L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Roma-Bari 2000
Con stile sommesso ed acribia implacabile, Luciano Gallino continua nella sua opera di sistematica demolizione degli idoli artificiali costruiti dal neoliberismo: lo ha fatto con la disoccupazione, ora con la globalizzazione e, nel suo ultimo testo, con la flessibilità. Tutti autentici dogmi profani, che servono essenzialmente a fissare il dibattito sociale e politico intorno a due o tre disperanti formulette che sembrano avere l’unico effetto di esorcizzare ogni possibile tentativo di evasione dalla logica del pensiero unico, quello che pretende di avere un’unica risposta ad ogni problema di natura socio-economica.
In questo Gallino segue la strada del suo illustre collega Pierre Bourdieu, da poco scomparso, che fu uno dei pochi intellettuali che nel decennio testé trascorso avesse scelto di fare della propria disciplina – egli, come Gallino, era un sociologo – uno strumento di lotta militante a favore della causa degli emarginati, divenendo così il maggiore degli intellettuali «organici» ai nuovi movimenti sociali. Bourdieu sostenne sempre la necessità di un ruolo critico dell’intellettuale rispetto allo sviluppo della società, dell’economia e delle istituzioni, uscendo da categorie come quelle della «torre d’avorio» o della «riserva critica», le quali, a suo giudizio, erano comode maschere per il disimpegno e l’oggettivo schieramento a favore dei poteri forti.
In questa logica si inseriscono pienamente i più recenti lavori di Gallino, che esamina con severità intellettuale animata da passione sociale quella globalizzazione che costituisce il più importante fenomeno culturale (e, a spiovere, economico, sociale e politico) del nostro tempo, che ha cambiato in profondità il modo stesso di rapportarsi alle questioni sociali, evidenziando la nascita di nuove forme di disuguaglianza che, da un lato, costituiscono l’amplificazione e la dilatazione di diseguaglianze già esistenti, dall’altro sono di natura nuova, insite nelle pieghe stesse della globalizzazione e richiedenti quindi nuovi strumenti volte a contrastarle. Perché, anche se in molti se ne sono dimenticati, il compito dei movimenti sociali e dei partiti riformisti, sia di matrice cattolico democratica che di matrice socialdemocratica, è quello di combattere la disuguaglianza sociale, di renderla meno strutturale rispetto al sistema sociale e politico vigente, con una particolare attenzione ai diritti di chi non ne ha e di chi ne ha e potrebbe perderne.
In questo senso, l’opera di Gallino appare una volta di più come un cri de coeur che un riformista di salde convinzioni lancia alla parte politica e sociale che sente più affine perché non si perda nell’accettazione acritica del punto di vista degli avversari per ridursi a giocare eternamente – se mi si passa la metafora calcistica – di rimessa sul campo altrui.
Il mercato che non c’è
Una delle prime mitologie che vanno sfatate è quella che riguarda la natura del mercato, inattingibile totem del nostro tempo: non a caso, la prima parte del saggio di Gallino si intitola Il mercato, istituzione di Stato. L’espressione contiene già in se stessa il suo significato, nel senso che la scelta di ampliare, restringere o addirittura distruggere la sfera d’influenza del mercato spetta al potere che si pone come regolatore generale, ossia lo Stato, attraverso una molteplicità di strumenti che vanno dalle tariffe doganali più o meno elevate agli accordi transnazionali oppure attraverso la decisione di gestire in proprio settori della vita produttiva, o con l’intervento a favore delle vittime dei processi di destrutturazione e ristrutturazione del sistema produttivo.
