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M. Hardt-A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, tr. it., Rizzoli, Milano 2001

Non posso nascondere una personale esitazione e addirittura un moto iniziale di ripulsa verso l’ultima fatica editoriale del professor Antonio Negri, detto Toni. Il quale ci ha fornito un grosso tomo intitolato Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, scritto a quattro mani con Michael Hardt, giovane e relativamente sconosciuto professore di letteratura alla Duke University. Il passato del filosofo padovano è infatti molto ingombrante, sotto il profilo intellettuale e morale, e chiede uno sforzo per considerare le sue tesi in modo attento e aperto. Ma ho provato a superare questa soglia. Il libro – infatti – è ormai un caso editoriale. Uscito presso la prestigiosa Harvard  University Press , tradotto in molte lingue nel giro di un anno, apparso in italiano nientepopodimeno che per i tipi della casa editrice di un rivoluzionario del calibro di Cesare Romiti. Discusso e recensito su tutta la stampa più o meno alternativa, in procinto di diventare, come ha scritto forse un po’ iperbolicamente «L’Espresso», «la Bibbia del nuovo movimento». Il libro sta attirando interesse in tutta la politologia americana, che è un settore dove esiste un consistente orientamento radical, ma dove in genere non abbondano opere ambiziose e composite come questa, a cavallo tra saggio di battaglia e interpretazione onnicomprensiva della storia moderna. Forse la sua forma sostanziale di «manifesto», tutta europea, ha favorito tanto interesse per la sua eccezionalità.
A parte questo contesto, tra l’altro, in tempi di accese discussioni sulla globalizzazione, con la conseguente necessità di chiarire un armamentario teorico e propositivo che rischia di essere travolto nella confusione terminologica e concettuale imperante, la prospettiva iniziale degli autori suscita un certo interesse in chi si occupa delle dinamiche storiche internazionali. Motivo ulteriore per una lettura attenta. Che, ahimè, non è affatto semplice, in quanto le 450 pagine sono dense e spesso un po’ criptiche e involute, con molti ideologismi e un linguaggio che appare in troppi casi abbastanza iniziatico. Ciò nonostante, la prospettiva di fondo è chiara, ed è merito degli autori esplicitarla da subito, fin dal primo capitolo, che fa da pendant all’ultimo, il quale mostra un carattere esplicitamente etico-politico e (almeno intenzionalmente) operativo.


