G. De Rita, Il regno inerme. Società e crisi delle istituzioni, Einaudi, Torino 2002
Perché il cantore del sociale, l’immaginifico Giuseppe De Rita, presidente del Censis, ha ceduto alla tentazione di scrivere una breve ma densa riflessione sulla crisi delle istituzioni? Risponde lui stesso in apertura de Il regno inerme. Società e crisi delle istituzioni . La ragione sta nell’indignazione. L’indignazione verso la vocazione suicida che le nostre istituzioni vanno maturando e verso il tradimento dei clerici che dovrebbero farle vivere e che invece, presi da personali problemi di potere e di immagine, le lasciano alla loro regressione di ruolo e di prestigio. In questo clima (il titolo rende bene l’ambientazione tetra) può avvenire che un militante pluridecennale del sociale si faccia interprete del bisogno collettivo di un reticolo istituzionale decentemente funzionante.
Le colpe degli anni Novanta
Parte da lontano la crisi. Ci sono radici storiche che hanno prodotto l’italico disamore per le istituzioni, sentite autoreferenziali, burocratiche, poco attente alla realtà, senza ruolo, quindi estranee. De Rita si concentra però sulla cultura politica degli ultimi dieci anni. Gli anni Novanta, a suo avviso, sono stati segnati da quattro scelte che hanno avuto un effetto devastante. La più evidente è stata quella del primato della decisionalità, spesso scivolata nel più arrogante decisionismo. Le sedi e le forme della rappresentanza e della partecipazione alle decisioni sono diventate ininfluenti, a causa dell’affermarsi del sistema uninominale, di un bipolarismo molto imperfetto ma indiscutibile, dell’elezione diretta per le responsabilità di governo ai vari livelli, del ricorso al referendum per decidere subito e direttamente su materie bisognose di confronto e di mediazione. Si è ormai scivolati fino ai «sindaci-sceriffo», ai presidenti regionali-governatori, ai governanti «faccio tutto io». Il decisionismo è andato crescendo con una seconda grande scelta, quella della verticalizzazione del potere: si è assistito alla coltivazione del mito del capo e al correlato presidenzialismo; c’è stato lo spostamento delle decisioni in ambiti sempre più ristretti, all’ultimo piano dei palazzi ministeriali (mentre interi piani sottostanti restano desolatamente vuoti). Sembra dunque ritornare l’antica concezione piramidale del potere, con un «faraone» che opera sul fluire della domanda e della risposta decisionale lungo dinamiche squisitamente gerarchiche.
La terza grande scelta politica degli anni Novanta è la personalizzazione. Il decisionismo ha bisogno di uomini che sappiano «impersonarlo»; la verticalizzazione del potere richiede uomini che siano, o almeno appaiano, straordinari leader maximi. Tutti quindi alla caccia candidato «piacione». Non sorprende, in questa prospettiva, il ruolo parapolitico e paraistituzionale dei mezzi dei comunicazione di massa: direttori di giornale che si fanno portatori di candidati alle cariche dello Stato; giornali che incidono profondamente sulla scelta dei leader; conduttori che con i loro inviti decidono chi esiste e chi no; talk show che sono diventati vere e proprie arene politiche.
Quarta e ultima scelta che rende tutta la miscela ancora più esplosiva: la forte dipendenza dal denaro. Già negli anni Ottanta, con la consunzione dei partiti di massa, divenne chiaro che per far politica «ci vogliono tanti soldi o esser ricco di suo». Dopo le inchieste su Tangentopoli, che hanno scoperchiato gli intrecci perversi tra politica e affari e nello stesso tempo azzerato gran parte dei partiti e della classe dirigente, il campo era libero per l’entrata in gioco del potere del denaro. Comprare giornali, possedere televisioni, creare sedi di formazione o fondazioni culturali, comprare o far comprare aziende o banche di proprietà pubblica, costruire catene di distribuzione commerciale, possedere squadre di calcio, sono tutte operazioni essenziali per chi deve organizzare il consenso o orientarlo verso la sua persona e la sua immagine di leader.