In ogni caso, lo Stato non opera sul mercato solo con finalità economiche, ma può intervenire anche con finalità politiche, come dimostra tutta la complessa architettura dell’Unione europea, gigante economico costruito in base ad una precisa scelta di carattere politico. Nello stesso tempo, la globalizzazione annulla gran parte dei presupposti in base ai quali gli Stati hanno costruito la loro politica economica nel corso del XX secolo; né d’altro canto può essere differentemente, essendo la globalizzazione un fenomeno basato soprattutto sul principio della leggerezza e dell’immediatezza, ambedue ben simboleggiate dalla rapidità degli scambi di capitali finanziari, dal diffondersi di tecnologie digitali sempre più sofisticate e, più in generale, dall’affermarsi di politiche volte a rimuovere ogni vincolo ai movimenti di capitale e alla delocalizzazione degli investimenti produttivi in aree dove il costo del lavoro e le tutele sindacali e legali sono infinitamente inferiori a quelle dei Paesi sviluppati (giungendo all’assurdo, come ha dimostrato Naomi Klein nel suo studio di certe «zone franche» nelle Filippine, di creare villaggi in cui non solo le leggi dello Stato ospitante ma anche le più elementari forme di diritti civili erano subordinate alle dure regole delle multinazionali).
In questo senso, afferma Gallino, l’autorità dello Stato risulta essere drasticamente limitata nelle sue funzioni di regolazione dei mercati, finendo anche per ledere la loro autonomia politica: quanto tali asserzioni siano vere lo comprova la vicenda delle istituzioni internazionali come il Fondo monetario, la Banca mondiale, il Wto. Nate tutte da una fondamentale intuizione di John Maynard Keynes nelle discussioni di Bretton Woods al termine del secondo conflitto mondiale, ed intese dal geniale economista britannico come strumenti per creare un nuovo ordine economico più democratico e maggiormente attento ai bisogni dei soggetti più deboli, esse costituiscono un clamoroso esempio di eterogenesi dei fini.
Se infatti da un lato esse hanno parzialmente realizzato i loro scopi – in quanto hanno posto in essere una sorta di abbozzo di governo globale dell’economia che limita fortemente il potere degli Stati su alcune questioni e infligge loro sanzioni pecuniarie in presenza di trasgressioni – il rovescio della medaglia sta nel fatto che questo governo globale dell’economia non ha nulla di democratico, ma è retto da una sorta di burocrazia tecnocratica autoreferenziale, non di rado composta da persone che in passato hanno lavorato per qualche multinazionale continuando a comportarsi come lobbisti (clamoroso in questo senso il caso del nostro ex Ministro degli Esteri Renato Ruggiero, «uomo Fiat» di alto livello e primo Direttore del Wto). D’altro canto, che fossero le grandi imprese ed i loro lobbisti a dettare l’agenda di certe assise internazionali è cosa risaputa, e prima dell’Assemblea di Seattle del Wto (finita nel fallimento che tutti sanno) lo ammise candidamente anche la capo-negoziatrice americana Charlene Barshefsky: si badi bene, allora era ancora presidente Clinton. E’ da pensare che con la presidenza Bush, fortissimamente voluta e finanziata dalle multinazionali, le cose non siano cambiate, ma anzi si sia accentuato il fenomeno di dipendenza delle politiche pubbliche dagli interessi privati.
Tutto ciò dimostra che la globalizzazione così come la conosciamo non è una specie di maledizione biblica o di fenomeno naturale al pari dei monsoni o dei terremoti, ma è piuttosto il frutto di ben precise scelte politiche ed economiche, che naturalmente una volta avviate seguono la logica che è propria della loro natura. A fronte di ciò, il problema che si pone è quello di un governo dell’economia che sappia rispondere alle sfide di una realtà globale che di suo riesce a produrre solo una stratificazione sociale sempre più accentuata: c’è da riflettere profondamente di fronte ai dati citati da Gallino, che ci parlano di livelli salariali che differiscono in scala da 1 a 20 fra i Paesi cosiddetti emergenti dell’Asia (che sono la punta d’iceberg di realtà in cui i salari sono ancor più bassi) e l’Occidente, di condizioni di lavoro che costringono circa 200 milioni di bambini fra i 6 e i 12 anni a svolgere lavori pesanti in condizioni ambientali pessime per salari ridicoli, della diffusione di malattie endemiche, se non di vere e proprie pandemie.
