamenti internazionali seguiti a quel summit del 1995. A Copenaghen un folto gruppo di ong (più di 2000 presero parte al contro-vertice) studiarono il modo per darsi un coordinamento più strutturato ed elaborare uno strumento di lavoro che da un lato mirasse a ottenere una funzione di supporto critico all’azione istituzionale, dall’altro fornisse originali spunti di analisi e riflessione ispirati alla ricerca di nuove strategie d’intervento.
Fu in tale contesto che prese forma l’idea del Social Watch: dar vita cioè ad un rapporto annuale che fornisse un «luogo comune» di confronto, garantisse forme di monitoraggio e divenisse quello che fu poi ribattezzato (per l’edizione 2000) un «Osservatorio internazionale sullo sviluppo sociale». Punto di partenza era quindi l’impegno a monitorare gli obiettivi fissati dai governi, evidenziando la distanza dei risultati reali dai target annunciati ed elaborando propri indici di progresso o regresso da applicare ai singoli casi studiati. In tal senso il Social Watch, dalla sua prima edizione del 1996, ha in questi anni non solo fornito una serie di prospettive interessanti sull’andamento della questione della lotta alla povertà, ma anche avviato una profonda riflessione sugli indicatori sociali oggi disponibili «sul mercato» e utilizzati per stabilire lo stato di paesi, regioni o macro-aree, cercando al contempo di individuare una serie di variabili chiave e divenendo un significativo punto di riferimento tra le pubblicazioni di settore. La tecnica è quella di «mettere in circolo» le competenze delle diverse organizzazioni coinvolte, elaborando uno strumento che si confronta con i tradizionali rapporti annuali elaborati da diversi istituti e agenzie (Banca Mondiale, Unesco, Organizzazione mondiale della sanità, Fao, Ilo,…), con un occhio di riguardo per il Rapporto sullo sviluppo umano dell’Undp, da tempo alla ricerca di nuove forme di monitoraggio dello «stato del mondo». Nel 2002 ad esempio questo ha introdotto una nuova serie di indicatori particolarmente interessanti – anche per il caso italiano – relativi alla qualità delle democrazie, apparsa in più casi inversamente proporzionale rispetto proprio al fenomeno di polarizzazione della ricchezza.
Il rapporto 2002
Anche il Social Watch 2002. Impatto sociale della globalizzazione nel mondo (Emi, Bologna, 2002), curato come sempre dall’Instituto del Tercer Mundo di Montevideo, sotto la supervisione di un comitato internazionale presieduto dal Roberto Bissio, nasce quindi dal coinvolgimento di centinaia di ong. La pubblicazione italiana è curata da quattro associazioni diverse per natura e aree d’intervento: Mani tese (che è anche il coordinatore europeo del progetto), Acli, Arci e Movimondo. Come i suoi predecessori anche questo rapporto annuale si struttura in tre parti. La prima è dedicata all’elaborazione di tabelle e indicatori, diretti appunto al monitoraggio dell’attuazione degli impegni assunti da autorità politiche e organismi internazionali. Questa parte, a sua volta, si struttura in tre gruppi di tabelle. Le prime sono quelle relative all’agenda del Summit del 1995 e riguardano, tra le altre cose, il consolidamento del sistema d’istruzione primaria per i bambini in età scolare (l’obiettivo – ampiamente mancato – era dell’80% entro il 2000), la riduzione del tasso di mortalità infantile, il controllo dei livelli di malnutrizione, la crescita delle garanzie di accesso ai servizi igienici, di salute e, tema sempre più sentito (e dibattuto nelle scorse settimane a Kyoto), all’acqua potabile. Il bilancio finale è poco confortante e vede una vasta gamma di paesi su posizioni di regresso in più settori, rispetto all'attuazione degli obiettivi di Copenaghen. Prosecuzione naturale di questi dati è una tabella allegata al volume con una mappatura della disparità di ricchezza tra paesi e in seno agli stessi. Il secondo gruppo di tabelle concerne invece una serie di questioni di «genere» fissate in agenda al Summit di Pechino sulla condizione della donna. Il terzo, infine, riguarda alcune «questioni calde» legate all’impiego della spesa pubblica (e alla volontà politica d’intervento) da parte dei singoli Stati e ai target emersi in occasione del Millennium summit. In questo quadro, se confortante appare in più di un caso la diminuzione della spesa per il debito estero (pur sullo sfondo di una generale e irrisolta crisi legata al pagamento del servizio sul debito da parte dei paesi poveri), più preoccupanti si rivelano i dati sull’aumento delle spese nel settore della difesa. Segue quindi l’elenco dei paesi che hanno ratificato o meno una serie di accordi internazionali specifici quali l’abolizione del lavoro minorile o delle forme di discriminazione nell’impiego di manodopera.