L’Impero, concetto  pervasivo e onnicomprensivo

L’idea analitica centrale del volume è che per capire quello che sta succedendo a livello globale, occorra usare il vecchio-nuovo concetto di “Impero” (attenzione, non la metafora o l’immagine, propriamente il concetto, con tutta la sua formalizzazione astratta). Recuperato prevalentemente dalla tradizione romana, e quindi europea, il concetto viene introdotto immediatamente come chiave unificante di molte evoluzioni dell’epoca post-moderna. Si allude sostanzialmente ad una crescente concentrazione del potere reale e alla gerarchizzazione delle sue influenze a livello globale. Superando quindi ogni orizzonte nazionale, ma addirittura inter-nazionale, «una serie di organismi nazionali e sovranazionali uniti da un’unica logica di potere» (p. 14) avrebbero ormai creato, a livello globale, una nuova e inedita forma della sovranità, in modo efficacissimo, quanto multiforme e flessibile. C’è un ordine globale infatti, che non solo è capace di affermarsi, ma anche di legittimarsi con un riferimento alla pace e alla giustizia, intrecciando logiche economiche, potenza militare e dominio dei sistemi di comunicazione. Un ordine senza centro apparente, senza strutture costituzionali evidenti ma con una struttura costituzionale reale pluralistica e intrecciata. Quando gli autori cercano di esemplificarne la struttura, impressiona la volontà di intrecciare realtà diversissime, dalle istituzioni sovranazionali e internazionali ai vari Stati nella loro gerarchica diversità, ai centri di potere capitalistico, fino alle organizzazioni non governative, che spesso sarebbero parte dell’unica logica di controllo. Un ordine in cui l’evoluzione dell’economia capitalistica degli ultimi venticinque-trent’anni, nella direzione dell’informatizzazione, della decentralizzazione, del primato della comunicazione, del neoliberismo di mercato è uno dei pilastri centrali. Un ordine in cui la metamorfosi del potere politico, con la fine della centralità europea, la consunzione degli strumenti partitici, la nuova centralità della «biopolitica», il superamento della guerra fredda con il crollo dell’alternativa socialista e la riduzione della potenza degli Stati nazionali è l’altra faccia della medaglia.
La «genealogia» di quest’ordine imperiale mostra come esso sia il frutto logico e a lungo preparato dell’evoluzione della società moderna e della sua crisi. Il libro cerca di motivare tutto ciò, attraverso una serie di ampi e spesso interessanti e acuti profili storico-economici, storico-giuridici e storico-politici. Si mostrano in modo convincente una serie di passaggi culturali ed istituzionali, che hanno a che fare con modalità decisive dell’evoluzione del mondo moderno. Segnalo ad esempio la critica e il superamento del vecchio concetto di «imperialismo», tutto interno all’epoca del dominio degli Stati nazionali. Oppure le considerazioni sulla storia degli Stati Uniti come mondo culturale, economico e politico del tutto decisivo per la maturazione dell’attuale struttura concettuale dell’Impero (a partire dal progetto dei padri fondatori di un «impero della libertà»), mentre al contempo si demistifica una certa sovradeterminazione del ruolo della potenza americana nel funzionamento degli attuali meccanismi globali. Gli Stati Uniti hanno una posizione particolare dell’Impero ma non ne costituiscono nemmeno loro il centro. Interessante è quindi il discorso sul passaggio dal diritto internazionale agli attuali incunaboli di un diritto globale e transnazionale, basto sull’eccezione più che sulla norma. Un altro fuoco di indubbio interesse è la decostruzione della semplicistica corrente immagine sui rapporti economia-politica che vede la situazione attuale come dominio esclusivo delle grandi imprese multinazionali sulla politica, a favore di una presentazione molto più articolata dei nuovi nessi tra economia e politica o addirittura delle forme di nuova identificazione e di nuovo intreccio tra le due dimensioni. E si potrebbe continuare in questo senso. Curiosamente, per un approccio marxista, appaiono forse più scontate le parti sull’analisi economica in senso proprio, mentre deborda l’impostazione analitica di Foucault e Deleuze-Guattari sul nuovo intreccio di vita e politica prodotto dalla crisi della modernità.
Ma mette conto arrivare al punto di caduta del libro: l’Impero è una forma nuova di sovranità globale che proprio con il suo successo, ha creato al suo interno le condizioni della sua crisi e del suo superamento. Questo è il senso del vero e proprio inno al procedere del dominio dell’Impero che Hardt e Negri compiono, invitando più volte a non rimpiangere niente delle strutture consumate del passato: il locale, lo Stato, i movimenti di liberazione, il socialismo reale e quant’altro. «L’Impero è meglio di ciò che l’ha preceduto, allo stesso modo in cui Marx insisteva che il capitalismo era meglio delle forme di società e dei metodi di produzione che aveva soppiantato» (p. 56). Infatti, nel suo lento ma inarrestabile procedere, l’Impero ha ormai prodotto una nuova realtà alternativa e antagonista, che viene definita come «la moltitudine», nuovo proletariato sfruttato in tutti i livelli e i gangli dell’ordine capitalistico imperiale. Un proletariato anch’esso globale, coesteso all’Impero, virtualmente unificato seppur non nella forma organica del popolo ma in quella del tutto pluralistica e differenziata del nuovo globalismo. Secondo un vecchio schema teorico, più sono avanzati lo spossessamento, la riduzione dell’identità, l’espropriazione, la mobilizzazione e la precarizzazione, la rottura delle gerarchie esteriori e visibili, l’unificazione di produzione capitalistica e riproduzione intellettuale e biologica, più tutto ciò ha prodotto un’alternativa al sistema, benché tutta potenziale e implicita. «La crisi è intrinseca al controllo imperiale […] la crisi corre attraverso tutti i momenti dello sviluppo e della ricomposizione della totalità» (p. 357). Ci sono cioè le premesse per una nuova «cittadinanza globale» e quindi per un percorso di riappropriazione, di nuova cooperazione, di «potere costituente» secondo il desiderio profondo dell’umanità, e oltre tutti gli schemi ideologici e le strutture politiche della modernità.