La fabbrica delle disuguaglianze
In questo senso si legittima l’opinione secondo la quale la globalizzazione avrebbe avuto per effetto principale quello di creare una quota sempre maggiore di disuguaglianze, che riguardano sia le distanze fra il Nord ed il Sud del mondo, sia quelle che si creano all’interno delle stesse società sviluppate. Gallino per certi versi va oltre, e denuncia che queste disuguaglianze, oltre a svilupparsi, tendono anche a stratificarsi, riproducendo di fatto un meccanismo perverso di nuove aristocrazie e di nuovi rapporti servili, che si esplicano anche in quello che Domenico Losurdo, con espressione colta ed insieme forte, chiama il «processo di rimancipazione» della classe lavoratrice.
Soprattutto la stratificazione sociale aumenta il rischio della marginalità e dell’esclusione sociale: sono due tematiche su cui lo scandaglio del sociologo va a fondo, descrivendo da un lato il meccanismo che porta determinate persone – ed in numero sempre più crescente – a perdere identità, status sociale, modo di approvvigionarsi dei beni della vita. Il problema maggiore sta nel fatto che se un tempo l’esclusione sociale era applicata secondo criteri etnici, religiosi, morali o sanitari, adesso, senza che i precedenti vengano meno, è pesantemente segnata dalla «situazione di chi non trova più posto nel processo produttivo, sia che ne venga espulso, sia, come avviene ad una percentuale crescente di giovani, che non riesca ad entrarvi».
La condizione viene rilevata soprattutto in ordine alle persone che sono colpite dalla disoccupazione detta di lunga durata, un anno ed oltre: in loro si rileva come la perdita del salario, e magari anche delle modeste provvigioni statali, si trova a convivere con un progressivo degrado della relazione con la famiglia e la comunità, deprimendone l’autostima e quindi la capacità di essere appetibile per un nuovo impiego (qualcosa del genere, con la sua carica mistica, ebbe a dirla Giorgio La Pira quando si chiese «come potesse un disoccupato pregare»).
Proprio da qui si misura l’effetto perverso della «logica della competenza» che presiede alla dottrina del neoliberismo globale, e che pretende di suddividere il mondo del lavoro (o il mondo tout court ?) fra chi possiede la capacità di adattarsi a nuovi know-how e chi invece no, riservando a questi ultimi un destino di espulsione dal contesto sociale. Se si accetta la famosa partizione espressa dal sociologo liberale Ralf Dahrendorf per cui la cittadinanza consiste in un equilibrio fra entitlements, ossia i diritti veri e propri che derivano dalla condizione di cittadino di un determinato Paese, e provisions, ossia i beni materiali che sono collegati a tali diritti, si deve arrivare alla conclusione che è in atto una strategia di riduzione della cittadinanza medesima.
L’attacco allo Stato sociale attraverso la riduzione dei diritti ad esso collegati, e che si esprimono in Italia nel tentativo di manomettere lo Statuto dei lavoratori, di monetizzare la salute e di ridurre la scuola a strumento di selezione classista, esprime la volontà vera e propria di ridurre determinati strati sociali in una condizione di cittadini di «serie B», consumatori e non protagonisti della vita sociale e politica.
Una possibile strategia di governance
A questo punto però si pone il problema centrale: atteso che la natura della globalizzazione, nelle modalità in cui si è fin qui esplicata, è quella di produrre nuove disuguaglianze mettendo in crisi le forme di mediazione e di protezione sociale tradizionalmente espletate dagli Stati, è possibile pensare che queste modalità possano essere governate e corrette o quello vigente è l’unico modello esistente?