Istituzioni per una società molecolare
Se gli italiani da sempre sono stati propensi a vivere come se lo Stato non esistesse, se gli anni Novanta hanno accentuato la de-istituzionalizzazione, perché non accettare questa situazione, affidandosi alla primordiale forza dei sempre più numerosi «mondi vitali» individuali e collettivi? De Rita spiega sinteticamente una serie di ragioni per le quali la nostra società ha ancora e sempre bisogno di un reticolo istituzionale funzionante. In particolare argomenta la necessità di regole e strutture per condensare la molecolarità crescente dei soggetti e degli interessi. Oggi rischiamo di avere una società «della moltitudine» – per usare un termine di moda – cioè una massa di persone apparentemente libere di perseguire i propri interessi e padrone di sé ma di fatto indistinte nella loro identità e seriali nel loro comportamento. Una massa amorfa, emotiva, e anche un po’ erratica nei suoi percorsi di evoluzione. Chi crede nell’ineluttabile smottamento della molecolarità verso la moltitudine tende a lavorare su una prospettiva sostanzialmente a-istituzionale: Antonio Negri è convinto che nella moltitudine si vada caricando la molla di una nuova contestazione del sistema; Aldo Bonomi preferisce piuttosto il «mettersi in mezzo», ipotizzando che solo da nuovi tentativi di movimento socio-politico all’interno della moltitudine possano nascere nuovi meccanismi di autoriconoscimento e autogoverno delle comunità.
De Rita indica invece un percorso diverso. A suo avviso, nelle società avanzate, le istituzioni, operando e favorendo molteplici processi di identificazione intermedia e garantendo una diversificata canalizzazione delle istanze e delle tensioni sociali, evitano che queste vaghino nei sotterranei della vita collettiva, magari operando emersioni carsiche anche improvvise e violente. Servono istituzioni che sappiano essere fedeli alla diversità, salvaguardando un arcipelago fatto di diverse realtà, con diversi paesaggi, identità e rapporti, in una rete di destini e di poteri. La diversità si tramanda e valorizza attraverso il riconoscimento costante di una vita comunitaria articolata nelle istituzioni. Se si afferma invece una moltitudine senza condensazioni intermedie, le diversità vengono progressivamente cancellate. L’arcipelago scompare, rimane la tundra piatta.
Arroccamento e globalizzazione
Parlare di istituzioni vuol dire fare i conti con la permanenza del paradigma statuale e il lento affermarsi di paradigmi giuridici globali. De Rita prevede che non ci sarà, almeno nel medio periodo, una successione temporale tra i due paradigmi, ma una inevitabile compresenza, spesso asimmetrica e conflittuale. I difensori del paradigma statuale propendono per un arroccamento che si attua su tre livelli: europeo, nazionale e regionale. A livello europeo si va coagulando la volontà di creare una sorta di super-Stato. Ma l’ipotesi non riesce a oltrepassare alcune difficoltà oggettive: l’allargamento continuato dell’Unione Europea rischia di non dare confini precisi a fondamento dell’identità collettiva; la formazione di una legalità sovranazionale è frenata dalla «gelosia» dei singoli Stati; l’unità amministrativa tende ad una burocratizzazione non trasparente e condizionata da un agguerrito lobbismo nazionale e multinazionale.
L’arroccamento avviene anche sul potere degli Stati nazionali. L’affezione al paradigma statale non è banale, ha profonde radici: è lo Stato che finora ha garantito i diritti di cittadinanza, la coesione sociale, la legalità. Però è anche vero che si assiste allo strapotere di corporazioni che hanno snaturato le funzioni istituzionali o di élite economiche che, mentre inneggiano ai prodigi della competizione globale, fanno il nido nel mercato nazionale delle utilities. Un terzo luogo di arroccamento rischia di diventare lo stesso federalismo. La devolution corre enormi rischi, quali reggersi su una logica di sussidiarietà verticale pericolosamente vicina alla logica piramidale e non articolata del potere; scivolare nella ricerca regressiva dei «capi»; dover gestire solo il trasferimento di «poste finanziarie» senza grandi libertà discrezionali e strategiche. In questa situazione può saltare l’unica legittimazione di un sano federalismo: quella di dare spazio alla vitalità autonoma (e ai destini autonomi) delle popolazioni che vivono nei diversi territori.
Il triplice arroccamento sul paradigma statuale non riesce a contrastare gli effetti che produce il grande fenomeno della globalizzazione. Essa, secondo De Rita, sta creando nuove orizzontalità: un’orizzontalità dei valori alti, legittimati a fare progressivamente un diritto globale; un’orizzontalità dei comportamenti e delle transazioni economiche, finanziarie, comunicazionali operanti in tante e diversificate reti di interrelazione; e infine un’orizzontalità legata al recupero faticoso della dimensione territoriale. La triplice orizzontalità non ha ancora le sue norme e le sue istituzioni guida: è lontana l’ipotesi di governi mondiali, è ancora indistinto il percorso delle sedi e dei canoni relativi adatti all’economia e alla società delle reti, è arduo per i diversi territori reinventarsi. Comunque questo è il trend. Il tempo della configurazione verticale del mondo, con gli Stati a far da canne d’organo di un grande disegno internazionale è definitivamente trascorso.