Eccesso di zelo, debolezza progettuale

Che dire di questa imponente costruzione (sempre che ne abbiamo colto senza troppe riduzioni la struttura essenziale)? A parte la discussione sui singoli passaggi analitici e propositivi, che potrebbe essere anche interessante, alcuni snodi centrali lasciamo forti perplessità.
Il primo è proprio l’acquisizione senza remore dello schema «postmodernista». Gli autori rappresentano l’Impero da loro individuato come forma reale di una fase storica ben precisa e del tutto definita, che si contrappone in modo netto alla modernità. Lo zelo nel seguire questo schema teorico – se non impedisce di criticare una serie di posizioni ritenute «deboli» dei vari teorici postmodernisti – tende a rappresentare un processo storico troppo nettamente dualistico, cosa che in realtà è ben lungi dal dare una rappresentazione soddisfacente delle radici della contemporaneità. Voglio dire che molte delle tensioni individuate (localizzazione-deterritorializzazione, gerarchizzazione-uniformazione, integrazione-frammentazione, materiale-immateriale e chi più ne ha più ne metta) non sono in realtà vettori che vanno sempre in un’unica direzione, ma tendenze compresenti e spesso intrecciate nel flusso della modernità e anche nel momento di crisi che essa eventualmente sta oggi conoscendo. Gli autori non si preoccupano di mostrarne in concreto il funzionamento, ma solo di individuarne una tendenza ineluttabile, in quanto fissata a priori nello schema modernità-postmodernità. A mio parere, invece, questo schema è proprio un punto debolissimo dell’analisi. Non a caso, in termini più strettamente analitici, quando occorre definire in termini precisi la nuova realtà postmoderna, gli autori ricorrono alla moltiplicazione di esempi di (talvolta sconcertante) vaghezza descrittiva, oppure appunto ad una concettualizzazione molto generale, di cui l’uso stesso della parola Impero è simbolo chiaro.
Conseguenza di questo discorso è che la rappresentazione dell’Impero nella sua unicità, nella sua volontà di sfidare il tempo, nella sua globale pervasività e nella sua ferrea ancorché immateriale e dislocata capacità di controllo, è una rappresentazione troppo perfetta per dire qualcosa del reale funzionamento dei meccanismi globali attuali. Intendiamoci, potrebbe essere stimolante la critica a una rappresentazione corrente del mondo post-guerra fredda che insiste troppo spesso solo sul «disordine». Ma il volume non aiuta molto a procedere in questa direzione. Trascura di fare i conti con il persistente pluralismo delle dinamiche di potere, sia a livello economico che a livello politico (non ci saranno più la «contraddizioni interimperialistiche» del passato, ma siamo proprio sicuri che il mondo delle grandi multinazionali sia solo una realtà cartellizzata e istituzionalmente concorde e non anche un’arena di feroci competizioni?). Non si prendono in considerazione le dinamiche della regionalizzazione crescente dei flussi di potere (l’ambiguo ritorno della geopolitica non ha insegnato qualcosa?). Non discute di egemonie e di crisi relative dei diversi soggetti. Non si addentra nella verifica del funzionamento reale dei nuovi meccanismi istituzionali e operativi del potere imperiale, accontentandosi di cenni relativi al «principio dell’intervento» (non a caso si afferma che il libro è stato concepito a seguito della novità della Guerra del Golfo). Non spiega se e perché in questo intreccio inossidabile ci sia qualcuno che influenza le dinamiche reali più di qualcun altro. Dà quindi vita a un concetto troppo astratto e generale per essere di qualche utilità euristica nella spiegazione delle vicende contemporanee. O meglio, offre un armamentario utile per una nuova forme di sottile ideologizzazione, che forse in alcune frange dell’attuale movimento no global non dispiace, per la sua forza di unificazione, nella rappresentazione di un antagonista supremo.
E naturalmente, ancora, dalla stessa caratteristica generalizzatrice discende l’insoddisfazione che prende rispetto alla parte progettuale del manifesto politico. Cioè la risposta alla domanda su come sia possibile creare o stimolare «le forme più mature della coscienza e dell’organizzazione politica della moltitudine» (p. 368). Far passare cioè la magnificata virtualità rivoluzionaria in possibilità concreta. Sconcertante è la povertà delle indicazioni a questo proposito. Nonostante l’inno di chiusura del libro al nuovo militante e all’orgoglio di continuare a dirsi «comunisti», l’organizzazione sembra un semplice residuo dell’aborrita modernità. E quindi, nel beato mare del postmoderno, possiamo accontentarci di stare a vedere come andrà a finire. Per il momento, l’unica cosa è confrontarsi «con le principali operazioni repressive dell’impero», cioè – come si esemplifica proprio nelle ultime pagine – la Bomba, il denaro e l’etere. Oppure promuovere il «nomadismo» e l’esodo, con buona pace delle condizioni reali dei soggetti migranti nella loro inconsapevolezza di essere il perno della nuova moltitudine rivoluzionaria. Oppure ancora, e qui il libro si sublima nella sua conclusione, ispirarsi al modello di san Francesco, che contrapponeva «la gioia dell’essere alla miseria del potere» (p. 382). Nessuna mortificazione (!) e nessuna «disciplina strumentale», ma solo una «pratica positiva, costruttiva e innovatrice». Gli gnomi dell’Impero – se mai esistono – possono dormire sonni tranquilli.