Gallino dichiara apertamente di riconoscersi nella posizione di coloro che affermano che «la globalizzazione è un processo originale di grande portata, il quale genera effetti rilevanti sia negativi che positivi. In aggiunta, essi insistono sul fatto che i primi sono di regola ignorati o sottovalutati, mentre i secondi potrebbero essere maggiori se la globalizzazione venisse in qualche modo sottratta agli automatismi della tecnologia e di mercati finanziari divenuti autoreferenziali». Questa, per inciso, è la posizione tipica del riformista, ed è bene precisarlo in un contesto culturale in cui, mutuando un po’ troppo da cattiva merce d’importazione inglese, si ritiene che il riformista tipo sia colui che accetta supinamente tutti i dettati della cultura neoliberista, magari con qualche modesta variante.
Attraverso un serrata analisi condotta esclusivamente su dati e documenti accessibili a tutti – ma che molti evidentemente non leggono – Gallino smonta molte idee diffuse: non è vero, infatti, che la globalizzazione neoliberista favorisca la crescita economica, in quanto nei Paesi dell’area Ocse (i più sviluppati del mondo) il Pil è cresciuto più rapidamente negli anni Cinquanta e Sessanta rispetto agli anni della globalizzazione (post 1980), dimostrando come semmai la liberalizzazione o deregolazione dei mercati interni abbia avuto un effetto depressivo. Non è neppur vero che abbia segnato un aumento dell’occupazione, giacché il periodo 1980–2000 ha visto piuttosto il progressivo emergere di una nuova era di disoccupazione di massa, e chi nel dicembre del 1999 salutò con enfasi la discesa del tasso di disoccupazione nei Paesi dell’Ue sotto il 10% avrebbe dovuto ricordare che negli anni Sessanta questo tasso, nei medesimi Paesi, si attestava al 2%.
Quanto alla produttività, fra il 1985 ed il 1995 essa è cresciuta di poco più del 2% all’anno, mentre il tasso del periodo 1950-1973 si attestava al 4%. Né vale il richiamarsi ad una presunta differenza fra gli indicatori europei e quelli nordamericani, giacché l’analisi scomposta dei dati USA dimostra invece che questi ultimi anni per i lavoratori americani hanno rappresentato una forte contrazione del loro potere d’acquisto, al punto tale che solo fra quindici anni circa potranno pensare di poter ritornare ai livelli degli anni Settanta, mentre nel contempo sono aumentate le persone che vivono al disotto della soglia della povertà, anche fra coloro che hanno un lavoro più o meno regolare. Più in generale, gli studi del Bureau international du travail (Bit) dimostrano che su tre miliardi di individui che al mondo si possono considerare appartenenti alla forza lavoro, circa un miliardo sia disoccupato o sotto – occupato.
Da qui discendono almeno due evidenti conseguenze: la prima è che dall’insieme di decisioni che presiedettero alla nascita del processo di globalizzazione sono derivati degli effetti perversi che forse non erano nelle intenzioni dei promotori. La seconda è che nulla autorizza a pensare che gli automatismi del processo di globalizzazione, se lasciati a se stessi, riescano ad annullare o minimizzare i citati effetti.
Di ciò ha preso atto con difficoltà l’Onu, che fin dalla metà degli anni Novanta ha messo in piedi una Commission on global governance (Cgg), finalizzata alla creazione di regole per la globalizzazione basate su accordi reticolari fra una o più parti per il controllo sui flussi economici mondiali, e, come rileva la stessa Cgg nel suo rapporto del 1995, coinvolgendo non solo gli Stati ma anche le organizzazioni non governative. Nel testo si proponeva anche la costituzione di un Consiglio per la sicurezza economica con funzioni di monitoraggio della situazione economica globale e l’assunzione di leadership in ordine alla promozione del consenso sulle grandi scelte di politica economica internazionale.
Ma basta tutto questo? Evidentemente no, anche perché non pare che da parte della superpotenza americana vi sia la volontà di permettere alla Cgg di svolgere il suo compito né più né meno di quanto consentono di fare all’Onu nel suo complesso, almeno quando esso non si piega a fare da cassa di risonanza degli interessi americani. Una difficoltà ulteriore viene dall’incapacità stessa della Cgg di indicare obiettivi concreti, al di là di vaghi riferimenti alla Tobin Tax, che vadano oltre la tematica di un «coinvolgimento della società civile» espressa in termini vaghi e, forse, poco convinti.