La seconda parte del volume è dedicata quindi ai rapporti tematici incentrati appunto sull’impatto sociale della globalizzazione nel mondo. Questo tema è affrontato attraverso una serie di relazioni dedicate a specifici argomenti; tra queste ricordo quella delle italiane Marina Ponti e Federica Biondi di Mani tese che si occupano dei lati oscuri del processo di «finanziarizzazione» dell’economia (toccando nervi scoperti del sistema quali la proliferazione dei paradisi fiscali), spendendosi per la necessità d’introdurre forme di maggior controllo delle transazioni finanziarie, che vadano anche oltre la proposta della Tobin Tax. Rob Mills e Lollo Darin-Ericson dell’European Network on Debt and Development propongono una serie di critiche alle Poverty Reduction Strategy Papers elaborate dalle istituzioni finanziarie internazionali, mentre dall’intervento di Marina F. Durano emerge preoccupazione per la situazione di assoluta stasi manifestata dai leader politici in occasione del vertice di Monterrey sul Finanziamento dello sviluppo. Ancora interessante mi è parsa l’analisi di Simon Stocker di Eurostep (una rete di 21 ong di 15 paesi europei) su ruolo e prospettive dell’Unione Europea di fronte agli impegni di Copenaghen e alle sfide future che il tema dello sviluppo sociale pone all’unione anche in relazione al processo di allargamento a Est.
Particolarmente significativa risulta infine l’ultima parte del volume dedicata ai rapporti tematici per paesi (48). Al di là di alcune analisi particolarmente attuali, come quella che il Centro de estudios legales y sociales dedica al caso argentino (imputando l’esplosione di un modello economico ad un intreccio di fattori interni e internazionali e soffermandosi poi sulle conseguenze sociali di uno shock che ha registrato una crescita della disoccupazione di oltre 500.000 unità nell’arco dei primi due mesi del 2002), degni di attenzione sono i temi che emergono a livello trasversale, toccando più paesi o regioni. Stupisce ad esempio la frequente distanza tra dati macroconomici e reale incidenza della povertà, in contesti privi di solide reti di protezione sociale. Emblematico in tal senso è il caso del piccolo El Salvador, dove il tasso di povertà è passato dal 45,1% del 1999 al 51,2% del 2002, con un impoverimento generale del settore agricolo (frutto anche del crollo del prezzo del caffè sui mercati internazionali), pur in presenza di una ormai consolidata stabilità macroeconomica (basata principalmente sul calcolo del tasso di crescita del Pil come indicatore di riferimento). Qui, come anche nel caso delle Filippine o dell’Ecuador (paesi segnati in anni recenti da massicci fenomeni emigratori), l’incidenza delle rimesse degli emigranti emerge a livello di dati, senza però poter agire da fattore sufficientemente virtuoso di riduzione della polarizzazione economica. Impressionanti sono poi i dati relativi ad alcuni paesi africani o all’Iraq, dove tra il 2000 e il 2002, l’80% delle imprese private sono letteralmente scomparse, sotto il peso della disgregazione del sistema economico nazionale e sotto l’effetto di un embargo che ha colpito principalmente i settori vitali della sanità e istruzione. Interessanti risultano anche i rapporti sui paesi del «nord del mondo»; nella scheda sull’Italia, curata da Martino Mazzonis e Alessandra Messina, con Marco Zuppi del Cespi, si accentuano le incertezze delle politiche governative e i rischi di una crisi dello stato sociale; si parla anche delle logiche sottese a determinate scelte legislative (interessante il paragrafo Robin Hood al contrario) e dell’impatto dell’immigrazione sul sistema socio-economico. Colpiscono poi in particolare i dati sulla Gran Bretagna, elaborati da Oxfam (forse la più grande ong a livello mondiale), che evidenziano una preoccupante crescita della povertà e delle fasce marginali in determinate aree del paese, sullo sfondo di un rapido allargamento della forbice sociale. Anche l’analisi sulla situazione degli Stati Uniti, duramente colpiti dalla situazione di recessione, solleva più interrogativi a partire dall’impatto sociale della politica fiscale dell’amministrazione Bush.
In conclusione, tra le richieste presentate dai promotori del Social Watch agli organi istituzionali nazionali ed internazionali risuona un nuovo richiamo allo spirito del vecchio Keynes, questa volta riprendendo le parole del Nobel per l’economia Stiglitz che esprime i suoi dubbi sull’effettivo funzionamento nell’attuale tipo di mercato internazionale, globale sì ma anche sempre più polarizzato e orientato, del criterio della vecchia «mano invisibile» di smithiana memoria. Obiettivo dei curatori del volume è quindi anche quello di far prendere consapevolezza del fatto che il sistema politico-economico internazionale si trovi di fonte ad una svolta storica. Come scrive Bissio nella prefazione del volume: «la pratica dei due pesi e due misure genera cinismo, apatia, corruzione e erosione della vita democratica e della struttura sociale che tiene insieme la comunità. Ma la pratica dei due pesi e delle due misure incoraggia anche la gente a far sentire la propria voce ad organizzarsi a chiedere trasparenza e vere riforme è questa la nostra speranza».
Tutto sta ora a vedere se questa speranza, «condivisa», aiuterà ad elaborare strumenti di articolazione critica che permettano di abbandonare facili schematizzazioni. Credo che in questo senso il Social Watch, pur con gli inevitabili limiti del caso, possa rivelarsi uno strumento estremamente prezioso.