La condensazione neoistituzionale
Condensare la molecolarità economica e sociale diventa la missione storica del pensiero istituzionale nell’attuale momento storico. Se non si riesce a capire quali bisogni di nuova comunicazione nascano dalla molecolarità, non c’è spazio per nessuna nuova cultura istituzionale. I settori più caldi, analizzati nel libro, sono il mondo del lavoro e delle imprese, il welfare, la sicurezza.
Vi è innanzitutto un progressivo intreccio tra il sistema di impresa e le forme del lavoro. In tale processo, milioni di soggetti e comportamenti si accavallano e si combinano fuori degli schemi di organizzazione aziendale e di appartenenza sociale di tipo tradizionale. Però nello stesso tempo i comportamenti individuali di lavoro e di impresa tendono a mettersi in relazione, quasi prefigurando l’emersione di risposte di valore neo o paraistituzionale. Il contatto dei singoli con il mercato del lavoro tende ad attuarsi attraverso le società di lavoro interinale. L’incontro con i servizi di tipo formativo passa attraverso progetti, consorzi, portali informativi, banche dati d’offerta, guide alla scelta dei percorsi formativi, tutte forme a forte compresenza pubblico- privato. Nei servizi di tipo finanziario nascono strutture, bancarie o no, che fanno offerta di microcredito e accompagnano i lavoratori in proprio e le piccole aziende con un’offerta parallela di servizi per l’accesso agli incentivi, l’organizzazione contabile, le tecniche di controllo gestionale. E anche per i servizi di tutela incominciano a emergere iniziative private a rilievo pubblico, dalle reti di consulenza legale al rilancio imprenditoriale delle rappresentanze professionali.
L’altro grande fenomeno su cui si misura la tendenza a sperimentare nuove condensazioni organizzative è quello della personalizzazione dei bisogni in campo formativo, sanitario, previdenziale, assistenziale. L’omogeneità di diritti e di strumenti del nostro tradizionale welfare è ancora un valore reale, tuttavia non riesce a rispondere adeguatamente alla diversificazione della domanda sociale. Nei fatti si vanno affermando alcuni processi interessanti: l’autorganizzazione della domanda, attraverso l’associazionismo dei consumatori; lo sviluppo delle autonomie funzionali, specie nel campo sanitario; la responsabilizzazione delle comunità territoriali (consorzi di comuni, distretti sociosanitari, strutture finanziate dalle fondazioni bancarie).
Meno lineare è il processo di evoluzione della domanda-offerta in materia di sicurezza collettiva. La progressiva molecolarità dei comportamenti comporta un bisogno forte di sicurezza, e per soddisfarlo non si può pensare che basti o sia giusto il «fai da te». Resta perciò valido il ruolo delle istituzioni nazionali e statali di sicurezza pubblica, ma è positiva anche la tendenza all’assunzione di responsabilità da parte delle comunità di locali (De Rita cita come segni interessanti l’aumento dei compiti della polizia municipale, la sperimentazione del volontariato nei campi degli operatori della protezione civile e di quella ambientale e, in prospettiva, anche nel settore dei Vigili del fuoco).
Quest’ultima parte del libro è un po’ debole e non del tutto convincente. Del resto, la pars construens è sempre la più ardua. E poi non è colpa dell’autore se il paesaggio è così desolato e i segnali di ripresa così tenui. Occorrerà trascorrere ancora molto tempo ad «abitare la realtà» prima che si producano istituzioni resistenti. E sarà necessario che ad un profondo conoscitore del sociale come De Rita, che meritoriamente affronta di petto il nesso tra società e istituzioni, si affianchino altri, in particolare giuristi, dotati di vera attenzione ai processi reali e non persi dietro a schemini autocentrati di revisione costituzionale. La ricerca del nuovo sia davvero fatta mediante l’integrazione di tutte le diverse competenze. Questo è l’auspicio, visto quant’è importante il fine: nuove istituzioni in cui ci sia vita e non accidia suicida.