Gallino non si tira indietro ed indica lui alcune tematiche irrinunciabili per una global governance degna di questo nome, e che ci limitiamo ad indicare per titoli: riduzione dello squilibrio fra economia finanziaria ed economia reale; riduzione delle disuguaglianze internazionali e nazionali; assicurazione di una reale concorrenza tra le imprese (che anche i campioni del libero mercato cercano di soffocare in ogni modo: si vedano le vicende di Mediaset in Italia e di Enron negli States); miglioramento dei contenuti qualitativi dello sviluppo economico; promozione dello sviluppo locale. Ognuno di questi temi, va da sé, meriterebbe un’ampia trattazione a parte, ma il riferimento è significativo per far capire che nel libro che stiamo considerando vi è un solido fondo di realtà.
Tre questioni finali
A questo punto non ci si può esimere dal porsi alcune questioni pesanti come macigni.
1. Nella chiusa del libro si accenna all’importanza della mobilitazione sociale dal basso: quando esso fu scritto c’era stata Seattle ma non ancora le due Porto Alegre e soprattutto Genova, il luogo in cui per la prima volta il movimento si è scontrato con la logica «imperiale» della repressione. La domanda che sorge spontanea è questa: fino a che punto il movimento sociale può fare a meno di una sponda politica, nel senso di un punto di riferimento capace di rapportarsi dialetticamente e di mediarne le istanze, senza disprezzarle ma anche senza recepirle totalmente in un quadro populistico? E, correlativamente, quanto può una politica di opposizione ma che si propone di tornare a governare fare a meno di un rapporto con movimenti sociali che si organizzano dal basso e che esprimono istanze reali?
2. A problemi globali risposte globali. Molti tendono ad utilizzare questa semplice verità come un metodo per esimersi da qualsiasi tipo di azione politica di contrasto alla globalizzazione neoliberista: esempio classico, la Tobin Tax che non può funzionare finché non l’adotta…tutto il mondo. Ma è proprio così? Oppure, ferma restando la necessità di un approccio di carattere globale a questi problemi, anche la politica nazionale, per non dire di quella locale, può essere un luogo nel quale elaborare determinate scelte?
3. Gallino sottolinea spesso il ruolo positivo che può essere svolto dalle realtà informali, dall’associazionismo, ed egli stesso ha dimostrato di volersi rapportare a tali realtà come ha fatto con le ACLI nell’edizione del 2000 dell’incontro di Vallombrosa. Nello stesso tempo, le modalità con cui è gestito il ruolo del Terzo settore in alcune realtà governate dalla destra, e che il Governo attuale mostra di volere in parte riprodurre a livello centrale, fanno vedere per le realtà associative un ruolo di «spazzini» del sistema capitalistico, sostituendo a basso costo le prestazioni dello Stato sociale che verranno sempre di più smantellate e, per utilizzare un orrendo neologismo (una brutta parola per una cosa altrettanto brutta), esternalizzate. Questo, peraltro, vale per quelle organizzazioni che sono già funzionali al nuovo potere (su tutte la Compagnia delle Opere) o per quelle che sono disponibili a divenirlo. Ma è questa la funzione del Terzo settore? O non è piuttosto quella di prefigurare in sé un diverso modello di società, magari attraverso realizzazioni parziali?
E’ chiaro che nessuna di queste domande ha risposte indolori, nel senso che da esse dipende la credibilità o meno dei progetti sociali e politici di chi vuol definirsi riformista: altrettanto chiara è l’impossibilità di proseguire in atteggiamenti ambigui nel momento in cui la ripresa di militanza nell’area del centrosinistra, e le gravi sfide poste dai tempi, esigono la massima chiarezza d’intenti e di comportamenti.
